Anno III, 1961, Numero 5, Page 226
LA CRISI DI ORIENTAMENTO POLITICO DEL
FEDERALISMO EUROPEO*
MARIO ALBERTINI
Pubblichiamo queste note, nonostante il loro carattere occasionale di riflessioni rivolte ad amici, per partecipare alla discussione sulla crisi di orientamento politico del federalismo europeo, ormai ammessa apertamente. Con il primo scritto, indipendente dagli altri, intendiamo fornire il quadro concettuale nel quale stanno le note in questione
1. — Significato dell’espressione
«costruzione dell’unità europea»**
…penso che valga la pena di dedicare un po’ di attenzione ad uno dei due aspetti del tema del Convegno che ci riunisce, e precisamente a quello indicato dall’espressione «costruzione dell’unità europea». Se questo aspetto rimane nell’ombra, rimane anche nell’ombra, o per lo meno non risulta pienamente illuminato, il tema del Convegno. Naturalmente dieci minuti sono pochi, quindi dovrò limitarmi ad un esame schematico.
In linea pregiudiziale bisogna chiarire il significato di unità e divisione nel contesto che ci interessa, quello della costruzione dell’unità politica dell’Europa. A questo scopo basta ricordare una verità tanto banale quanto generalmente misconosciuta: per quanto riguarda l’essenziale, il supremo potere di decisione, c’è divisione sino al livello confederale. Sino al livello confederale gli Stati mantengono la sovranità assoluta, cioè non riconoscono un superiore centro di decisioni politiche, e perciò dividono le popolazioni sottoposte. Istituzionalmente c’è unità solo quando si raggiunge il livello federale, cioè quando si possono prendere in modo autonomo decisioni che valgano per tutti. In ogni altro caso, vale a dire in tutte le associazioni di Stati nelle quali manca il potere dell’associazione in quanto tale, c’è divisione. La distinzione tra unità o divisione non sta dunque nell’assenza o nella presenza di una associazione qualunque, ma nel carattere federale o non federale dell’associazione. Gli Stati, non potendo vivere isolati, presentano quasi sempre fenomeni di associazione, ma tali fenomeni non impediscono profonde divisioni e grandi contrasti salvo che nel caso della cessione di parte della sovranità all’associazione.
Se l’unità è la federazione, il problema indicato dall’espressione «costruzione dell’unità europea» diventa quello della costruzione dell’unità federale dell’Europa. Si tratta, in sostanza, di vedere come si possa giungere ad una federazione. In prima approssimazione si può dire che la nostra epoca è quella di questo processo, in altri termini che noi stessi lo stiamo vivendo, che ne siamo gli attori: fatto che comporta la possibilità dell’esperienza diretta ma anche quella dell’errore, dello scambiare i nostri desideri per la realtà. In effetti il rischio dell’errore sta già nell’attribuire il carattere di «processo» alla cosiddetta integrazione europea, a questi fatti di cui abbiamo esperienza. Un «processo», normalmente, è qualche cosa che raggiunge la sua meta se non viene arrestato da fattori perturbanti. Attribuendo il carattere di «processo» alla evoluzione politica in corso, noi rischiamo pertanto di pensarla come un cammino già iniziato verso la federazione, come un cammino che sarà certamente percorso salvo, appunto, l’intervento di fattori perturbanti.
Orbene, a mio parere qualche cosa di simile ad un «processo» verso l’unità è effettivamente in corso in Europa, ma nessuno può dire per ora se tale processo si compirà oppure no. In questo dopoguerra molte persone si sono messe in mente che si possa passare da un regime di Stati sovrani ad una organizzazione federale con una evoluzione continua nella quale, come momenti di tale evoluzione, come stazioni di passaggio, ci siano istituzioni confederali. Ma, a questo proposito, bisogna dire che gli esempi storici ci lasciano dubbiosi sulla solidità di questa opinione. Ci sono state situazioni storiche nelle quali si è data la sequenza cronologica: regime internazionale di Stati sovrani — confederazione — Stato federale. E ci sono state invece delle situazioni storiche nelle quali un regime di Stati sovrani ha raggiunto lo stadio confederale ma non ha dato luogo alla nascita di uno Stato federale. Se si analizzano questi fatti storici, se si cerca di trovare negli esempi conosciuti la logica politica di situazioni di tal genere, si costata che spesso le confederazioni vennero istituite allo scopo di difendere l’indipendenza degli Stati associati; il che mostra che molte volte la storia ci ha dato in realtà l’esempio di confederazioni che sono state istituite non allo scopo di conseguire l’unità ma a quello di mantenere la divisione.[1]
Mi spiego meglio: Stati particolarmente deboli, che non siano in grado di assicurare convenientemente la loro difesa e di provvedere efficacemente allo sviluppo economico, possono associarsi confederalmente proprio per raggiunge tali risultati senza cedere la sovranità. Questa è, secondo alcuni storici, l’interpretazione che si può dare dello Zollverein. Alcuni storici ritengono che lo Zollverein, pur essendo implicato in un processo storico a lungo termine il cui stadio finale è rappresentato dallo Stato tedesco, venne accettato dai deboli Stati regionali esclusivamente allo scopo di conservare la propria esistenza come Stati indipendenti, impensabile ormai in altri termini.
Sia questo esempio, sia la logica politica messa in evidenza, provano in ogni modo che il passaggio della confederazione alla federazione non è affatto un processo automatico. Per fatti di questo genere si può dunque usare la parola «processo» solo nel senso di processo dialettico, cioè di corso storico nel quale il risultato dipende da elementi in contrasto. Ne consegue che la sequenza cronologica: regime internazionale di Stati sovrani — confederazione — Stato federale non è spiegabile come una semplice serie progressiva, nella quale un passo, la confederazione, renderebbe possibile l’altro, la federazione. Come pensare allora questo passaggio? In altri termini, come pensare la parola «costruzione» nella frase «costruzione dell’unità europea»? La somiglianza, veramente singolare, di alcuni aspetti dell’unificazione italiana con aspetti analoghi dell’attuale processo di unificazione dell’Europa può servire da utile introduzione per rispondere a questa domanda. I cosiddetti moderati italiani, vale a dire la classe politica dominante negli Stati regionali italiani, dal 1831, e più decisamente dagli anni precedenti il ‘48, sino al 1859, pensarono esclusivamente all’unificazione economica e a mezzi confederali, esattamente come fanno ora i governanti degli Stati della Europa occidentale.
L’effettivo bisogno dell’unità italiana aveva messo i moderati di fronte al problema della creazione di uno Stato nuovo, lo Stato unitario italiano. Ma essi erano la classe dirigente di alcuni fra i vecchi Stati regionali, essi erano praticamente i detentori di quelle sovranità che si trattava di togliere di mezzo. Per questa ragione, anzi, per questa contraddizione, essi pensavano l’unificazione italiana nei termini «realistici» della confederazione e della lega doganale e non in quelli, mazziniani, della lotta politica per la fondazione dello Stato nuovo. La forza delle cose portò allo Stato nuovo, ma i moderati non avrebbero potuto programmarlo: non è facile che i detentori di un potere si propongano un obiettivo tale da mettere in gioco tutte le posizioni di potere.
