IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXVI, 2024, Numero 2-3, Pagina 119

È TEMPO DI FARE GLI STATI UNITI D’EUROPA
 
Per la pace, la democrazia, la libertà in Europa e nel mondo*

L’appuntamento del XXXII Congresso nazionale del MFE, inizialmente anticipato per riallineare il nostro calendario interno alla tradizione di svolgere i Congressi in primavera, cade in realtà in un momento politico particolarmente rilevante, che coincide con l’avvio della nuova presidenza Trump, e i cambiamenti che questa introduce.

Le prime manifestazioni prepotenti del progetto MAGA, con le posizioni espresse da Trump per presentare la sua presidenza, unite al “protagonismo” in Europa di Elon Musk, mostrano la straordinaria accelerazione che la nuova Amministrazione USA tenterà di imporre al mondo, abbandonando completamente la tradizionale politica estera americana dal secondo dopoguerra in poi e portando gli Stati Uniti ad assumere una nuova postura internazionale molto più aggressiva e con mire di natura imperiale. Per l’Europa, che ha costruito la sua partnership strategica con gli USA proprio sulla base delle scelte internazionali degli Stati Uniti a seguito della Seconda guerra mondiale, è l’avverarsi di un incubo; non avendo mai voluto diventare autonoma, nel momento in cui da parte americana questa alleanza viene completamente ripensata e diventa volontà di dominio, la preoccupazione principale degli Stati europei è come riuscire a mantenere, in ogni caso, la protezione degli USA, senza la quale gli europei sono totalmente indifesi.

Parallelamente, le forze populiste, nazionaliste, illiberali guadagnano terreno negli Stati europei mettendo in discussione la tenuta della democrazia e l’ancoraggio al progetto europeo. Sono in parte il prodotto sia della crescente polarizzazione che si approfondisce all’interno delle società occidentali minandone ulteriormente la coesione, sia dell’infiltrazione sempre più penetrante ed efficace delle ingerenze dei diversi nemici della democrazia. Sono forze che la vittoria di Trump rende ancora più pericolose, oltre che più potenti, e che mirano a svuotare dall’interno lo Stato di diritto e l’Unione europea; forze contro cui l’UE non ha possibilità di intervento, dati lo strapotere degli Stati membri e le poche competenze esclusive e la mancanza di poteri autonomi di Commissione e Parlamento europeo; e che, anche se la coalizione delle forze che sostiene la Commissione europea è democratica ed europeista, si stanno rafforzando anche nelle istituzioni europee.

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Nell’autunno del 2023, nel preparare il nostro dibattito pre-congressuale, la presentazione delle tesi evidenziava come “ad un anno e mezzo dal ritorno della guerra in Europa, in uno scenario internazionale drammatico e di grande incertezza (…), l’Unione europea è chiamata a sfide nuove, che rendono centrali le scelte politico-istituzionali che farà in questi prossimi due-tre anni. Federalismo e confederalismo (ossia immobilismo rispetto agli equilibri attuali) sono le due alternative sul campo, e questa volta sarà una partita decisiva per le sorti del nostro continente e del mondo”. In questo anno e mezzo abbiamo avuto un’azione coraggiosa del Parlamento europeo scorso, che ha avviato la riforma dei Trattati, una capacità da parte di alcune forze all’interno del PE di ribadire la posizione, un appoggio a parole della Commissione europea, e una totale chiusura da parte dei governi nazionali (e di conseguenza del Consiglio europeo), che sono i “padroni dei Trattati” e quindi sovrani rispetto ai passi da compiere per il futuro dell’Unione europea.

La conseguenza, come avevamo paventato, è stato l’immobilismo — nonostante l’irrompere nel dibattito europeo dei rapporti Letta, Draghi e Niinistö — di cui si sono alimentati il nazionalismo e l’estremismo. Così, il “combinato disposto” del ritardo tecnologico e industriale, della dipendenza dall’esterno sul piano della sicurezza — dagli armamenti, alla logistica, alla tecnologia —, delle problematiche legate all’energia e alle materie prime critiche, dell’assenza di una politica estera che permetta all’UE di far sentire la propria voce nella politica internazionale invece di quella dei suoi staterelli membri, tutto questo, insieme alle conseguenze in tutti gli ambiti collegati e alla crisi sociale che ne deriva, sta creando la tempesta perfetta per l’Europa che, di fronte a Trump, vede esplodere tutte le debolezze e contraddizioni del proprio sistema politico-istituzionale. Questo era stato concepito per vivere e prosperare in un contesto internazionale aperto, ordinato e relativamente stabile (soprattutto per quanto riguarda sia la sicurezza, sia gli approvvigionamenti energetici e di materie prime critiche); e aveva prodotto un conseguente modello economico fondato su presupposti ormai non più validi (esportazioni, inutilità degli investimenti pubblici, scarsa attenzione all’innovazione, bassi salari, fiducia incondizionata nelle catene internazionali della produzione del valore, ecc.).

In questa tempesta, gli europei non hanno pertanto gli strumenti politici per reagire, perché come “comunità di destino” sono privi di una testa che possa organizzare una capacità di azione comune; il potere resta saldamente nelle mani dei governi nazionali che, con la loro inadeguatezza, reagiscono (e portano l’UE a reagire) in base alle risposte dettate dall’impotenza. Prova di tutto ciò sono la debolezza che stanno mostrando verso Trump le stesse istituzioni europee, persino di fronte alle minacce all’integrità territoriale europea attraverso gli attacchi a un suo paese membro, così come la corsa del governo italiano a fare da aprifila nel portare l’omaggio feudale al nuovo padrone o l’ammissione di impotenza della Commissione europea, inclusa la nuova Alta Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas, di fronte alla possibilità che l’Italia (“Stato sovrano che compie sovranamente le sue scelte) oggi appalti a Elon Musk la sua sicurezza nazionale, anche ponendo un problema di sicurezza europea se l’Italia dovesse partecipare a progetti di sicurezza comuni.

La realtà, è che senza un sussulto innanzitutto di dignità, e senza un progetto che contrapponga al trionfalismo degli imperi e del nazionalismo un nuovo esempio e contraltare di sovranità, ossia quella europea, il nostro destino è segnato. Per questo, tenere viva la battaglia per l’Europa federale è in questo momento la cosa più importate in assoluto.

Il MFE e l’UEF hanno sostenuto con convinzione in questo anno e mezzo, insieme al Gruppo Spinelli, il tentativo di fatto costituente del Parlamento europeo, unica opzione presente sul campo e, in sé, tentativo coraggioso di democrazia e federalismo. Questo progetto ha avuto più nemici che amici, persino in casa federalista, il che ha aiutato i governi nazionali a non pagare dazio per la loro mancanza di iniziativa, ma soprattutto ha indebolito la credibilità della democrazia, perché in troppo pochi hanno difeso la promessa fatta ai cittadini e preteso il rispetto degli impegni presi dalle istituzioni nazionali. Ora che i fatti dimostrano — se ce ne fosse stato ancora bisogno — che quella battaglia era la sola giusta in questi due anni, e che è attorno al valore e al significato intrinseco di questa scelta che si può cercare di raccogliere le forze che non si rassegnano al trionfo della nuova internazionale reazionaria e delle autocrazie, come vogliamo proseguire? Cosa vogliono e possono fare i federalisti? Questa è la domanda cui il nostro XXXII Congresso, tra due mesi, è chiamato a rispondere.

Entriamo in una fase nuova, dettata dal nuovo imperialismo americano. In questi anni che ci aspettano, la prospettiva federale resterà sul campo solo se ci sarà la capacità (in primis nostra) di tenerla viva, spiegando e dimostrando che è la condizione necessaria per la salvezza europea — con tutto quello che l’Europa significa e comporta. Sarà una fase in cui probabilmente avremo meno centralità e faremo più fatica a far ragionare le forze politiche; in Italia avremo il governo contrario e molto forte nella sua posizione. La nostra forza dipenderà dalla nostra serietà, coerenza, lucidità e quindi, in sostanza, capacità politico-culturale. Questa è la sfida che la dirigenza uscente e quella che si presenta per il prossimo biennio vorrebbero proporre al Movimento e per cui hanno scritto queste proposte di analisi su cui discutere. Queste tesi non hanno la pretesa di essere complete — mancano sicuramente moltissimi temi di attualità cruciali, tra cui un approfondimento oltre il semplice richiamo della questione migratoria, o un’analisi della guerra in Medio Oriente — ma cercano di identificare alcune priorità politiche rispetto alle quali, come organizzazione federalista attiva in Italia e in Europa, è importante cercare di esercitare un ruolo.
 