Il caso italiano mostra come, in situazioni nelle quali il bisogno d’unità è grave e sentito, sorgano idee confederali. Ma il caso italiano mostra anche, e ciò è molto più interessante, come si possa passare da una situazione di divisione statale ad una situazione di unità statale. Sino all’ultimo, sia progettando, sia conducendo con Napoleone III la guerra contro l’Austria, Cavour pensò solo al Regno dell’Alta Italia e alla Confederazione italiana. Ma le cose impongono la loro logica agli uomini. Con la guerra e le sue conseguenze tutti gli Stati italiani entrarono in crisi. L’unità italiana (lo Stato italiano) nacque come la risposta a tale crisi.
Più precisamente, come la risposta ad una somma di crisi di potere, quelle prodottesi nei vecchi Stati, ivi compreso lo stesso Piemonte che, in quanto tale, non avrebbe più potuto mantenersi, come Vittorio Emanuele II aveva ben compreso. L’insegnamento del caso italiano sembra in definitiva questo: tra un sistema di Stati sovrani ed uno Stato nuovo — che sia federale o no è un’altra questione — non c’è, come stazione di passaggio, la confederazione. C’è la crisi di potere dei vecchi Stati. Ciò conferma un dato che risulta immediatamente evidente sul piano giuridico-istituzionale. Su questo piano non c’è infatti, tra un sistema di Stati sovrani ed uno Stato, federale o no, che li sostituisca, passaggio confederale ma salto, una rivoluzione, vale a dire un fatto che soltanto una crisi di potere può rendere possibile.[2]
Se unità significa federazione, e costruzione crisi dei vecchi poteri e fondazione di uno Stato nuovo, la frase «costruzione della unità europea», cioè uno dei due aspetti del nostro tema, riguarda la lotta per la fondazione dello Stato federale europeo (uno Stato-nazione Europa, per la forza delle nazioni tradizionali, non sembra possibile); riguarda cioè un processo che si compirà soltanto se ci saranno uomini disposti a sfruttare l’occasione di una crisi di potere di uno Stato che abbia ripercussioni gravi negli altri, e che renda possibile la sostituzione rivoluzionaria dell’attuale regime di Stati sovrani con un regime federale.
A giudicare le cose con questo punto di vista, che cosa si può dire che stia accadendo oggi in Europa? Non sempre si ha nozione esatta dello stato del problema europeo, oltre che per le ragioni dette prima, anche perché la lotta dei partiti si svolge ancora completamente nel quadro degli Stati nazionali, nei quadri nazionali, e quindi sono nazionali il punto di vista e il linguaggio con i quali i dati politici vengono pensati e comunicati alla opinione pubblica. Ciò induce i più a pensare che il regime politico sia ancora quello nazionale allo stato, per così dire, puro. In realtà, dalla istituzione della C.E.C.A. in poi, noi viviamo già in una situazione confederale. Anche se il distacco esistente tra la rappresentazione della realtà e la realtà fa sì che molti si propongano come obiettivo la confederazione, vale dire un grado che è già stato raggiunto, lo stato dei fatti è questo. C’è una unità europea di fatto, non irreversibile, che si manifesta nelle sue soprastrutture giuridiche: le cosiddette Comunità europee.
Di solito si pensa che questa situazione sia l’effetto della buona volontà degli europeisti: Monnet, Schuman, De Gasperi, Adenauer. Ma la causa è più profonda, è qualcosa che potremmo chiamare l’eclisse di fatto delle sovranità nazionali. I governi dell’Europa occidentale non sono più in grado di fare una vera e propria politica nazionale: una politica italiana in Italia, francese in Francia e così via. Quando ciò si poteva e perciò si doveva fare, ogni Stato europeo guarniva i confini contro il vicino e cercava continuamente di aumentare la propria e diminuire l’altrui potenza. Entro certi termini in quell’epoca l’indirizzo della vita civile dipendeva in Francia dalla lotta politica francese, in Italia dalla lotta politica italiana e via dicendo. Quel tempo è trascorso. L’indirizzo della vita civile in Francia, in Italia e nel resto d’Europa dipende ormai, più che dai fattori politici interni, dall’unità europea di fatto e dai suoi rapporti con gli U.S.A. La difesa degli italiani non si fa più nel quadro italiano con un esercito italiano ma nel quadro atlantico con un esercito di coalizione. Il compito supremo della politica, che è quello di decidere il destino della comunità, non sta più nelle mani dei vecchi Stati nazionali.
Questo è il fattore dell’europeismo. Del resto l’Europa dei Sei è più pronunziata delle altre Europe, comprendenti la Gran Bretagna, proprio perché l’eclisse della sovranità statale è più forte sul continente che in Gran Bretagna. Indubbiamente l’Europa occidentale sta ora rispetto al sistema mondiale degli Stati in una situazione analoga a quelle della Germania e dell’Italia rispetto al sistema europeo prima della loro unificazione. Come allora il bisogno di unità in Germania e in Italia conferì grande importanza ai problemi tedesco e italiano, così ora in Europa il bisogno d’unità fa del problema europeo, nonostante le incertezze degli uomini, uno dei massimi problemi della nostra epoca.
Questo è lo stato dei fatti. Il problema europeo, come ho detto, si trova ormai ad uno stadio avanzato. L’Europa occidentale è già allo stadio confederale, vale a dire il bisogno d’unità ha già investito, anche se in modo confuso, l’opinione pubblica e la classe politica al potere negli Stati. Per giungere alla meta, per dare carattere irreversibile all’attuale unità europea di fatto e disporre degli immensi vantaggi civili e morali di una unità stabile e profonda, resta dunque da compiere ancora soltanto il passo decisivo: la fondazione dello Stato federale. Si tratta di eliminare la sovranità assoluta degli Stati, di riconoscere il potere costituente del popolo europeo. Si tratta di abbattere il vecchio regime degli Stati nazionali e di sostituirlo con un regime federale. Resta da fare, insomma, il passo rivoluzionario.
Per quanto riguarda il tema del nostro convegno, si tratta allora di vedere quale rapporto ci possa essere tra le collettività locali e tale impresa rivoluzionaria. Orbene, basta tener presente che l’unità di fatto, l’unità confederale, non si traduce né in un realistico stato di coscienza dell’opinione pubblica, né in uno spostamento della lotta politica dai piani nazionali a quello europeo, per comprendere che la costituente europea, se vedrà la luce del giorno, non avrà solo il carattere emozionante delle grandi imprese politiche, ma anche quello sorprendente delle cose nuove che giungono impreviste. Non occorre dimostrare che non ci può essere alcun rapporto specifico tra un evento di questo genere e ciò che nominiamo con il termine «collettività locali» nel senso giuridico-amministrativo del termine. Mi pare pertanto che questa sommaria analisi confermi il chiarimento decisivo contenuto nella relazione del prof. Leoni.
Resta ancora da stabilire, sempre sulla traccia della relazione del prof. Leoni, quale possa essere il rapporto tra gli eventi che ho cercato di individuare e ciò che nominiamo con il termine «collettività locali» nel senso sociologico del termine. In questo caso viene in evidenza il fatto che le grandi correnti dell’opinione pubblica si esprimono anche attraverso le comunità naturali, spontanee: le collettività locali. In questo caso non si parla di enti amministrativi, ma dei lionesi, dei milanesi e via dicendo. E’ evidente che tali individui sarebbero coinvolti in un moto costituente europeo. Ma basta por mente alla grandiosità di tale evento ed alla eccezionalità del suo postulato, la crisi di potere, e basta tener presenti le profonde passioni che lo accompagnerebbero, per stabilire che, anche da questo punto di vista, la relazione tra collettività locali e unificazione dell’Europa non potrebbe essere molto importante. Gli individui di cui parliamo sarebbero infatti coinvolti in tale moto non come milanesi, lionesi e così via ma come europei. Se un fatto di questo genere si verificherà in Europa esso non potrà che avere, anche psicologicamente, la dimensione dell’Europa: in quei giorni nascerebbe infatti il popolo federale europeo, vale a dire un dato politico assolutamente diverso da quelli che si formano e si esauriscono nell’ambito delle collettività locali.
2. — Aspetti tecnici della crisi del federalismo europeo=
Innanzitutto, bisogna partire da alcuni dati di fatto: né il Congresso del Popolo Europeo, né il Movimento Federalista Europeo unificato, supernazionale, hanno dato i frutti sperati.[3] Comincio con qualche osservazione sul C.P.E. Si poteva pensarlo: a) come un mezzo di contatto tra i federalisti come classe politica nuova, europea e le loro città (io diedi sempre questa interpretazione e cercai di mostrarne le conseguenze), b) come una formula suscitatrice di energie politiche. L’esperienza ha confermato che il C.P.E. è la prima, non la seconda, cosa. Infatti: a) è andato politicamente bene dove c’era un precedente accumulo di energie politiche fatto su altre basi, b) è stato in ogni città la copia fedele del federalismo ivi esistente e non l’ha modificato, è servito tanto per fare una lotta contro i poteri esistenti quanto per corteggiarli, c) isolato da un vero e proprio contesto politico, tende a disperdere e a spoliticizzare le energie politiche precedentemente accumulate.
E’ facile, del resto, spiegare questi fatti: a) il C.P.E. porta al congresso europeo delegati plebiscitati, non delegati scelti da assemblee sulla base delle loro posizioni politiche, b) di conseguenza non seleziona quadri direttivi responsabili ma ammassa dei delegati-spettatori, cui può piacere questo o quell’attore, ma che non ascoltano rapporti e proposte di mozioni come indicazioni politiche la cui scelta, dipendente da ciascuno di loro, imponga effettivamente all’organizzazione una linea politica, c) per questa ragione il C.P.E. fallisce come organo di scelta di una politica e come organo propulsore di reclutamento e selezione di uomini. Esso non stabilisce legami attivi e democratici tra vertici e basi, non mette in rapporto l’organizzazione con la realtà politica, non individua una linea di sviluppo. Esso crea invece un riferimento illusorio tra il «popolo europeo» come oppositore e la politica dei governi nazionali, riferimento illusorio perché una minoranza attiva dal carattere «popolo europeo» non esiste ancora. In effetti la voce del congresso rimane inascoltata e le sue deliberazioni non divengono parti effettive del dibattito politico generale.
Per finire, un dato storico. Il C.P.E. non fu pensato, all’origine, come una organizzazione ma come una azione. Esso diventò una organizzazione solo perché la vecchia Unione Europea dei Federalisti non l’accettò come azione. Orbene, non si può trasformare un accidente storico in una struttura permanente senza fare un esame della sua funzionalità. Il C.P.E. è stato accettato dal nuovo M.F.E., vale a dire ha perso la ragione storica della sua esistenza come organizzazione separata. In effetti sembra utile come azione, come un mezzo di una organizzazione, non come una organizzazione separata con propri organi direttivi.
Qualche considerazione sul M.F.E. Non è diventato europeo. Non ha unificato a livello europeo il dibattito politico, e quindi nemmeno la direzione, lo stato d’animo, le comunicazioni. Perciò è europeo solo sulla carta, non nei fatti. In realtà nella vita concreta delle sezioni la modificazione non è stata avvertita. Rispetto al passato ci sono cose cadute (le vecchie organizzazioni nazionali «sovrane»), non ancora una efficace sostituzione europea. Le Commissioni nazionali tendono a mantenere l’iniziativa politica nel campo nazionale; il M.F.E., d’altra parte, non è capace di trasferirla nel campo europeo perché il suo congresso, eletto con elezioni di secondo grado, è statico e non dinamico. Le elezioni di secondo grado rendono facile la conservazione del potere, difficile il suo passaggio di mano e quindi immobilizzano le organizzazioni: nel nostro caso immobilizzano una organizzazione che ha bisogno di trasformarsi, che se non passa da una somma di esperienze nazionali ad una autentica esperienza europea non conta nulla e non può vivere.
Ci sono solo perdite e nessun guadagno nella routine attuale perché non solo non c’è la struttura del congresso europeo, ma non c’è più nemmeno quella del congresso politico democratico, non c’è più seria lotta per il potere nel federalismo. Una organizzazione è dinamica quando incanala: a) stimoli ad acquistare il potere nelle assemblee delle sezioni locali, e quindi al proselitismo e alla formazione dei quadri; b) stimoli al raggruppamento politico dei quadri per imporre all’organizzazione mediante i congressi una linea d’azione, c) stimoli a mantenere il potere al centro e alla periferia mediante l’espansione e non l’immobilismo, d) comunicazioni quasi spontanee — dal centro di potere, attraverso le sue articolazioni, sino a quasi tutti gli associati — sullo stato dell’organizzazione, le sue tensioni, la lotta per mantenere, cambiare, estendere il potere ecc. Ciò richiede, oltre al resto, il filo continuo tra i soci e la leadership costituito dalle elezioni di primo grado. Quando questo filo non c’è, o viene interrotto, gli stimoli in questione si atrofizzano, le comunicazioni si arrestano, il potere si conserva con il congelamento dei dirigenti, non con la lotta politica.
A questo punto si può porre la questione della decadenza del settore italiano del MFE. Questa decadenza è la conseguenza della distruzione degli stimoli politici. Per arrestarla, bisogna ricostruire questi stimoli e non vitalizzare (in qual modo?) la Commissione nazionale,[4] cioè proprio uno dei fattori che hanno distrutto stimoli politici, o quanto meno spoliticizzato le sezioni. Naturalmente, il problema del rimedio non sta nel quadro nazionale ma in quello europeo. Quanto ho detto sin qui basta per una prima valutazione. Nel quadro europeo c’è lo sdoppiamento del centro di potere e delle sue articolazioni: sdoppiamento CPE-MFE, sdoppiamento europeo-nazionale. A quale organo si guarderà dunque per conquistare il potere, per imporre al federalismo una linea di azione? A nessun organo, perché questo organo non esiste. Nessun congresso è responsabile, così in nessun luogo si formano più problemi di responsabilità, di guida, di potere. Lungo tutte le arterie del federalismo non si formano più raggruppamenti su linee direttive, su pensieri concreti, su questioni serie di potere. Tutti vanno in cerca di qualche cosa che nessuno può trovare sinché c’è dispersione di potere (vale per noi ciò che vale per l’Europa: chi conserva stoltamente, chi vuol cambiare e non sa che). Da ciò la crisi di orientamento. Da ciò, se non si provvedere in tempo, la minaccia di atrofia, di inaridimento. Con queste strutture il federalismo va morendo.
Il guaio non sta nel fatto che il MFE non sa ancora fare una politica veramente autonoma; il rimedio non sta nella conquista affrettata di un centro di potere (quale? Se si piglia uno, scappa l’altro). Il MFE italiano del 1955 non sapeva fare questa politica, ma alcuni si proposero di trasformarlo, di renderlo autonomo: la cosa era vitale e riuscì (mentre non riuscì, e ci costò la perdita dei tedeschi, il tentativo di imporre all’UEF quello che non sapeva fare il MFE italiano, che compì solo nel 1958, dopo molto lavoro e molte lotte, la trasformazione graduale da movimento di comodo — uomini di partito europeisti, incentivi nazionali — in movimento federalista e autonomo). Il rimedio sta nel fare su scala europea quello che fu fatto su scala italiana tra il 1955 ed il 1958. Ciò richiede: una sola organizzazione, un solo congresso, unità delle articolazioni, canali diretti dalle sezioni al congresso (che non si capisca questo è strano: diciamo che l’Europa, senza un potere federale unitario, non può fare una politica europea, e non pensiamo che anche i federalisti abbiano bisogno della stessa cosa, di una sola organizzazione per fare una lotta europea).