Il contesto internazionale 

Il quadro internazionale in questa fase è caratterizzato da due aspetti antitetici e conflittuali: da un lato, sono sempre più pressanti le sfide globali e transnazionali — dal clima, alla salute, alle migrazioni, alle questioni poste dallo sviluppo delle tecnologie digitali e alla proliferazione nucleare — e l’interconnessione è profonda come mai nella storia dell’umanità; dall’altro viviamo una frammentazione politica estrema, alimentata anche dalla mancanza di una leadership dotata di una visione e un insieme di valori che aiutino a veicolare verso obiettivi comuni le istanze dei diversi Stati. È un mondo in cui spicca la superiorità militare statunitense e in cui si fa strada un duopolio economico USA e Cina, con quest’ultima che (nonostante le difficoltà e le contraddizioni interne) sta ormai raggiungendo la prima economia del mondo; ma è anche un mondo in cui i fronti sul piano politico sono fluidi, perché se l’asse tra Cina, Russia, Iran, Corea del Nord — contrapposto a quello “occidentale” a guida americana — sembra consolidarsi, e in molti casi attrarre nuovi alleati, dall’altro molti Stati giocano ambiguamente su entrambi i fronti. Gli Stati più potenti e ricchi del cosiddetto Sud globale (i BRICS vecchi e nuovi, tolte Cina e Russia, per intendersi) giocano a tutto campo la loro partita per guadagnare maggiore potere e spazio politico, oltre che economico; mentre gli Stati più marginali, anche più poveri, restano, e vengono lasciati, tendenzialmente fuori dai giochi. Tutti poi tendono a giocare in base a interessi specifici nazionali, e l’alleanza è frutto di convergenza di interessi e di “nemici” comuni, piuttosto che di una visione condivisa che si vuole affermare nel mondo; basti pensare ai modelli radicalmente diversi sul piano del regime, del modello economico, del riferimento valoriale che incarnano questi quattro Paesi che guidano la contrapposizione all’ “Occidente”.

In questo scenario, l’emergenza climatica è un fattore ulteriormente dirompente, per le sue conseguenze devastanti e per gli effetti che provoca su regioni così ampie da provocare spostamenti di dimensioni bibliche; insieme all’instabilità provocata dalle guerre e dalle crisi alimenta la nuova emergenza globale dei flussi migratori, di fronte ai quali gli Stati — inclusi quelli europei — e le istituzioni internazionali restano impreparati e spesso impotenti, alimentando in vasti strati dell’opinione pubblica una reazione di chiusura e razzismo che alimenta le forze anti-democratiche.

Infine, tra le grandi incognite con cui ci dobbiamo confrontare, non si può fare a meno di evidenziare il fatto che si fa anche sempre più pressante il peso e il ruolo dei grandi monopolisti della tecnologia digitale, in particolare (ma non solo) per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale e lo sfruttamento dello spazio. La connessione con il potere politico di questi soggetti (attuale e in prospettiva) e l’influenza che esercitano o che potranno veicolare nel prossimo futuro, le questioni che pongono riguardo al problema del rapporto tra democrazia e concentrazione della ricchezza privata, le distorsioni che lasciano presagire sono a loro volta macigni sul futuro dei nostri sistemi politici e sociali.
 

1. L’arretramento delle democrazie.

Una tendenza che si sta affermando in modo diffuso è l’arretramento della democrazia nel mondo: non solo come regime di governo nei paesi in cui c’è stato nel recente passato il tentativo di affermarlo, o vi era la potenzialità per farlo o per andare in quella direzione; ma anche nel senso dell’indebolimento delle liberal-democrazie consolidate e della crescita delle forze illiberali, populiste, estremiste, tutte accomunate dal nazionalismo. Il fenomeno è evidente in Europa, ma ha avuto una conferma impressionante negli Stati Uniti, con l’elezione di Trump. Questo non significa, naturalmente, un automatico trionfo delle forme autocratiche. Lo dimostra il fatto che, in alcuni casi, proprio dove più la democrazia è stata messa a rischio, si sono viste proteste, manifestazioni e iniziative popolari per sottolineare la necessità di un sistema politico fondato sullo stato di diritto e quindi sulla libertà di stampa, della magistratura e sui diritti umani. In tale contesto vanno annoverate, ad esempio, le manifestazioni in Georgia e Slovacchia tra la fine del 2024 e l'inizio del 2025.

Resta tuttavia una tendenza generale che vede l’indebolimento dei regimi democratici. Le cause di questa debolezza della democrazia sono molteplici, e molte riguardano le specificità dei singoli paesi. Ovunque, sicuramente, pesa l’irrompere sulla scena politica e sociale delle nuove tecnologie e dei social media, e quindi dell’interferenza di attori nemici, mediante la manipolazione dell’opinione pubblica e il finanziamento delle forze antisistema, in cui eccelle la Russia, sulla base della dottrina Gerasimov che teorizza l'implosione interna dei sistemi liberal-democratici occidentali. Si tratta quindi di un arretramento che rientra anche tra gli effetti delle nuove forme di guerra ibrida in cui siamo già fortemente immersi anche in Europa, insieme alle infiltrazioni di agenti stranieri, i tentativi di sabotaggio, gli hackeraggi, ecc. Il fatto che l’arretramento avvenga è però anche frutto di un malessere più generale di cui soffre la democrazia, e che ha radici profonde e non solo contingenti. Sicuramente, gli errori politici e di valutazione che hanno caratterizzato la politica americana ed europea dopo la caduta dell’Unione sovietica e il modello di globalizzazione perseguito (che, se ha sollevato dalla povertà amplissime fasce della popolazione, soprattutto in Asia, ha anche impoverito molte aree dell’occidente e marginalizzato territori, attività produttive e categorie di lavoratori) hanno indebolito il tessuto sociale delle democrazie e contribuito a minare la fiducia nella politica democratica e nelle sue istituzioni. In Europa si aggiunge poi l’inadeguatezza dei governi nazionali per le dimensioni e le risorse irrisorie che gli Stati europei hanno di fronte alle sfide complesse della nostra epoca; un’inadeguatezza che, per quanto in parte compensata dal processo di unificazione europea, ha radici lontane per gli europei. In generale, però, oltre a tutto questo c’è anche una difficoltà ad elaborare e veicolare, da parte della politica democratica, una visione forte del messaggio e degli obiettivi da condividere con i cittadini, che contribuisca a sviluppare un forte senso civico di comunità e di responsabilità collettiva. Nell’intervista rilasciata a Le Grand Continent il 16 novembre 2020, Emmanuel Macron rifletteva proprio su questo punto, cogliendo la fine di un’epoca della politica internazionale basata sul ruolo di guida delle democrazie da parte degli Stati Uniti; e richiamava proprio l’esaurimento della forza propulsiva, e quindi gli attuali limiti, della dottrina e del modello americano, e la sua inadeguatezza rispetto ai problemi e alle sfide del XXI secolo, legati alle transizioni climatiche e digitali, a forti cambiamenti culturali e sociali, alla necessità di nuovi partenariati a livello internazionale. In parallelo Macron richiamava l’Europa a farsi sovrana per poter dare un contributo politico, culturale e valoriale in grado di rafforzare la democrazia e il suo valore agli occhi dei cittadini, e per riempire i vuoti lasciati da Stati democratici troppo deboli o troppo poco capaci di far sentire ai cittadini la protezione e la condivisione di una missione comune.

L’insufficienza del grado di integrazione raggiunto dall’Unione europea per potersi fare modello e protagonista di un rilancio del concetto e della funzione dello Stato democratico e della democrazia tout court, è stato quindi un fattore molto influente nel processo di indebolimento della democrazia; a questo si è unito il fatto che le forze democratiche (al di là delle singole eccezioni) non hanno saputo fare propria e sviluppare fino in fondo la visione federale della battaglia europea e riempire in questo modo di nuovo valore e contenuti la loro riflessione sullo Stato democratico di fronte ai grandi cambiamenti del quadro mondiale. Come federalisti è una riflessione importante che abbiamo compiuto in tante occasioni (ricordo su tutte l’incontro nazionale dell’Ufficio del Dibattito svoltosi a Firenze il 17-18 ottobre 2020 su Il federalismo e i concetti di potere politico, potenza, statualità e sovranità), sottolineando come la Federazione europea avrebbe un impatto cruciale nel rafforzamento dell’idea e della pratica democratica e dello stesso concetto di Stato democratico: sia perché mostrerebbe un modello più evoluto e avanzato, basato su un allargamento e un rafforzamento dell'orbita della democrazia e della solidarietà per unire i popoli in una comunità di destino, sia perché sarebbe un attore politico democratico e portatore di una visione di un nuovo ordine mondiale basato sulla ricerca della convergenza degli interessi di tutti i paesi di fronte alle sfide comuni.

È questa una delle ragioni fondamentali per cui la battaglia politica per portare a compimento il progetto di unificazione europea, dando vita ad un’Unione federale, è tout court la battaglia per salvare in questa fase la democrazia portandola poi anche a livello internazionale e rilanciandola in contrasto con i richiami delle autocrazie e dei valori e modelli che queste offrono ad un’opinione pubblica disorientata. L’attuale assetto europeo, oltre a condannarci all’impotenza e al vassallaggio, è anche quindi un enorme vulnus per la democrazia in quanto tale, e stupisce come in questa prospettiva non sollevi scandalo il fatto che questa Unione europea e i governi nazionali seppelliscano il maggiore esercizio di partecipazione democratica mai organizzato dall’UE — la Conferenza sul futuro dell’Europa — e la conseguente proposta e richiesta che viene dal Parlamento europeo per riformare i Trattati sulla base di quanto emerso durante la CoFoE. È un oltraggio ai cittadini e alla partecipazione civica che toglie credibilità alle istituzioni che si comportano con tanta negligenza e disprezzo e che in questo accrescono il senso di distacco dei cittadini dalla politica.
 

2. La terza guerra mondiale a pezzi e gli effetti sulla globalizzazione.

L’affermazione di Papa Francesco sul fatto che siamo ormai di fronte “alla terza guerra mondiale a pezzi” riflette il fatto che, in questa frammentazione politica che caratterizza il nostro mondo interconnesso privo di attori politici pacificatori, si moltiplicano le guerre e i focolai di crisi per la contesa del controllo politico, economico e militare. È una tendenza che non si placherà nel breve-medio termine, proprio perché non si profila all’orizzonte nessun cambiamento positivo sotto questo punto di vista, e che mantiene nell’incertezza le prospettive anche economiche, oltre a quelle legate alla sicurezza, anche perché non si può escludere un ulteriore peggioramento.

Per l’Europa, sul piano della sicurezza, la situazione è drammatica, perché abbiamo ormai la guerra in casa, dal 24 febbraio 2022, e in più le opinioni pubbliche dei nostri paesi tendono a rifiutarsi di prenderne atto e faticano a capire che l’Ucraina non combatte solo per la propria libertà e il proprio futuro, ma per quello dell’Europa intera. L’arrivo di Trump costituisce un’enorme incognita sugli sbocchi di questa tragedia; è inutile lanciarsi in previsioni, perché gli scenari restano aperti. L’Ucraina resiste, nonostante tutto, e la Russia è attraversata da una crisi economica che sta manifestandosi ormai in modo eclatante, nonostante il supporto che riceve dagli amici dell’asse delle potenze autocratiche; i tempi di avanzamento dell’esercito russo sono comunque lenti e incompatibili, al momento, con l’occupazione completa delle regioni che costituiscono l’obiettivo essenziale di Putin. Mantenere gli impegni presi (purtroppo troppo spesso con avarizia, verrebbe da dire) dagli USA e dall’UE e inasprire le sanzioni potrebbe portare la Russia a dover negoziare la tregua (comunque non sarebbe una pace) su posizioni di debolezza, e la cosa potrebbe anche piacere alla nuova Amministrazione americana; ma troppo è nelle mani del nuovo dominus della politica statunitense per poter esprimere qualche certezza. Quello che è certo, invece, è che gli europei sono, ancora una volta, in una situazione di impotenza, e che questa volta è un’impotenza pericolosissima, perché abbiamo il nemico alle porte. Tra i tanti interventi possibili, ricordiamo solo — perché di questi giorni e pubblicata su un quotidiano destinato al largo pubblico — l’intervista al Corriere della Sera (17 gennaio) del neo presidente del Comitato militare della NATO, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che sollecita gli Stati europei (che, come lui stesso ricorda, sono sovrani, e decideranno i tempi e i modi in base alle loro decisioni politiche) a spendere di più e, ancor prima, meglio (“Difendiamo a spada tratta la nostra sovranità industriale, sbagliando”; “I Paesi UE membri della NATO hanno 172 sistemi di arma differenti, contro i 35 degli americani”). Per preservare la pace, ammonisce l’ammiraglio, gli europei devono capire di essere in pericolo e investire sulla loro capacità di deterrenza rispetto ad un nemico come Putin che testa quotidianamente la nostra capacità di reazione. Torneremo più avanti, in queste tesi, sulla questione della difesa europea.

Sotto l’effetto delle tensioni internazionali — e avendo ormai sperimentato la vulnerabilità che deriva dalla dipendenza esterna per l’approvvigionamento di materie prime o energetiche critiche o per la produzione di manufatti strategici — è in corso anche una ridefinizione dei rapporti economici e commerciali che hanno caratterizzato la prima fase della globalizzazione. Si tratta di un processo molto rischioso, dato che la globalizzazione è pienamente viva, perché l’interdipendenza globale è conseguenza di un livello oggettivo di evoluzione tecnologica nelle comunicazioni e nei trasporti. Promuovere svolte autarchiche significa quindi impoverirsi sicuramente, ma anche lasciare tutto il campo a soggetti imperiali non interessati a una regolazione politica del fenomeno. L’Unione europea, in questo quadro, è particolarmente vulnerabile, sia perché è una regione povera di materie prime, sia perché ha un’economia orientata all’esportazione e una produzione fortemente integrata nelle catene globali del valore. Non può quindi permettersi una svolta autarchica; ma paga la sua debolezza politica ora che alcuni assiomi su cui il suo modello si è fondato si sono esauriti con il cambiamento dei rapporti internazionali. Non solo quindi, come vedevamo sopra, la dipendenza dagli USA in materia di sicurezza è diventata altamente problematica, o l’UE ha dovuto vivere lo shock, anche sui prezzi, per aver necessariamente rinunciato, almeno in gran parte, alle forniture del gas russo; ma, in generale, l’Europa subisce il peso della dipendenza sulle materie prime critiche, sulla tecnologia e sulla produzione di beni strategici e paga il fatto di aver adottato un modello produttivo trainato dall’esportazione, a fronte di cambiamenti profondi nei mercati mondiali. Nonostante i segnali presenti già da anni di una trasformazione dei rapporti internazionali, l’UE non è riuscita a modificare in modo minimamente sufficiente il proprio sistema per poterli affrontare e, analogamente a quanto accade sul fronte della sicurezza, anche sul piano tecnologico e produttivo, e della competitività generale del sistema, ha iniziato una fase di netto declino, destinato a peggiorare nel quadro di grande instabilità che si profila, a meno che non avvii una profonda riforma del proprio assetto politico-istituzionale, mettendo mano ai Trattati.

In particolare, il processo di de-risking che nel quadro attuale l’UE è chiamata a mettere in campo è complesso e delicato: richiede capacità di rivedere i rapporti economici innanzitutto con la Cina per allentare le dipendenze dosando le misure difensive e offensive per cercare di riequilibrare i rapporti senza arrivare a romperli; richiede capacità di diversificare tantissimo le fonti di approvvigionamento e, in parallelo, la creazione di nuovi partenariati, soprattutto con i paesi del Sud del mondo; richiede di aumentare la produzione interna sulla base di una strategia comune, attraverso una politica industriale che necessita di ingenti investimenti, che in parte non possono che essere pubblici. Per affrontare tutto questo, come scrive Natahlie Tocci in La grande incertezza, “bisogna avere le spalle grosse politicamente, finanziariamente e istituzionalmente”; in particolare, la stessa Tocci evidenzia come, a fronte della necessità di una notevole capacità di spesa pubblica, “l’Europa arranca […perché] il bilancio comunitario è irrisorio” e il fatto di cercare di compensare questa carenza facilitando la possibilità degli aiuti di Stato nazionali va solo ad aumentare le disparità interne all’UE.

Di fronte all’acuirsi dell’instabilità e dei rischi a livello internazionale, è dunque evidente che gli Stati europei dovrebbero accettare di ridimensionare la loro sovranità obsoleta negli ambiti in cui non corrisponde a nessuna capacità di azione autonoma, per costruirne una effettiva condivisa a livello europeo, facendo diventare l’UE un soggetto capace di esercitare un’autorità politica democratica, internamente ed esternamente. In questo modo gli europei avrebbero gli strumenti per affrontare con efficacia il problema di invertire il declino, di recuperare la competitività perduta, di avere un ruolo internazionale autorevole, di costruire una capacità di difesa davvero autonoma. Il non farlo, il non diventare un’Unione federale, fa pagare un prezzo altissimo non solo ai cittadini europei, ma anche a quelli dei Paesi candidati e al mondo intero.