Dopo queste premesse, si può arrivare al cuore del problema. Siamo di fronte al fine politico più difficile: la fondazione di uno Stato nuovo su un’area nuova. Persa l’occasione tedesca del dopoguerra, per affrontarlo dobbiamo impiegare il mezzo più difficile: un movimento politico da fondare ex-novo. Se non ci eleviamo a queste altezze le nostre prese di posizione politica diventano puro verbalismo, delle pretese da radicali. Non siamo certo di fronte al problema di mantenere, o organizzare, quel che c’è; ma di fronte a quello di fare coincidere i comportamenti politici superiori — moralmente e culturalmente — con la lotta per l’Europa. Qui sta l’unica possibilità. Il tentativo si potrebbe fare (una prova fu quella del Nord-Italia). Ma questo è un altro discorso, che dovrebbe articolarsi su questi punti: a) esistenza — spontanea — dell’europeismo diffuso e di quello organizzato; b) possibilità di tentare l’egemonia del secondo, e di creare un canale col primo (CPE), canale da sfruttare per imporre la costituente all’ora X (esistenza di incentivi politici e di problemi di potere);[5] c) bisogno di uomini che restino in campo sacrificando tempo e denaro, che sappiano agire nell’ambito di un piccolo potere con pochissimi mezzi (egemonia europeismo organizzato), che trovino pertanto l’incentivo dell’azione nella moralità e nella cultura;[6] d) possibilità di trovarli vista la crisi delle ideologie e dello stesso pensiero politico, crisi che possono trovare risposte solo in esperienze politiche più razionali di quelle del passato (l’esperienza europea può essere tale), e) una linea politica (relativa allo stato dell’organizzazione) misurata esattamente sul potere possibile, e capace di reclutare, organizzare o influenzare gli individui sopra definiti, oltre agli europeisti disponibili. Questi punti comportano, naturalmente, elementi extra-politici (la cultura, la moralità, l’europeismo diffuso), ma questo non esclude la politicità del compito. Tutte le correnti politiche portano ad emergenza politica un contenuto sociale.
3. — Aspetti politici della crisi del federalismo europeo§
La nostra politica si basa da tempo su giudizi che comportano aperture nazionali: a Sartre e ai «121», ai dirigenti delle cosiddette Comunità europee, ad alcuni deputati italiani in quanto presentatori di una fantomatica mozione federalista al parlamento (Del Bo, La Malfa, Ferrarotti), all’équipe di Kennedy, persino ai candidati «federalisti» delle elezioni amministrative di Milano. O questi giudizi sono dati a vanvera, o bisogna dar per buona l’ipotesi della possibilità di convergenze nel presente ciclo politico tra il corso della politica dei partiti o gruppi nazionali e il nostro obiettivo.
In effetti questi giudizi sembrano talvolta solo piccole astuzie tattiche, tal altra il prodotto del desiderio di anticipazione dell’ora X, della lotta finale: si punta alla fine del ‘59 sulla Germania, a mezzo del ‘60 sulla Francia di Jeanson e di Sartre, poi sugli U.S.A. di Kennedy… In ogni modo con questi giudizi, che trascurano il nesso di tattica e strategia o traggono disordinate deduzioni dai dati confederali della situazione di potere europea, si ricercano, e si mettono in evidenza, le convergenze invece delle divergenze tra la politica federalista ed alcune politiche di partiti o gruppi nazionali.
La nostra politica pretende da tempo di ottenere risultati europei reclutando la sua forza nei campi nazionali. In effetti con il C.P.E. essa chiede il voto ai cittadini, e, con questo voto, organizza una pressione sui deputati mediante l’invio pubblico di cartoline («operazione bancarella») perché essi assumano l’impegno di sostenere in parlamento la costituente europea. Come se il «popolo europeo» esistesse già, e non fosse invece il traguardo di una lotta politica autonoma, si pensa che, così agendo, da ogni elezione nasca un rafforzamento del movimento tale da poterne fare un’altra con un numero maggiore di voti e così di seguito sino alla vittoria. C’è in realtà una complicazione. Si tiene conto del fatto che i deputati possano non tener fede al loro impegno, ma ci si propone in tal caso di smascherarli presso i loro elettori come traditori e così, alla lunga, di costringerli con la paura. Ma si tratta proprio di una complicazione, di un calcolo sbagliato. Nel clima di una elezione nazionale questa accusa cadrebbe nel vuoto: in politica si smaschera con la forza, non con il rimprovero d’aver detto le bugie (le menzogne dei candidati, del resto, non stupiscono più nessuno). In ogni modo la sostanza politica di questa azione è la seguente: qualunque sia la riserva mentale dei federalisti nell’eseguirla, l’opinione pubblica e il mondo politico non possono che prendere atto del fatto che i federalisti chiedono la costituente al parlamento, e precisamente ai deputati «buoni» del parlamento. Il che equivale a dire che anche i federalisti diffondono l’idea secondo la quale l’Europa la faranno, se bene indirizzati, i partiti. In sostanza questa politica non cerca di far emergere una forza europea — l’incipiente «popolo europeo» — contro tutte le forze nazionali, ma si illude di mettere delle parti nazionali (i deputati buoni ed i loro sostenitori) contro altre parti nazionali (i deputati cattivi e il loro seguito). Vale per questa azione quanto si è detto sopra dei giudizi politici: o questa azione è fatta a vanvera, è una azione cieca, o bisogna dar per buona l’ipotesi che le forze nazionali possono fare l’Europa, che si tratta di indirizzarle, che la nostra politica è quella del suggerimento.
Orbene, c’è una flagrante contraddizione tra il giudizio sul quale fondammo il «nuovo corso» federalista alla fine del 1954 e le aperture nazionali. Basammo infatti il «nuovo corso» sulla convinzione che, compiutosi con la caduta della C.E.D. un ben determinato ciclo politico, in quello nuovo non ci sarebbe più stata la possibilità di attendersi dai governi nazionali l’unificazione federale dell’Europa. Di conseguenza o quel giudizio generale non vale più, o questi giudizi particolari, queste ricerche di convergenze tra il corso della politica nazionale e quello federalista, non sono che accettazioni di punti di vista nazionali con un travestimento verbale europeo. Considerazioni analoghe possono farsi per la contraddizione tra l’idea della creazione di una forza europea — correlato della costatazione che quelle nazionali non servono per l’iniziativa europea — e la pratica del suggerimento. La creazione di una forza europea comporta la contestazione dell’incapacità dei partiti di risolvere il problema politico (che nella nostra ipotesi è quello europeo); il suggerimento (il lodare il deputato buono e il rimproverare quello cattivo) comporta il riconoscimento della capacità delle forze nazionali, se bene indirizzate, di risolverlo. Naturalmente questa contraddizione finisce per investire tutti gli aspetti della politica federalista: si denunzia l’illegittimità dello Stato nazionale, si rifiuta il lealismo nazionale, si propone una nuova legittimità (popolo europeo), e poi si chiede alle forze che stanno mantenendo gli Stati denunziati come illegittimi l’instaurazione della nuova legittimità. In effetti senza opposizione di regime il rifiuto del lealismo nazionale si riduce ad una pura pretesa verbale, ad uno dei tanti radicalismi inutili il cui scopo non è quello di cambiare il mondo ma di placare la coscienza di quelli che non sanno mutarlo.