L’immobilismo politico di questa UE mette infatti a rischio innanzitutto il processo di allargamento. L’orientamento in base al quale è diventato cruciale includere i nuovi membri non è più l’allargamento del Mercato, ma è legato a ragioni geopolitiche e di sicurezza; serve, in qualche modo, per andare a stabilire i confini del “sistema Europa”, in contrapposizione ai paesi al momento ostili. È un processo che mal si concilia con i tempi rallentati di un’Unione sempre bloccata da veti incrociati, lunga nei tempi e debole nel sostegno politico alle forze che all’interno di questi Stati candidati si battono perché la rotta verso l’Europa venga mantenuta. Mentre la Russia esercita un’influenza fortissima, nonché fraudolenta, in questi Paesi, spostando spesso l’equilibrio delle forze in chiave a lei favorevole, l’UE non riesce a fare muro e a dare un sostegno concreto a chi guarda verso di lei e si sente parte della famiglia europea. Questo non significa che l’UE debba sorvolare sui passaggi che questi Stati devono fare per riformare il proprio sistema politico-istituzionale in modo da rafforzarne la democraticità e l’aderenza allo Stato di diritto, così come sono necessari tutti gli adeguamenti normativi ai fini dell’ingresso nel Mercato unico; ma è evidente che un’Europa davvero politica darebbe davvero priorità a questo processo e avrebbe gli strumenti per includere già in forme di collaborazione e partecipazione questi Stati e legarli a sé, sostenendo le spinte pro-europee. Del resto, proprio per questo si era iniziato a parlare della Comunità politica europea come di un cerchio di pre-integrazione, che invece, nell’immobilismo europeo, è diventato subito un forum internazionale senza efficacia. Non si può, in sostanza, chiudere gli occhi di fronte al fatto che questa UE rischia di tradire le aspettative dei cittadini che aspirano a diventare parte integrante dell’Europa come comunità politica.

La debolezza politica dell’Unione europea sulla scena internazionale ha poi ulteriori conseguenze gravissime, proprio perché l’assenza europea pesa gravemente in molti ambiti cruciali, oltre che costituire, in generale, un vuoto di potere, dovuto al fatto che una delle regioni più ricche e sviluppate al mondo non riesce a svolgere nessuna funzione di leadership a livello mondiale. Un’Europa autorevole politicamente potrebbe fare molto per difendere il principio della centralità del diritto internazionale, dall’integrità territoriale degli Stati, al diritto umanitario; potrebbe creare veri partenariati con i paesi più fragili del Sud del mondo, per sostenere ad esempio la loro transizione energetica e l’emergenza climatica; potrebbe contribuire efficacemente alla riforma delle istituzioni multilaterali, per rendere più equa la distribuzione del potere nel mondo, e in questo modo aprirebbe canali per relazioni proficue anche con molti dei maggiori paesi del Sud globale. Per non parlare poi del fatto che potrebbe contribuire a sviluppare i processi di integrazione regionale nelle diverse aree del mondo, e a livello globale avrebbe un’influenza sulla possibilità di rafforzare la cooperazione per fronteggiare le sfide comuni; addirittura, iniziare a concepire la messa in comune di sovranità su alcune materie specifiche, funzionali alla lotta per l’emergenza climatica, non sarebbe più utopia come è ora, ma un progetto che potrebbe essere portato avanti.

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In conclusione, la democrazia in quanto tale, gli Stati e le forze democratiche, il mondo tutto, avrebbero un grande bisogno di un’Europa federale. Non procedere in quella direzione è una grave colpa degli Stati europei e i federalisti non devono stancarsi di ripeterlo, di spiegarlo, di dimostrarlo.
 

L’Europa di fronte a Trump 

Come si ricordava nell’introduzione, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca inaugura una nuova era della politica americana, internamente ed esternamente. Se, come scrive Sergio Fabbrini su Il Sole 24 ore di domenica 19 gennaio, i rischi che corre la democrazia americana sono altissimi, e bisognerà vedere se i contropoteri interni saranno sufficienti a bloccare la deriva che la nuova Amministrazione cercherà di affermare, sul piano internazionale è indubbio che si chiude un’era della politica americana, fondata sull’internazionalismo democratico e sul progetto di preservare un ordine liberale, e si apre una nuova fase. L’indicazione più calzante circa il nuovo orientamento ci pare lo abbia dato subito Le Grand Continent che individua nelle dichiarazioni e nei programmi di Trump una volontà imperiale. Del resto, il riferimento alle aspirazioni imperiali vale per la Russia e per la Cina, e ora Trump se ne appropria per riorganizzare innanzitutto “l’Occidente”, dove gli alleati diventano vassalli valutati in base al grado alla fedeltà che dimostrano. Che questo sia lo stato d’animo di Trump, sembra innegabile; e di fronte a questa sua volontà, che include il desiderio di abbandonare tanti “orpelli” del sistema democratico e di non nascondere il fatto che contano il profitto, la de-regolamentazione, il nazionalismo americano che si fa dominio, l’Europa è in una posizione particolarmente difficile. Trump mira a indebolire ulteriormente l’UE — che disprezza per la sua debolezza politica e che considera ostile sul piano commerciale, sia per lo squilibrio della bilancia commerciale, sia per le politiche di regolamentazione che produce — e a trattare con i singoli Stati bilateralmente, trovando molta predisposizione in tal senso in tanti governi, e in primis, notoriamente, quello italiano. A ciò si aggiungono le incognite legate all’alleanza di Trump con Elon Musk e il pronto asservimento delle altre Big Tech al nuovo corso.

L’Unione europea è ben consapevole delle sue debolezze; lo sono le istituzioni europee e lo sono gli Stati membri. Per quanto riguarda le prime, il Parlamento aveva proposto come darsi gli strumenti per superare tali debolezze, con la riforma dei Trattati, e la Commissione europea aveva chiesto di predisporre due rapporti a Mario Draghi sulla competitività e a Sauli Niinistö sulla sicurezza, proprio per mettere nelle mani dei governi i dati incontrovertibili dei ritardi e delle vulnerabilità europee, facendo emergere al tempo stesso la causa fondamentale di tale situazione, ossia la frammentazione finanziaria, economica e politica e la mancanza di potere decisionale e di governo a livello europeo. Gli stessi governi conoscono la veridicità delle analisi dei due rapporti e lo stato dei propri sistemi nazionali, e sanno l’inconsistenza di risposte che non siano europee, ma, nel momento in cui non accettano di porsi nell’ottica di costruire una sovranità condivisa e una capacità di governo comune, non riescono in nessun modo a creare le condizioni per condividere una strategia europea efficace. Anche se a parole accettano l’agenda della Commissione proposta sulla base dei rapporti, non sono in grado di metterla in pratica. Persino le indicazioni contenute nel terzo rapporto, quello commissionato a Enrico Letta sul Mercato unico, restano al momento lettera morta, pur essendo possibili a Trattati costanti e pur essendo state recepite nelle conclusioni del Consiglio europeo (circa un anno fa) durante il quale Letta le ha presentate; persino l’unione del mercato dei capitali, il completamento del mercato in materia di energia, industria, inclusa quella della difesa, ricerca e innovazione incontrano l’opposizione dei governi che percepiscono queste materie come troppo vicine al cuore della sovranità, e come tali riservate agli Stati, dimostrando che la bussola della sovranità nazionale impedisce di ragionare in termini di interesse generale e di costruire una maggiore integrazione. Senza accettare il passaggio all’unione politica di tipo federale, gli Stati restano, ancora una volta, incapaci di progredire sul piano europeo, che pure tutti invocano. In questo modo gli europei, troppo divisi, rimangono deboli e impotenti, e incapaci di determinare il proprio destino, cadendo così nelle mani di attori esterni pronti ad usare la nostra debolezza.
 

1. La perdita di competitività e il declino degli europei.

Come abbiamo scritto nel Quaderno federalista dedicato al rapporto Draghi sul futuro della competitività europea (https://www.mfe.it/port/documenti/campagne/2024-convocazione-convenzione/241120-QF- Rapporto-Draghi.pdf ), questo documento analizza le debolezze dell’intero sistema europeo e affronta la questione sia della necessità di una nuova strategia industriale comune, sia della necessità di adeguare la governance dell’UE. L’Europa, infatti, in questi anni ha perso molto terreno rispetto ai suoi maggiori competitors (la Cina e gli Stati Uniti), in particolare nei settori tecnologici d’avanguardia dove non è stata capace di tenere il passo con l’innovazione, con grave danno anche per la produttività, che in Europa è rimasta troppo bassa; inoltre, l’Europa soffre per la dipendenza dall’esterno in molti settori strategici (oltre che nel settore tecnologico, in particolare in quello della sicurezza, dell’approvvigionamento delle materie prime essenziali e dell’energia), per il tasso troppo basso di investimenti e per la scarsa efficienza nel reperimento delle risorse necessarie per la crescita, per la frammentazione del mercato dei capitali e del sistema bancario. Questo crescente ritardo dell’Unione europea si traduce in un trend di progressivo impoverimento delle nostre società e di ampie fasce di cittadini, nell’aumento delle diseguaglianze e nella conseguente perdita di coesione sociale, in una crescente difficoltà a mantenere i livelli di welfare che l’Europa era riuscita a raggiungere e nell’indebolimento del tessuto democratico negli Stati membri. Tutto ciò, unito alla nostra dipendenza strategica e all’impossibilità di garantire autonomamente la nostra sicurezza, mette seriamente a rischio anche la nostra libertà.

La ragione fondamentale del malfunzionamento del sistema — che il Rapporto Draghi dimostra fattualmente con continui esempi concreti — è legata alla frammentazione finanziaria, economica e, in ultima istanza, politica dell’Unione europea. Sempre e in ogni materia, la causa dell’impossibilità per l’Unione europea di sviluppare l’enorme potenziale di cui ancora dispone è legata al permanere di un sistema parcellizzato in quadri politici e normativi nazionali e all’incapacità degli Stati membri di compiere i passi decisivi verso un’indispensabile maggiore integrazione che dia vita ad un quadro realmente unitario.

Questa frammentazione impedisce all’UE di elaborare una strategia efficace comune. “Oggi”, si legge nel rapporto, “le politiche industriali efficaci — come quelle degli Stati Uniti e della Cina — comprendono strategie multi-politiche, che combinano politiche fiscali per incentivare la produzione interna, politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali all’estero e politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento. L’UE non riesce a produrre una risposta di questo tipo a causa della sua complessa struttura di governance e del processo di elaborazione delle politiche che è lento e disaggregato”. Gli Stati membri, prosegue il rapporto, agiscono ciascuno in un’ottica di protezione dei propri interessi nazionali, invece di dare priorità al reciproco coordinamento; e questa mancanza di coordinamento vale anche per gli strumenti finanziari.

In sostanza, il rapporto Draghi conferma che il vero problema dell’UE è quello di acquisire consapevolezza della necessità di cambiare il proprio modello economico e di governance. Il Mercato unico, in cui la politica, inclusa quella industriale, rimane nazionale e, come tale, debole, non è più sufficiente, perché oggi serve agire insieme con decisione in tutta una serie di ambiti che al momento restano prerogativa degli Stati membri, laddove la visione e gli strumenti nazionali sono del tutto inadeguati e impotenti. Per questo, l’UE deve farsi vera unione politica e darsi gli strumenti di governo adeguati a fronteggiare le nuove sfide. Le potenzialità per recuperare il terreno perduto ci sono, e, anzi, l’UE avrebbe i numeri per diventare un modello virtuoso per il resto del mondo; ma serve — come Draghi ha già ricordato in altre occasioni — che, con un utilizzo pragmatico del federalismo, l’UE “si faccia Stato”. Come si legge nel rapporto, “In molti settori, l’UE può ottenere grandi risultati compiendo un gran numero di piccoli passi, ma deve farlo in modo coerente, allineando tutte le politiche all’obiettivo comune. In altre aree, tuttavia, è necessario un numero ridotto di passi più ampi, delegando all’UE compiti che possono essere svolti solo a questo livello.”
 

2. La questione della sicurezza.

Rispetto alle strategie e ai progetti che l’Unione europea ha elaborato nel passato, anche recente, per ipotizzare di costruire una difesa comune, le condizioni sono profondamente cambiate. Oggi non ci troviamo più di fronte ad uno scenario in cui l’UE aveva come obiettivo prioritario l’impegno per le missioni all’estero, soprattutto al servizio di missioni NATO o delle organizzazioni internazionali e principalmente volte al mantenimento della pace o al monitoraggio/mantenimento di situazioni di tregua; la priorità oggi è la difesa dalle aggressioni esterne sul nostro stesso territorio, o la capacità di resilienza di fronte a crisi naturali o sanitarie di entità tali da mettere in pericolo la stabilità di uno Stato membro o dell’UE nel suo insieme. Anche queste ultime eventualità, infatti, in un quadro di guerra ibrida in cui siamo ormai pienamente coinvolti, rischiano di offrire ad agenti esterni “non-amici” opportunità di qualche forma di intrusione e/o aggressione. La sicurezza oggi investe tutti i campi della vita politica, economica e civile e tutti gli attori pubblici e privati, inclusi i cittadini (anzi, i cittadini in primis). Il lavoro di Niinistö su questo tema è illuminante, e acquisisce anche maggiore importanza alla luce dell’avvio della presidenza di Trump.

L’obiettivo del suo rapporto è “preparare l’Europa a un mondo più pericoloso”, partendo dalla consapevolezza che “la sicurezza è la base su cui si costruisce tutto”. “All'inizio di questo decennio”, scrive Niinistö nella prefazione, “l’Europa si è svegliata con una nuova realtà. La pandemia COVID-19 è stata una crisi di natura e portata per la quale tutti gli Stati membri e l’UE nel suo complesso non erano sufficientemente preparati. L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia ha dimostrato che bisogna essere in due per mantenere la pace, ma solo uno per iniziare una guerra. L’invasione della Russia ha anche sottolineato la percezione che Putin ha da tempo dell’Occidente e dei popoli occidentali come deboli. Inoltre, l’aumento dei danni causati da eventi meteorologici estremi sta costringendo gli europei a chiedersi non solo come i cambiamenti climatici influenzeranno le generazioni future, ma anche a cosa dobbiamo prepararci oggi. […] Lenin istruì i bolscevichi durante la guerra civile russa a ‘sondare con le baionette: se trovate molle continuate. Se trovate acciaio, fermatevi’. A cento anni di distanza, gli attori opportunisti di oggi utilizzano lo stesso metodo. Ci prendono di mira cercando i punti deboli della nostra protezione, approfittando delle nostre divisioni politiche, della mancanza di coesione sociale e delle dannose dipendenze economiche, cercando di armare tutto ciò che possono contro di noi. Per essere ben preparati, un requisito fondamentale è non essere un bersaglio facile”. “Abbiamo bisogno di preparazione e forza non per fare la guerra, ma per mantenere la pace. Il rischio di un’aggressione russa al di fuori dell’Ucraina non può essere escluso. Prepararsi a questo rischio non è in alcun modo un’escalation, ma intende piuttosto scoraggiare la Russia o qualsiasi altro attore dal prendere di mira l’Unione e i suoi Stati membri. Il miglioramento delle capacità di difesa degli Stati membri dell’UE è necessario per garantire che essi siano in grado di sostenersi reciprocamente in linea con gli obblighi previsti dai Trattati UE e di contribuire a un rafforzamento della deterrenza”.

Per riuscire a prepararsi a preservare la nostra sicurezza in questo scenario, è necessario un cambiamento di mentalità all’interno dell’UE, che deve avvenire in tutto lo spettro delle attività. Bisogna innanzitutto riuscire a costruire la fiducia tra tutte le autorità pubbliche — gli Stati membri, le istituzioni europee e i livelli di governo e amministrativi interni — insieme al settore privato e alla società civile. “In ultima analisi, la preparazione inizia e finisce con la fiducia dei cittadini che la comunità politica in cui vivono valga la pena di essere protetta e difesa”. Inoltre “il fatto che tutti gli Stati membri si trovino sulla stessa barca che naviga in acque agitate vale tanto per la sicurezza quanto per l’economia”, prosegue Niinistö. “La necessità fondamentale di migliorare la nostra competitività è stata recentemente evidenziata nella relazione del consigliere speciale Mario Draghi. Il legame tra competitività e sicurezza funziona in entrambi i sensi ed è particolarmente importante se si considera che la quota dell’UE nell’economia mondiale e la sua popolazione si stanno riducendo. Solo un’Europa competitiva dal punto di vista economico è in grado di mantenersi sicura e di influenzare gli sviluppi globali, anziché limitarsi a adattarsi ad essi, e di offrire alle imprese il contesto migliore per crescere e avere successo”. A ciò si aggiunge l’importanza del collegamento tra la strategia industriale e la politica estera e di sicurezza (“Per massimizzare la capacità industriale e la produzione di R&S, l’UE deve rafforzare i legami tra l’industria della difesa e altri settori industriali strategici, non solo nell’aerospazio, ma anche nella cantieristica, ad esempio, dove sono emerse importanti dipendenze esterne, con la Cina che domina il mercato globale. Con l’ulteriore rafforzamento di questi ecosistemi industriali, è necessario garantire la sicurezza della produzione, delle forniture e delle informazioni sulla tecnologia, ecc. I requisiti generali di riduzione delle vulnerabilità e delle dipendenze della catena di approvvigionamento, di rafforzamento della sicurezza degli approvvigionamenti e di diversificazione delle forniture di materie prime, nonché di costituzione di scorte strategiche, si applicano a maggior ragione alle forze armate”).