Queste contraddizioni sono insieme tanto grandi ed evidenti che diventa strano il fatto stesso che si siano verificate. Si comincia a comprendere questa stranezza se ci si chiede: di chi è questa politica? quale congresso l’ha stabilita? Sappiamo che non l’ha stabilita alcun congresso, che non l’ha nemmeno formulata qualche minoranza congressuale. Sappiamo che è venuta fuori da sé, dal gruppo locale più ricco e consistente, e si è diffusa a macchia d’olio. Ciò è accaduto perché abbiamo agito attraverso due organizzazioni «sovrane» (MFE e CPE) senza ricordarci di applicare a noi stessi la concezione che applichiamo agli Stati (tanti Stati, tante politiche «europee», cioè nessuna politica dell’Europa). Due organizzazioni con proprio congresso vuol dire due politiche cioè, se il problema è uno, nessuna politica. Nessuna politica fissata da un congresso, nessuna politica democratica, e quindi l’emergere di fatto della politica del gruppo locale più forte ma incapace, proprio per la natura egemonica e sezionale della sua politica, di mantenere nella pratica il punto di vista teorico (nel fatto il rafforzamento lombardo del CPE e la pressione sul parlamento italiano hanno fatto completamente dimenticare le preoccupazioni iniziali per la debolezza o addirittura la quasi inesistenza dello stesso CPE in Francia e Germania). Si comprende del tutto questa stranezza se si tiene presente che in tal modo alla nozione del carattere rivoluzionario del fine si è sovrapposta l’esperienza moderata dei mezzi (fraseologia rivoluzionaria, condotta moderata). Anche a questo proposito abbiamo dimenticato di applicare a noi stessi una concezione che applichiamo ai militanti dei partiti nazionali. Abbiamo detto loro che la struttura organizzativa e la procedura della condotta politica determinano il punto di vista concreto indipendentemente dalla ideologia e dalla fraseologia. Abbiamo detto loro che essi pensano che l’unica lotta reale sia quella nazionale solo perché militano in un partito nazionale. E poi ci siamo lasciati andare ad una politica basata su due congressi senza pensare che ciò avrebbe determinato due punti di vista e poi, data l’unità del problema, l’indefinita moltiplicazione dei punti di vista. Ne sono venuti fuori, naturalmente, irresponsabilità arbitrio e casualità. I partiti non hanno più alcuna visione strategica perché agiscono nei quadri nazionali, cioè sotto il livello delle decisioni reali che sono costituite dai compromessi in sede europea ed atlantica. I federalisti hanno perso la loro visione strategica perché non agiscono in alcun quadro e così il loro pensiero, privo di alcun riferimento, vaga indefinitivamente.
4. — Carattere di una azione politica per la costituente#
Il primo dato da chiarire è questo: in quale situazione di potere è possibile la decisione di convocare la costituente?
La costituente europea implica non solo un mutamento di governo, non solo un mutamento di regime in uno Stato, ma addirittura la caduta di parecchi Stati e la nascita di uno Stato nuovo su un’area nuova. La decisione di convocare la costituente ha pertanto carattere rivoluzionario, e sembrerebbe possibile solo in una situazione nella quale la crisi irreversibile degli Stati del continente, la loro decadenza storica, dia luogo ad una grave crisi come collasso del potere in uno Stato, crisi sfruttabile in questo e negli altri per l’alternativa europea (per altri intendo un numero sufficiente: Francia-Germania-Italia con qualunque contorno). Una situazione, in altri termini, nella quale la classe politica al governo in uno degli Stati non sappia tenere il potere (come i democratici francesi il 13 maggio) ed il fatto sia sufficientemente grave, ed abbia caratteri tali, da consentire ad una minoranza rivoluzionaria di sfruttarlo anche negli altri paesi per imporre la costituente.
Se ciò è vero, il problema delle prospettive a lungo termine di un’azione politica per la costituente europea è quello delle prospettive a lungo termine di una opposizione non solo di governo, non solo di regime, ma di «comunità». Di una opposizione che abbia il coraggio di rifiutare le comunità nazionali esistenti (francese, italiana, tedesca, ecc.) in quanto esse non permettono più di stabilire in modo autonomo l’indirizzo della vita civile, e si proponga di sostituirle con una comunità pluralistica (federale) europea. In una breve risposta non è facile dire se si tratta di una azione possibile. Si tratta di dare una risposta a queste tre questioni:
1) Che cosa è il problema dell’unità europea? A mio parere è il problema stesso della situazione nella quale viviamo. Noi viviamo già nella confederazione europea, nell’unità europea di fatto, basata sull’eclisse delle sovranità nazionali, sulla necessità per gli Stati europei di collaborare strettamente nel campo politico ed economico. Ciò basta per dire che esiste la base reale di una lotta per una unità istituzionale.
2) E’ possibile la crisi di potere? A mio parere sì. La storia costituzionale europea mostra che le crisi di potere sono la normalità, non l’eccezione. In particolare, il fatto che viviamo in una situazione confederale determina una contraddizione tra la struttura del potere politico (nazionale) e la situazione di potere (europea) — una specie di distacco tra il paese reale, europeo, e i paesi legali, nazionali — che contiene già, come termine finale, la crisi. Tuttavia, mentre la confederazione è un fatto, la crisi «europea» — crisi entro un tempo utile e su terreno europeo — è una possibilità che si verificherà o meno a seconda della capacità degli uomini di provocarla.
3) E’ possibile una «opposizione di comunità»? A mio parere si. Ma è difficilissima. La sua sede sociologica non sta in una classe, in interessi circoscritti e ben raggruppati socialmente, sta nell’insieme degli individui sensibili al distacco tra i valori e la pratica, e comporta una lotta politica diretta da, e suscitante una, cultura che metta in luce il fatto che tale distacco non dipende dalla classiche antinomie libertà-dittatura, capitalismo-socialismo e così via, ma su quella nazionalismo-federalismo. Non si può tuttavia dare un’idea di questa possibilità in breve, si può dire solo che questa possibilità è reale se è vero che i fatti del nostro tempo sono mistificati dall’ideologia nazionale.
Ciò detto, il problema delle prospettive a breve termine si presenta come quello di determinare fatti politici e culturali che generino la sfiducia nella nazione, che accentuino il distacco tra la pratica politica nazionale e quella europea, tra i giudizi politici forniti dal punto di vista nazionale e quelli forniti dal punto di vista europeo, in sostanza come quello della fuoruscita progressiva di elementi della classe politica (soprattutto di quella in formazione) dal campo nazionale.