Per quanto riguarda le lacune più evidenti che bisogna prioritariamente affrontare, secondo Niinistö, due in particolare sono cruciali: il fatto che non abbiamo un piano chiaro su cosa farà l’UE in caso di aggressione armata contro uno Stato membro (e la minaccia di guerra posta dalla Russia alla sicurezza europea a suo parere ci obbliga ad affrontare questo aspetto come elemento centrale della nostra preparazione, senza compromettere comunque il lavoro di preparazione ad altre minacce importanti legate alle perturbazioni dell’economia globale, ai disastri causati dai cambiamenti climatici o a un’altra pandemia); e il fatto che non abbiamo la capacità globale di riunire tutte le risorse necessarie dell'UE in modo coordinato, per prepararci — e, se necessario, agire — in risposta a gravi shock e crisi intersettoriali e transfrontaliere.

Partendo da questo quadro analizzato dal Rapporto Niinistö si pone con chiarezza anche la questione della costruzione di una difesa europea. Innanzitutto, la difesa è parte del sistema generale di sicurezza di una comunità politica, prima di tutto fondata su una cittadinanza europea sentita e partecipata e, a specchio, su istituzioni federali. Solo con una chiara politica interna sovranazionale (basata sul corretto uso del concetto di sussidiarietà) si possono mettere in comune le informazioni sensibili, l’operato dei servizi di sicurezza, il coordinamento delle protezioni civili, ecc.. Inoltre, solo con un sistema istituzionale federale (che crea un circuito di vita democratica anche a livello europeo) la cittadinanza europea si concretizza pienamente, sviluppando anche il senso civico di appartenenza ad una comunità sovranazionale che si sente come propria.

Per quanto riguarda specificamente la difesa, la sua costruzione passerà prima di tutto dallo sviluppo di una capacità industriale e tecnologica comune e dal coordinamento e lo sviluppo dell’interoperabilità delle forze armate nazionali. Questo, come è noto, passa attraverso anche la coerenza negli armamenti, oggi parcellizzati, come ricordava anche l’ammiraglio Cavo Dragone nell’intervista già citata. L’UE ha già preso molte iniziative nel campo della difesa, che il rapporto riporta: dopo l’ondata di iniziative dell’UE in materia di difesa nel periodo 2016-2020, tra cui il lancio della Cooperazione Strutturata Permanente e del Fondo europeo per la Difesa, nuovi passi sono stati compiuti sulla scia dell’aggressione russa all’Ucraina attraverso la Bussola strategica per la Sicurezza e la Difesa (marzo 2022) e l’Analisi delle lacune negli investimenti per la difesa (maggio 2022). Sulla base del successo iniziale del Fondo europeo per la difesa, sono stati sviluppati nuovi strumenti di finanziamento innovativi per gli acquisti congiunti (EDIRPA) e il potenziamento industriale (ASAP). Inoltre, la Strategia industriale di difesa europea (EDIS) del marzo 2024 ha presentato proposte concrete per aumentare la prontezza di difesa dell’UE, sostenute dalla proposta di regolamento sul Programma industriale europeo di difesa (EDIP), attualmente in discussione al Consiglio e al Parlamento europeo. Tuttavia, “secondo gli ultimi dati disponibili, gli Stati membri sono ancora lontani dal raggiungere l’obiettivo che si erano prefissati più di 15 anni fa con l’European Defence Agency — replicato come impegno nella PESCO — di investire insieme il 35% in progetti di collaborazione europei”. “La frammentazione endemica dell’Europa lungo le linee di domanda e offerta nazionali nel settore della difesa ha indebolito la competitività della base industriale e tecnologica della difesa europea. Oltre a un orientamento prevalentemente nazionale, con oltre l’80% degli investimenti nazionali nel settore della difesa spesi nelle rispettive industrie nazionali, gli Stati membri si approvvigionano spesso anche al di fuori dell’UE, in particolare negli Stati Uniti (soprattutto nel settore aereo) e, più recentemente, in Corea del Sud”.

Il vero nodo, quindi, resta ancora una volta politico, e dipende dal fatto che gli Stati accettino di affrontare la questione non avendo in mente la difesa dell’interesse e della sovranità nazionali, ma pensando in termini collettivi e sapendo di doversi avviare verso la nascita di una politica estera davvero comune, nelle mani (anche operativamente) della Commissione europea — che in parallelo deve essere dotata delle competenze, delle risorse e dei poteri per agire come un vero governo, con il controllo parlamentare del Parlamento europeo e del Consiglio.
 

3. Di fronte al ritorno dei grandi imperi l’Europa deve sapersi fare Stato.

Sia il problema del recupero della competitività, sia quello della sicurezza, inclusa la difesa, pongono all’UE e agli europei tutti la questione urgente di un radicale cambiamento di paradigma politico e un nuovo assetto istituzionale che, in particolare su alcuni punti cruciali, deve diventare federale. Per usare la formula di Mario Draghi, “l’Europa deve farsi Stato”; e questo diventa ancora più vero oggi che il ritorno alle ambizioni imperiali non riguarda solo la Cina e la Russia, ma anche gli Stati Uniti di Trump, e che il nazionalismo si rafforza e rischia di travolgere la stessa UE, oltre che l’ordine mondiale.

Come abbiamo visto, superare l’impotenza europea e mettere in campo politiche efficaci nei settori strategici (sicurezza, politica estera e commerciale estera, innovazione tecnologica) richiede una capacità politica che questa Europa frammentata non sa e non può avere. La questione della creazione di una capacità di azione di governo direttamente a livello europeo, quindi superando il sistema attuale basato sul coordinamento tra gli Stati, è cruciale in particolare su due punti essenziali: quello della difesa e quello del bilancio.

Il Rapporto Niinistö ha già evidenziato come la difesa, ancor di più oggi, in questo quadro politico, sia parte di un’azione di governo che investe ogni aspetto della politica e tocca, di fatto, il cuore della sovranità. Nel mettere in evidenza che l’UE deve abituarsi ad agire come un soggetto unitario di fronte alle minacce esterne ci sono alcuni nodi nella costruzione di una difesa che non si possono sciogliere senza risolvere la questione della sovranità, della legittimità e del controllo democratico.

  1. Essere pronti ad agire come una vera comunità unita in caso di attacco ad uno dei membri, e l’identificazione dei nemici potenziali o comunque dei pericoli per la nostra sicurezza sono oggi una questione controversa per gli Stati europei. È difficile che queste differenze di vedute possano essere superate e che si trovi una forte coesione senza passare da un sistema intergovernativo ad un sistema federale, ossia senza che la Commissione acquisisca competenze e autonomia di governo rispetto agli Stati, all’interno di un sistema federale che sviluppi effettivamente il bicameralismo; e che con questi poteri e legittimità agisca a nome degli europei.
  2. Analogamente, si pone il problema di come si costruisce una visione comune, come si identifica l’interesse generale e si elabora una strategia condivisa senza istituzioni di governo e di controllo democratico che rappresentano i cittadini di tutta la comunità. Anche in questo caso, come dimostra la frammentazione di questa Unione europea, non è un coordinamento dei governi nazionali che permette di far emergere il punto di vista europeo, ma serve un sistema federale.
  3. Idem, e ancor di più, per la questione di chi decide. La difesa è una materia in cui servono decisioni rapide e bisogna quindi anche per questo che ci sia un referente politico dotato del potere di decidere in tempo reale (cosa che è impossibile avvenga con gli attuali meccanismi decisionali intergovernativi, anche se fosse abolito il veto); ma, soprattutto, è una materia in cui il potere che decide non deve solo essere dotato di autorità ma, in primis, di legittimità democratica, e su tutta l’Unione, dato che interviene direttamente sulla vita dei cittadini e dei territori e fa scelte che determinano la vita e la morte di esseri umani.

Come scriveva Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera (16 gennaio), evidenziando in particolare la questione del decisore quando si parla di costruire una difesa europea, non basta accettare di mettere in campo determinate politiche industriali o di fare certi passaggi tecnici per pensare di stare costruendo una difesa europea: il nodo è politico, e non esistono automatismi che portino a sciogliere il nodo della sovranità per inerzia.

Non dobbiamo in effetti mai dimenticare che anche la moneta unica era stata concepita dai federalisti come un passaggio (reso possibile nel quadro dello sviluppo del mercato europeo) che avrebbe costretto gli Stati a costruire un’unione politica (“Voto europeo, Moneta europea, Governo europeo” scandivano gli slogan MFE di allora). Sappiamo che non è andata così, pur essendo stato l’euro un’acquisizione decisiva per la nascente Unione europea, che ha cementato l’Unione nel momento turbolento seguito alla caduta del blocco sovietico e traghettato l’UE nel mare della globalizzazione. La differenza profonda, però tra la moneta, che ha funzionato comunque — anche se con gravissime lacune — senza Stato, è che la moneta è un fatto in parte tecnico ed è collegata, per il suo funzionamento base, ad un’istituzione non politica (nel senso che non risponde ai cittadini e non necessita di una legittimità democratica) come la Banca centrale. La BCE (che è un’istituzione federale) ha potuto quindi nascere e governare la moneta, pur in un contesto in cui le altre materie al cuore della sovranità restavano di competenza nazionale.

Il bilancio è l’altro nodo cruciale. I Rapporti Letta, Draghi e Niinistö indicano con chiarezza la necessità di investimenti ingenti per le transizioni in atto, per la creazione di beni pubblici europei (inclusa la difesa), per sostenere la crescita industriale, ecc.. Una parte cospicua di questi finanziamenti arriverà da capitali privati (che l’UE dovrebbe diventare in grado sia di raccogliere, creando un mercato europeo dei capitali, sia di attirare mostrando dinamicità), ma una parte importante la giocheranno anche i finanziamenti pubblici. Il bilancio europeo è irrisorio come dimensione (al di là che può essere razionalizzato e orientato verso nuove scelte) e rigido nei suoi meccanismi di finanziamento, perché le risorse derivano in larghissima parte da contributi degli Stati che negoziano anche in base ai calcoli di quanto del loro contributo rientra sotto forma di finanziamento europeo. Come tale è del tutto inadeguato, ed è una delle ragioni fondamentali del non- funzionamento dell’UE (si rimanda a questo proposito all’utilissimo Quaderno federalista del 2021 di Giulia Rossolillo su questo tema: https://www.mfe.it/port/documenti/schede/cofoe/201028_finanziamento_ue.pdf ). La sua riforma è un passaggio essenziale e una conditio sine qua non. Per molti aspetti è anche una delle precondizioni per fare debito a livello europeo. Per quanto il Next GenerationEU abbia aperto la via, un ricorso sistematico a questa pratica senza che ci sia a livello europeo capacità fiscale per pagare gli interessi e concependo il debito come prestito agli Stati, per quanto la restituzione possa essere prevista in tempi lunghi, diventa insostenibile. Dotare l’UE di una capacità fiscale autonoma è fondamentale per concretizzare la riforma politico-istituzionale necessaria all’Europa: sia per emanciparsi dal sistema intergovernativo (incluso abolire l’uso del veto e la pratica di agire per consenso), sia per poter agire come soggetto politico; è, oltretutto, la base — dotando il Parlamento di potere di tassazione oltre che di iniziativa legislativa — della creazione di una vera democrazia a livello europeo, che resta anche parte integrante del discorso del safer together del rapporto Niinistö.
 

4. Che passi sono ipotizzabili oggi nella direzione di un’Europa che si faccia Stato?

L’Europa oggi è divisa: cresce il numero degli Stati governati da forze nazionaliste o da coalizioni in cui queste hanno un peso decisivo, incombono preoccupanti elezioni in Germania in cui avanza spaventosamente AfD, la Francia è vicina al caos e vede percentuali di voti altissime andare al Rassemblement National. L’arrivo di Donald Trump non potrà che peggiorare questa divisione, perché, come dimostra il comportamento del governo italiano, ci sarà la corsa per cercare di ottenere i favori del nuovo imperatore che sta già cercando di usare la strategia del divide et impera.

In questa situazione drammatica, in cui gli europei sono completamente vulnerabili ed esposti, il primo segno di resistenza sarà quello di riuscire a mantenere l’unità sui dossier fondamentali e non lasciare che Trump laceri l’UE sulle questioni commerciali piuttosto che su questioni cruciali per la sicurezza e la transizione green. È chiaro, e inevitabile (dato il bisogno degli europei della protezione militare americana), che l’Europa in queste condizioni subirà molti ricatti e dovrà sottostare a molte imposizioni USA, soprattutto finché non si deciderà ad accelerare sulla realizzazione degli obiettivi che si è data in materia di innovazione tecnologica, industria, ecc.. Analogamente sarà cruciale la capacità di tenuta riguardo all’Ucraina, anche sul piano degli aiuti militari oltre che finanziari, e il mantenere la promessa del suo ingresso in UE; in parallelo, sarà fondamentale il tenere fede agli impegni sull’allargamento, a partire dai paesi candidati che mantengono regimi democratici. Su questi punti dovremo vigilare come federalisti e supportarli anche portandoli nel dibattito politico; così come dobbiamo essere pronti a criticare quando i governi andranno nella direzione opposta (come abbiamo fatto con il comunicato del 10 gennaio — https://www.mfe.it/port/index.php/interventi/trump-musk-litalia-e-leuropa — rivolto contro il governo italiano e le sue scelte in materia di sicurezza e comunicazioni sensibili).

Questa UE, a Trattati costanti e nel quadro attuale, può fare anche passaggi ulteriori (o dei passi avanti) verso in particolare la creazione di un mercato europeo dei capitali, insieme ad avviare, o a discutere, tante delle misure indicate in particolare nei Rapporti Letta e Draghi per completare il mercato unico e iniziare ad impostare una strategia industriale. Se questi passaggi fossero messi in campo, dovremmo sicuramente sostenerli, perché sono di per sé positivi, e sono un segno di vitalità dell’Europa; e anche in questo caso sarebbe importante il nostro contributo per chiarirne la portata nel dibattito politico e per inquadrarli correttamente nel processo di rafforzamento dell’UE e all’interno del discorso complessivo federalista.

Anche sul piano della difesa ci sarà il tentativo di progredire in direzione di finanziamenti comuni per alcune industrie e produzioni strategiche, di affrontare la questione degli approvvigionamenti comuni e dell’interoperabilità. Qui è già più probabile che i passaggi possano essere fatti solo con un’azione di avanguardia, più facilmente usando il “modello Schengen” come suggeriscono Marco Buti e Francesco Nicoli sul Sole 24 ore del 12 gennaio, ossia, fuori dai Trattati e dalla stessa UE, per poi negoziare l’inclusione in un momento successivo. Anche se non fosse un’iniziativa in grado di avviare la nascita di un nucleo politico (i paesi coinvolti sarebbero in gran parte quelli dell’Est, più esposti alla minaccia di Putin, e non sono certamente propensi a farsi avanguardia verso un’unificazione politica) sarebbe comunque un modo per rompere il quadro a 27 e una manifestazione di volontà europea, e come tale utile.

Oltre a queste manifestazioni, al momento, è difficile pensare che gli Stati siano in grado di fare molto altro. Un primo appuntamento decisivo, da cui dipende molto, saranno le elezioni tedesche, per capire che risultati daranno e che governo sarà possibile in Germania.

Da parte sua la Commissione europea oltre a lavorare per sviluppare al meglio la sua agenda, potrebbe — se lo volesse, mantenendo così l’impegno preso da von der Leyen di fronte al PE — porre ai governi la questione della necessità di rivedere alcune norme dei Trattati, in particolare riguardo al diritto di veto, per facilitare in alcuni ambiti le decisioni, e soprattutto al bilancio, per rispondere all’esigenza di fare debito comune, di sostenere alcuni investimenti cruciali e di avere gli strumenti per coordinare una strategia efficace. Lo potrebbe fare insieme al Parlamento (in cui intanto il gruppo Spinelli continua a tenere viva la battaglia, come con l’iniziativa in questi giorni — 21 gennaio — a Strasburgo), invitando i governi a confrontarsi sul futuro dell’UE in una Convenzione. Concretamente sappiamo che tutto sarebbe pronto e la richiesta è nelle mani del Consiglio europeo. Questa mossa della Commissione potrebbe anche smuovere alcuni Stati (ipotizzando che la Germania abbia un governo disponibile in tal senso) a procedere come avanguardia per avviare una maggiore integrazione.

Tutte le ipotesi indicate sono possibili — se si mantiene una volontà europea, per quanto debole, in Francia e Germania e qualche altro paese non ancora caduto in preda al nazionalismo — e nel caso delle iniziative fattibili nel quadro attuale, senza operare rotture, sono soprattutto passi per garantire la sopravvivenza di una volontà europea. Anch’esse saranno davvero proficue se intanto maturerà anche la coscienza, almeno in alcuni attori chiave, che il passaggio all’Europa federale è il solo che salverà il nostro continente e la nostra libertà, e si chiariranno le riforme essenziali. Questo tipo di lavoro politico sarà cruciale, ed è quello che spetta a noi federalisti animare.
 