5. — Programma massimo e programma minimo‡
Per intervenire in un equilibrio politico bisogna esserci realmente, esserci con una forza. Dicemmo, infatti, che la nostra politica avrebbe dovuto essere quella della creazione di una forza. Ma molti non si sono resi conto del significato di questa affermazione. Molti non hanno capito che una politica di questo genere non si può fare nel contesto politico generale (che riguarda l’impiego di forze già sviluppate) ma solo in un contesto politico speciale. Così è nato un dibattito che non riesce a prendere in esame la situazione dei federalisti, e finisce, spesso senza che chi discute se ne accorga, in una discussione fra coloro che sostengono l’europeismo verbale di alcuni governi e coloro che combattono il nazionalismo verbale di altri governi: ovviamente questo dibattito è sterile e fuorviante. Fuorviante perché mantiene il nostro pensiero nel campo nazionale. Non si può infatti sortirne se si pretende di riferire tout court il M.F.E. alla situazione globale. In tale quadro esistono solo forze nazionali, quindi sono possibili solo risultati nazionali, quindi le posizioni federaliste, persino quella della costituente (come è accaduto con Del Bo e La Malfa), si riducono a coperture di fini nazionali. Non a caso la stessa «sinistra» federalista ha finito con lo scivolare su posizioni strutturalmente nazionali (partito federalista elettorale, ricerca di alleanze con gruppi delle sinistre nazionali, o di appoggi nell’ambito dei poteri nazionali: petizioni parlamentari, flirts con le cosiddette «Comunità», suggerimenti ai governi…). Ed è sterile perché spinge il M.F.E ad impegnarsi in un campo nel quale esso non ha alcuna influenza. Ci fa agire nel vuoto, ci fa agire come se fossimo già una forza quando, per definizione, non lo siamo.
Si esce da queste contraddizioni se si tiene presente che tutte le forze nuove debbono trovare il loro terreno di crescita, devono passare attraverso una problematica che, nel caso del socialismo, venne chiamata del programma massimo e del programma minimo. Il programma massimo definisce: a) che cosa fare con tanto potere quanto basta per la soluzione (costituente, federazione), b) carattere ed interlocutori della situazione globale di potere nella quale fare questa azione (crisi di potere, interlocutori i governi sull’orlo del crollo e noi come direzione politica delle masse popolari divenute attive e disponibili). Il programma minimo definisce: a) che cosa fare con pochissimo, poco ecc. potere, b) settori particolari della situazione globale di potere nei quali tale pochissimo, poco ecc. potere conti già qualche cosa, interlocutori noi con questo potere e gli altri influenti nello stesso campo.
Naturalmente un programma minimo non può esistere senza quello massimo che lo orienta, ma la politicità concreta investe solo ciò che si può volere hic et nunc, e quindi il programma massimo solo quando, essendo sufficiente il nostro potere, potremo volere davvero la costituente, cioè accelerare, far esplodere sul nostro terreno e sfruttare la crisi di potere (opposizione di regime). Ne segue che tutto ciò che è connesso con «che fare finale» e «situazione globale di potere» è per noi, oggi, un problema di dottrina politica, non di azione immediata. L’evoluzione generale del mondo ci riguarda solo culturalmente e moralmente. Dobbiamo comprenderla, giudicarla, condannarla ma non possiamo ancora, in questo ambito, dare battaglia. Del resto se diciamo: «Bene il governo X», «Male il governo Y», «Il potere al popolo europeo» e via dicendo, non guadagniamo nulla, nessuno ci ascolta. Siamo troppo deboli per questo. Al contrario se, nell’ambito della classe politica e culturale (soprattutto in formazione), noi riusciamo a dimostrare: a) che qualunque politica nazionale è subordinata a una strategia che la trascende, è una semplice manifestazione del processo di decomposizione politica dell’Europa, b) che coloro che fanno o sostengono qualunque politica nazionale non se ne accorgono perché sono in stato di trance ideologica nazionale (sono automistificati), noi guadagniamo qualche cosa togliendolo agli altri. Queste osservazioni mostrano che il programma massimo, pur essendo cosa del futuro come lotta per il potere, è cosa del presente come capacità culturale concreta (la cultura di coloro che vogliono conoscere il mondo per mutarlo). Il programma massimo, che ci ridurrebbe a dei Don Chisciotte se volessimo applicarlo oggi, ci deve impegnare subito come fatto di cultura, e ci può rafforzare tanto più quanto più è profonda la nostra visione attiva del mondo.
Naturalmente per noi è già una responsabilità politica il programma minimo, il che fare con pochissimo potere; ed è già un riferimento politico il quadro nel quale questo pochissimo potere conta già qualche cosa. Questo quadro, lo si voglia o no, è quello dell’europeismo organizzabile, e più direttamente quello del M.F.E. In realtà se noi diciamo: «Il M.F.E. deve fare questo o quello», mutiamo un poco il mondo e ci occupiamo delle cose che ci riguardano. Mentre nel contesto globale non riusciremmo nemmeno ad agganciare il nemico ed a disturbarlo, nel nostro spazio politico, nel settore dell’europeismo, possiamo già sconfiggere il nemico che sta nel nostro stesso animo, nelle stesse nostre fila. In questo settore possiamo fare bene o male, perdere o vincere, assolvere le nostre responsabilità o tradirle. Qui possiamo selezionare gli uomini con i quali avanzare, le idee con le quali conoscere il mondo, gli atteggiamenti con i quali cambiarlo ogni volta di quel tanto che è possibile.
Orbene, è evidente, anche se pochi ci pensano, che ci rafforzerebbe una politica che spingesse Genova, Milano, Torino, Lione nella stessa direzione. E’ evidente che ci rafforzerebbe ancor di più una politica che spingesse nella stessa direzione, oltre questi gruppi forti, i gruppi deboli. Ma non basta. Dato il diseguale sviluppo del M.F.E. in Europa, e i suoi grandi vuoti territoriali (quasi tutta la Germania), noi potremo dire che stiamo costruendo una forza solo se sapremo fare una politica che spinga nella stessa direzione, oltre questi gruppi forti e deboli, gli individui dispersi ed isolati, aiutandoli a costituire dei gruppi. Sembra strano che si debba rammentare che l’unità è forza, la divisione debolezza. Eppure anche a noi tocca ora fare esperienza di questo fatto. Vale, la pena di osservare che:
1) Se nella dimensione del sociale c’è un movimento nuovo, esso diventa una forza con l’unificazione. Orbene il promuovere, il mantenere e l’accrescere l’unità è impresa politica, è cosa che dipende dallo stabilimento di una relazione tra tali nuovi comportamenti umani e lo status del potere.
2) Per quanto ci riguarda, nella dimensione del sociale c’è per noi, in primo luogo, l’europeismo. L’unificazione dell’europeismo organizzabile dipende da noi. Se sapremo unificarlo otterremo una influenza sull’europeismo diffuso, e con essa potremo allora estendere l’azione al secondo settore disponibile per la lotta federalista, quello dell’inquietudine democratica, che oggi ci volta le spalle perché non aspetta da noi un discorso sui vantaggi della unità europea ma la dimostrazione che ci si può battere realmente per la costituente, che una forza politica supernazionale può agire. Si tratta di raggiungere, al limite, l’unità dell’opposizione democratica a livello europeo, unità nella quale si può scorgere sin da oggi il modo con il quale i federalisti potrebbero stabilire una relazione tra la loro lotta, la crisi di potere e la convocazione della costituente.
Non è possibile analizzare in breve queste osservazioni generali. Però si può mostrare che il criterio dell’unità è quello in grado di farci scegliere, ad ogni livello d’azione, l’azione giusta. In effetti a qualunque livello d’azione, dal più semplice gesto di propaganda, all’impostazione di una azione comune, alla presa di posizione sui grandi problemi politici, ci sono evidentemente dei gesti, delle azioni, dei giudizi che ci dividono e dei gesti, delle azioni e dei giudizi che ci uniscono. E’ evidente che quelli che ci dividono ci ributtano nei campi nazionali, che quelli che ci uniscono ci aprono quello europeo. Ed è evidente un’altra cosa. Nel contesto del problema europeo ogni divisione è una nazionalizzazione, ogni unificazione un trasformare il nazionale in europeo. L’unità non si raggiunge, infatti, in qualunque modo. A livello degli Stati, è la federazione; a livello del programma massimo è la costituente; a livello di quello minimo, un movimento supernazionale che sappia unificare l’europeismo organizzabile (vale a dire trasferire gli europeisti dai quadri nazionali a quello europeo); a livello della propaganda più semplice, un gesto che un europeo possa fare sapendo che lo stesso gesto si fa in tutta Europa (come la raccolta di firme in crescendo, verso una maggioranza, per la costituente).[7]
Del resto, noi siamo prossimi ad una scadenza: il Congresso di Lione. Ed a Lione bisognerà far nascere uno stato d’animo che mobiliti le energie dei federalisti verso il rafforzamento dei gruppi più deboli e l’aiuto agli individui dispersi ed isolati. Solo la parola d’ordine dell’unità può tenere tutto il fronte in movimento nella giusta direzione, può arrestare la crisi del federalismo e rimetterlo in marcia. Raggiunto, con l’organizzazione supernazionale, il campo europeo dopo un oscuro cammino nelle paludi nazionali, abbiamo avuto una battuta d’arresto di fronte al compito che ha visto cadere i liberali, i democratici, i socialisti: l’azione politica supernazionale.[8] La parola d’ordine dell’unità, che per la prima volta nella storia d’Europa è possibile applicare ad una organizzazione democratica supernazionale, può rimetterci in cammino, non più per uscire dalle nazioni ma per marciare finalmente verso il potere politico europeo.
* In breve, per i lettori che non conoscono la storia dell’europeismo nel dopoguerra: 1) Ci sono molte organizzazioni politiche che hanno come fine l’unità europea: il Movimento Europeo, unione di associazioni e di personalità; l’Union Pan-Européenne di Coudenhove Kalergi, incontro di aristocratici e politici arrivati più che vera e propria associazione; i movimenti basati su partiti politici nazionali come le Nouvelles Equipes Internationales, democratico-cristiano, e il Movimento Socialista per gli Stati Uniti d’Europa, un movimento non ideologico, basato su libere adesioni individuali, il Movimento Federalista Europeo (M.F.E., ex-U.E.F. Unione Europea dei Federalisti); l’A.E.F., nata nel 1956 da una scissione dell’U.E.F.; il Congresso del Popolo Europeo, inizialmente concepito come una azione dell’U.E.F. (l’elezione da parte di tutti i cittadini di delegati del «popolo europeo» reclamanti la costituente). Esistono inoltre organizzazioni di altro genere come la L.E.C.E., basata su operatori economici, il Consiglio dei Comuni d’Europa, basato sugli amministratori comunali, molti istituti con etichetta culturale o accademica ecc. (l’elenco non è completo). Bisogna osservare che l’unico movimento che dipende dagli iscritti, e non come gli altri da governi, partiti, forze economiche, singole personalità, ed ha pertanto vita propria, anche se difficile, è il M.F.E. Bisogna anche osservare che attualmente tutte queste organizzazioni sono declinanti o in crisi. 2) Il M.F.E. ha cambiato nome in occasione di un cambiamento di struttura. Quando si chiamava U.E.F. era una «internazionale» di movimenti nazionali «sovrani» (esistenti a proprio titolo con proprio congresso politico). Ora esso è un movimento unitario, supernazionale, con congresso politico a livello europeo (l’unico d’Europa). 3) Il fine ultimo del M.F.E. è la costituente europea. In passato esso appoggiò, sia pure criticando molte impostazioni ufficiali, la politica europeistica dei governi, vale a dire si comportò come un insieme di gruppi di pressione nazionali. Dopo la caduta della C.E.D. una corrente del Movimento si schierò per il mantenimento di tale strategia, un’altra corrente sostenne che si dovevano gettare le basi di una opposizione di regime. Questa corrente si basa, oltre che su ragioni teoriche, su valutazioni storiche: alcuni affermano che la restituzione della sovranità, in particolare militare, alla Germania occidentale avrebbe reso impossibile la cessione spontanea di sovranità da parte dei governi degli Stati (prima possibile come alternativa alla sovranità tedesca), ed altri affermano che, dopo il 1954, il nazionalismo avrebbe ripreso il sopravvento sull’europeismo nei partiti politici.
** Si tratta di un intervento al Convegno internazionale su «Collettività locali e costruzione dell’unità europea» promosso dall’I.S.A.P. e tenuto a Torino e a Stresa dal 14 al 18 maggio di quest’anno.
[1] Prima di pubblicare questa nota ci è capitata sotto gli occhi la seguente dichiarazione di Debré: «Le gouvernement ‘veut l’Europe’, car il est nécessaire, dans le monde d’aujourd’hui, que les nations européennes prennent conscience non seulement de leur valeur, voire de leur puissance, mais aussi du fait que, faute d’étroite solidarité entre elles, le risque est grand pour toutes en général, et pour chacune en particulier, de perdre l’indépendance. Certes, l’économie est importante, mais l’économie peut se contenter de bons traités de commerce complétés par des accords sur les investissements, voire la répartition des marchés. La vraie nécessité est ailleurs: elle est de marquer, face aux problèmes fondamentaux de l’indépendance politique des nations, de la liberté des citoyens et aussi de l’influence européenne dans le monde, la nécessité de l’union, expression d’une profonde solidarité politique» («Le Monde», 26 settembre 1961. Sottolineature nostre). Il caso è palese. Debré è nazionalista, vuole l’indipendenza della Francia. Ma governando si è accorto che la Francia può mantenerla solo collaborando strettamente con gli Stati vicini. Di qui il suo confederalismo che, essendo animato da un forte incentivo politico, è più e meno dell’europeismo governativo tradizionale (Comunità). Che ciò sia contradditorio è un’altra questione, che dipende dal fatto che Debré, come ogni confederalista, vuole due cose opposte: l’unità, per salvare la Francia, e la divisione, per mantenerla (come nazione sovrana). In questa occasione Debré ribadì del resto la sua avversione alla supranationalité (la vera realtà dell’Europa sarebbero le «nazioni») e al governo federale (l’unico fondamento solido del potere sarebbero le «nazioni»).
[2] In questo quadro si pone un aspetto decisivo del problema della direzione politica della lotta federalista. Abbiamo detto che il «processo» regime internazionale di Stati sovrani-confederazione-regime federale è dialettico, cioè composto da elementi in contrasto. E’ importante notare che il contrasto è più forte nella coppia confederazione-regime federale che in quella regime internazionale di Stati sovrani-confederazione non solo perché la prima alternativa è di comunità e regime e la seconda soltanto di governo (collaborazione o rivalità con i vicini), ma anche perché sul piano della lotta politica un forte bisogno di unità tende a portare i nazionalisti sul piano confederale, e coloro che nel loro animo hanno già superato la divisione su quello federale. A ciò corrisponde un dato strategico. Il contrasto federalisti-confederalisti indebolisce gli Stati sovrani, quello nazionalisti allo stato puro-confederalisti invece li rafforza. Il primo infatti divide il campo unitario, indispensabile al potere data la necessità confederale, mentre il secondo lo unifica perché la polemica contro i nazionalisti allo stato puro finisce per avvicinare federalisti e confederalisti.