Il ruolo dei federalisti in Italia, in Europa e nel mondo

Il MFE è nato e ha continuato la sua lotta nella consapevolezza che il processo europeo è particolarmente complesso, e che gli Stati nazionali (strumento e ostacolo, come diceva Spinelli) tendono a preservare il loro potere e ad espungere il federalismo (ossia l’obiettivo della costruzione di una federazione e di un potere europeo) dal processo. Per questo capire i diversi ruoli che devono giocare i vari attori che vi prendono parte è fondamentale; lo è in generale, e lo è in particolare per individuare il nostro ruolo specifico, che è per definizione quello di un’avanguardia. Mantenere sul campo l’opzione federale è il nostro compito; un compito che strutturalmente gli altri attori non sono in grado di svolgere, e che, se lo fanno, è per la nostra pressione.

Rispetto al passato, oggi abbiamo due novità: a) il Parlamento europeo (o meglio: un’avanguardia federalista all’interno del Parlamento europeo) condivide la nostra battaglia sul fronte federalista, e vi è una maggiore consapevolezza (anche se spesso frenata dal conservatorismo dell’apparato burocratico) nei vertici della Commissione europea; b) siamo arrivati alla fase finale del processo in cui sul piatto c’è la trasformazione in un’Unione politica, e in questa ottica il federalismo è tornato al centro come modello di riferimento. Questo secondo elemento (il fatto che siamo alla fase finale del processo), non vuol dire che i governi e le istituzioni europee non porteranno avanti politiche o, in generale, iniziative, che siano intergovernative e/o comunitarie. Vuol dire che i nodi con cui l’Europa si confronta sono tutti legati all’assenza di istituzioni federali, perché un bilancio federale, una politica estera, una difesa sono tutte urgenze in questo momento che richiedono il passaggio ad un assetto federale. Come dimostrano i rapporti di cui abbiamo ampiamente parlato, come costruire questi strumenti politici è ormai ben chiaro. Per questo è importante anche un altro chiarimento rispetto al nostro ruolo: per le ragioni dette, il contributo dei federalisti in questa fase non è quello di spiegare le caratteristiche che deve avere la difesa europea, o schierarsi sulle singole politiche. Le caratteristiche di una difesa europea sono già ben spiegate in tutti i documenti citati; invece, non è un caso che manchi un collegamento esplicito con i passaggi politici necessari per raggiungere davvero l’obiettivo. È qui che il nostro ruolo è cruciale, e dobbiamo avere la capacità di entrare nel dibattito politico avendo l’obiettivo di orientarlo e portarlo a cogliere il nocciolo politico della sfida di fronte alla quale si trova l’Europa.

Quali riforme siano poi necessarie per il passaggio federale lo abbiamo discusso e ripetuto più volte e si trova ben spiegato nei nostri Quaderni federalisti (qui il link alla pagina del sito dove sono raccolti: https://www.mfe.it/port/index.php/partecipa/campagna-per-la-convenzione-europea/memorandum-quaderni-della-campagna). Non sono patrimonio solo dei federalisti, perché questi temi sono stati al centro di un dibattito vero e partecipato con la Conferenza sul futuro dell’Europa e del lavoro dell’AFCO che ha elaborato poi le proposte di riforma dei Trattati; ma spesso siamo i soli a portarli nel confronto politico, soprattutto sul territorio, anche se alcuni osservatori che condividono con chiarezza la nostra analisi e le nostre proposte sono in realtà spesso presenti sui giornali e sui mezzi di informazione più attenti.
  

1. La nostra azione

Come sempre la nostra azione è organizzata e dovrà continuare ad esserlo su tutti i livelli. Al livello europeo, dove l’UEF si è rafforzata con un lungo lavoro di anni e in cui il MFE gioca un ruolo di leadership politica, in questo momento l’azione è concentrata sulle istituzioni europee, per mantenere il Parlamento europeo su una posizione di continuità con il lavoro costituente fatto dalla scorsa legislatura e per premere sulla Commissione perché apra in qualche modo una finestra sulla necessità di fare alcune riforme chiave dei Trattati. Dal basso, dobbiamo essere sinergici in questo lavoro politico, portando questa prospettiva nel confronto politico.

A livello nazionale, in Italia ci confrontiamo con un governo che sta consolidando la sua visione nazionalista e un’idea di Europa che resta ferma ad un Mercato e una moneta — indispensabili per il nostro sistema economico e finanziario — e ad uno spazio in cui si confrontano e coordinano “sovranamente” gli Stati membri. Questo ci toglie la possibilità di agire con l’obiettivo di portare il governo a prendere iniziative di tipo federalista; ma non ci impedisce di cercare di allargare le differenze o le spaccature all’interno delle forze di maggioranza, creando occasioni di confronto sui temi cruciali e facendo emergere le contraddizioni legate al perseguire l’obiettivo di un’Europa debole, in primis per l’Italia e i suoi “interessi nazionali”. Cercare poi di far convergere l’opposizione rispetto al governo sul tema europeo, individuando anche iniziative specifiche, è estremamente importante. A livello nazionale rimane poi strategico cercare il dialogo e l’asse con le forze sociali e molte organizzazioni della società civile.

A livello locale (in cui qui si include anche quello regionale), l’azione di “agitazione politica”, teorizzata come ruolo delle sezioni sin dagli anni Sessanta, continua ad essere fondamentale. Tra la fine di novembre e Natale, abbiamo discusso e visto insieme strumenti e proposte per l’azione sui territori. Vi rimandiamo a quella discussione, e al materiale prodotto (trovate tutto a partire dalla pagina di apertura del sito MFE — www.mfe.it). Ovviamente saranno da valutare man mano gli aggiornamenti; ma il cuore del nostro messaggio è quello di affrontare i temi concreti, a partire dagli spunti che danno le emergenze della vita economica e sociale, le grandi questioni internazionali, per evidenziare come tutti gli ambiti strategici, a partire dalla sicurezza, fino alla tecnologia, ecc., abbiano non solo bisogno di una dimensione europea, ma anche che l’Europa abbia una testa politica, e come per questo serva la riforma dei Trattati, spiegando cosa questo significhi in concreto. Le sezioni possono lavorare per creare reti, condividere appelli e rivolgersi al Parlamento e al governo; o possono scegliere le modalità degli incontri pubblici. L’importante è che nelle città risuoni la voce federalista.

Resta infine il livello mondiale, che per il federalismo è l’orizzonte naturale e il punto di riferimento. Dal secondo dopo guerra ad oggi, non è mai stata così fragile la condizione delle istituzioni internazionali, dato il clima politico e l’atteggiamento nei loro confronti della potenza americana, che ne era stata l’artefice. Le tensioni tra “imperi”, l’ipotesi del ritorno più brutale delle sfere di influenza, allontanano in questo momento la possibilità di un impegno politico che possa mirare all’avvio di un percorso politico per l’integrazione a livello mondiale. Manca un soggetto che possa farsene protagonista, e manca il collante di un modello e di una visione comune. È l’Europa che avrebbe questo compito, ma illudersi che l’UE molto più debole e sempre meno influente possa farlo non corrisponde alla realtà. Per questo sul piano politico mai come in questo momento è vero che la Federazione europea è il primo passo non solo per unire, ma dell’unificazione del genere umano. Abbiamo visto che cosa potrebbe fare, e come potrebbe cambiare il quadro. Fino a quando l’UE non sarà diventata capace di esprimere una volontà politica unitaria a noi federalisti resta il compito, insieme alla battaglia europea, di portare avanti, anche nel quadro delle nostre organizzazioni (come vuole fare il gruppo di lavoro congiunto UEF e WFM) un lavoro di sensibilizzazione, di partecipazione alla difesa del diritto internazionale, soprattutto per cercare di orientare la mobilitazione delle organizzazioni che si battono per una governance globale e per il rispetto dei principi del diritto e per le organizzazioni internazionali, e anche per far capire il valore della battaglia che si gioca in Europa e usarla come trampolino per rafforzare i processi e i movimenti per le integrazioni regionali nei diversi continenti.

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In conclusione, ci preme sottolineare che, in questa ora buia, dobbiamo avere la lucidità di guidare la battaglia giusta. Il Manifesto nasce nella Resistenza; non abbiamo mai abbandonato il suo testimone, che ora è valido più che mai.

Stefano Castagnoli e Luisa Trumellini

Pavia-Firenze 22 gennaio 2025


[*] Si tratta delle tesi pre-congressuali redatte dal Presidente, Stefano Castagnoli, e dalla Segretaria generale, Luisa Trumellini, in vista del 32° Congresso del Movimento federalista europeo che si svolgerà a Lecce dal 28 al 30 marzo 2025.

 

 

 

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