= Dicembre 1960
[3] In precedente occasione: «C’è crisi ogni volta che c’è un divario tra la rappresentazione della realtà e la realtà stessa. In ogni altro caso, anche disperato, non c’è crisi perché si sa esattamente che cosa si può fare, o si prende coscienza che un certo tentativo umano non poteva, in quella circostanza, riuscire… Se la situazione politica ci rende possibile una forza X e noi ci battiamo per la forza 2X o 3X, entriamo in crisi. Se ci battiamo invece per la forza X, la superiamo… Noi ci siamo battuti, in settori decisivi dell’organizzazione, per un potere finanziario e di opinione pubblica (CPE) superiore a quello che possiamo avere attualmente. Da ciò la crisi…».
[4] In precedente occasione: «La Commissione nazionale è un organo spurio che o non serve a nulla perché non ha né compiti politici né compiti organizzativi, o se viene presa sul serio reintroduce una leadership e una canalizzazione organizzativa di carattere nazionale… Il nostro dispositivo d’azione, apparentemente perfetto, si sviluppa in realtà con una lentezza tale da squalificare una linea politica che ha come postulato la disponibilità di una forza autonoma. E’ questa debolezza che dà fiato alle Commissioni nazionali, che ci danno l’illusione di far politica mentre ci trastulliamo… Questa situazione riguarda però cose gravi: tanto l’incanalamento europeo oppure nazionale del nuovo MFE quanto la creazione di abitudini di lavoro utile oppure la moltiplicazione di organi e comitati che elaborano giudizi politici che nessuno ascolta, o direttive d’azione che nessuno applica».
[5] Recentemente qualcuno tra noi ha negato che la prima forza sociale disponibile per la lotta federalista sia l’europeismo. La negazione è straordinaria. Sganciata dall’europeismo diffuso, cioè dalla sua base sociale, la politica federalista salirebbe al cielo come una mongolfiera senza ormeggi. Si dice che tanto l’europeismo organizzabile, quanto quello diffuso, sarebbero deboli o reazionari. Se il primo fosse tale per essenza non ci sarebbe più nulla da fare, nemmeno la lotta europea contro l’europeismo. Il fatto è che l’europeismo organizzato non è dappertutto debole o reazionario. Ciò mostra che dipende dagli uomini il farne una cosa o l’altra, come cento e più anni fa dipendeva dagli uomini l’avere una forma «utopistica» o «scientifica» di socialismo. Quanto al secondo, esso è una forza sociale spontanea priva di direzione politica autonoma (per la debolezza del primo nel quadro europeo). Questo basta per dire che non si può giudicarlo né debole né forte, né reazionario né progressista. Si tratta infatti di una forza non ancora esperimentata, non ancora portata sul terreno politico per se stessa (è certo che l’europeismo governativo sfrutta quello diffuso, ma si tratta appunto di uno sfruttamento, come quello che forme fasciste o utopiste hanno potuto fare della classe operaia quando essa si è trovata senza direzione politica autonoma).
[6] In altre occasioni: «Dobbiamo considerare preminente il lavoro culturale. Ci vuole una dottrina per mostrare quale sia il nostro nemico e perché esso sia da abbattere. Una dottrina permanente. Senza dottrina si possono fare colpi di mano, politiche carbonare, imprese a breve termine, ma non imprese a lungo termine che devono tenere sul campo per molto tempo molti uomini senza casse per pagarli o ricompensarli e senza la prospettiva del successo vicino… Sinché la gente pensa che il male è il capitalismo, il totalitarismo comunista, l’anticristo, la reazione naturale — la ricevibilità di parole d’ordine — sarà dei socialisti, dei democratici, dei cristiani… Ci vuole una teoria soddisfacente dello Stato nazionale, un fondamento solido per la nostra pretesa di dichiararlo illegittimo, di rifiutare il lealismo. Il socialismo ha cominciato dalla negazione del capitalismo (ed ebbe forza pari alla validità, all’ampiezza e alla profondità della critica), e così ha fatto il liberalismo nelle sue varie accezioni contro il feudalesimo e le sue sopravvivenze, il nazionalismo contro l’Europa anazionale e via dicendo. La svolta dal regime degli Stati nazionali a quello federale è impossibile senza una profonda negazione del nazionalismo (= Stato nazionale) in tutti i campi dove esso ha esteso la sua influenza. Non ci sarebbero mai le truppe per l’assalto. Al proposito io non ho dubbi. Bisogna mettere in piedi una opposizione di regime, ed una opposizione di regime si fonda soltanto su una profonda negazione — che per il suo carattere, per il fatto stesso che nega una situazione di potere che ha prodotto una cultura, non può che avere carattere culturale — su una profonda negazione del regime esistente. Bisogna davvero dimostrare che la nazione è un idolo. Non basta dirlo. Bisogna dirlo in modo tale che i migliori, e poi gli altri, si convincano che è un idolo, che non va servito. Sino a che non ci si giunga la nostra opposizione resta velleitaria, noi «non stiamo per noi medesimi», la nostra forza è zero.
§ Marzo 1961
# Giugno 1961, in risposta ad un questionario sulle «prospettive a lungo termine di un’azione politica per la costituente europea».
‡ Settembre 1961
[7] Solo a questo punto si può impostare seriamente il problema del partito federalista elettorale. Ed a questo punto si vede che esso dividerebbe i federalisti nei singoli campi nazionali, fatto che permette forse anche di capire che non si può lottare per un potere senza servirlo, che non è possibile conquistare un potere nazionale senza nazionalizzarsi. Il partito è una cattiva risposta ad un problema reale: che cosa fare di fronte alle elezioni nazionali. Il criterio dell’unità ci dà la risposta giusta: astensione. L’astensione è una negazione del potere nazionale, negazione che ci mantiene nel campo europeo, e traduce in fatto politico concreto la rivolta del cittadino democratico ingannato perché ha diritto di voto solo al livello nazionale dove si risolvono soltanto questioni di rivalità tra fazioni, mentre non può votare al livello europeo, dove si compiono le scelte decisive. Naturalmente l’astensione attiva è un atteggiamento da valutare politicamente, da assumere quando ci può giovare, cioè quando saremo vicini alla azione del tipo programma massimo.
[8] Giunti allo scoperto non potremo più avanzare con una bandiera incerta e con un ordine di marcia copiato dai partiti nazionali. Bisognerà definire il Movimento per quel che vale il suo compito, dargli la sua bandiera, e dargli anche l’ordine di marcia, le strutture, con il quale possa avanzare. Di recente il Comitato Centrale ha stabilito a maggioranza che il prossimo congresso di Lione non potrà occuparsi della questione della riforma degli statuti. Ma il problema si porrà egualmente, se il M.F.E. vivrà. La bandiera, la definizione, deve includere ogni idea, ogni sentimento che il federalismo metta in gioco. Il movimento deve valere non per un territorio, ma per la storia futura del mondo. A mio parere bisognerà lasciar cadere il termine «europeo» nel nome del Movimento, e definirlo all’incirca così: «Il Movimento Federalista è l’organizzazione unitaria supernazionale della lotta contro la sovranità assoluta degli Stati, radice dell’ingiustizia sociale internazionale e della guerra come mezzo ultimo di direzione politica dell’umanità. Il suo scopo finale è l’unificazione federale del mondo, la sua strategia la fondazione di federazioni regionali e la loro estensione». L’ordine di marcia, le strutture, dovranno tener conto di ciò che dobbiamo effettivamente organizzare. Si tratta di definire le regole per la selezione dei dirigenti, per l’adesione dei soci, per la vita delle sezioni, per la formazione dei congressi in modo tale che le nostre istituzioni reclutino e selezionino davvero una forza adatta ad affrontare il nostro compito.