Anno XVII, 1975, Numero 4, Pagina 256
Antonio Gambino, Storia del dopoguerra, dalla Liberazione al potere D.C., Laterza, Bari, 1975, pp. 544.
La fase della storia politica italiana presa in esame da Gambino è quella dell’immediato dopoguerra, dall’insediamento del primo governo Bonomi alla vittoria elettorale della D.C. il 18 aprile 1948. Fino ad ora poco di sistematico era stato scritto intorno a questo interessante periodo della vita politica italiana, caratterizzato dalla formazione di governi di unità nazionale. Il libro di Gambino colma efficacemente questa lacuna, senza trascurare, come di solito avviene nella storiografia tradizionale (v. il recente volume di E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi) Feltrinelli, 1975), le connessioni fra politica interna e politica estera, che tanta influenza hanno avuto sulle scelte fondamentali dei partiti politici italiani.
Il 22 aprile 1944 era stato formato il governo Badoglio, grazie alla decisione di Togliatti di partecipare ad un governo di unità nazionale senza imporre alcuna condizione da parte del P.C.I. Dopo la liberazione di Roma (8 giugno) si pone però il problema di un governo presieduto da un uomo del C.L.N. Le circostanze stesse in cui viene fatta la proposta lasciano chiaramente percepire il grado di tutela a cui erano allora sottoposte le forze politiche antifasciste. «Il Comitato di liberazione nazionale si è dato appuntamento al Grand Hotel dove l’atmosfera è caotica. L’albergo è stato requisito dagli alleati, e gli ufficiali inglesi e americani si muovono rumorosamente dappertutto: i rappresentanti dei partiti antifascisti si possono quindi riunire, senza alcuna formalità, solo in una piccola saletta dell’albergo. Inoltre, la misura della loro limitata autonomia è data dal fatto che il colloquio è aperto dal capo della Commissione alleata di controllo, generale MacFarlane. La decisione raggiunta già da molti mesi dai sei partiti del C.L.N. è quella di chiedere le dimissioni di Badoglio, in modo che il posto del primo ministro venga assunto dal presidente del Comitato stesso, Ivanoe Bonomi. Ma quando il maresciallo arriva e, entrato nella sala della riunione avendo al suo fianco Benedetto Croce e Palmiro Togliatti, informa i presenti che il luogotenente lo ha incaricato di formare il nuovo governo, molti temono che i propositi di fermezza espressi in precedenza vengano rapidamente messi da parte» (p. 8). Tuttavia la proposta del C.L.N. venne accettata perché gli americani erano favorevoli ad un governo rinnovato e nonostante la resistenza degli inglesi, che volevano invece garantire la continuità dello Stato in vista del trattato di pace ed erano comunque riusciti a salvare l’istituto monarchico: «…il primo ministro britannico puntava ancora tanto apertamente su Badoglio, da rifiutare, per quasi due settimane, di riconoscere il nuovo governo Bonomi, insistendo addirittura per la sua revoca. Il dato interessante è che, in questa controversia, Churchill ha l’appoggio pieno di Stalin che, mirando chiaramente ad una divisione dell’Europa in sfere di influenza, riconosce esplicitamente in una lettera dell’11 giugno il diritto occidentale di avere la parola finale negli affari interni italiani, e si dichiara in partenza d’accordo su quanto il governo di Londra deciderà di fare» (p. 10).
Il dibattito, consueto nella sinistra italiana, intorno alle possibilità di formare un governo di sinistra o addirittura un governo rivoluzionario all’indomani della Liberazione prescinde pertanto totalmente dai condizionamenti di politica internazionale che pesavano sulle scelte politiche italiane ed escludevano a priori qualsiasi ipotesi non compatibile con l’appartenenza dell’Italia alla sfera di influenza occidentale. «Noi sapevamo benissimo, dice Togliatti — aprendo il 7 aprile 1945 il Consiglio nazionale del partito — che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere…, ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità pratica di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva» (p. 41). E commentando una testimonianza di Sereni, Gambino aggiunge: «Sereni, dice… in modo sufficientemente esplicito che una parte non trascurabile dei comunisti italiani accetta (nella primavera del ‘45, come d’altra parte già in quella del ‘44) la linea moderata di Togliatti solo perché ritiene che sia appunto una politica del genere che Stalin desidera in quel momento dal P.C.I., allo scopo di mantenere in vita il più a lungo possibile le ‘alleanze di guerra’ e di ridurre al minimo la sospettosità di Washington e Londra, mentre l’U.R.S.S. consolida, con tutti i mezzi a propria disposizione, il proprio controllo sull’Europa orientale. E non si tratta di una intuizione sbagliata, perché certamente gli occidentali, che nella loro avanzata verso oriente erano penetrati, e ancor più avevano la possibilità di penetrare, ben al di là delle linee di demarcazione fissate per i vari eserciti in Germania e in Cecoslovacchia e in Austria, non avrebbero mai rispettato i patti sottoscritti se avessero visto i comunisti italiani violare apertamente, con un’insurrezione rivoluzionaria al di là della Linea gotica, la logica ferrea delle sfere di influenza» (pp. 43-44).
Ben descritte e documentate da Gambino sono anche le successive fasi della politica italiana: la formazione e la caduta del governo Parri, l’ascesa di De Gasperi, la scelta decisiva di liberalizzare il commercio estero attuata da Einaudi, la nascita della Repubblica con il Referendum del 2 giugno e la prova di forza con la monarchia, ed infine la scissione socialista quando ormai diventava inevitabile la coincidenza fra forze di governo e lealtà al campo occidentale.
Con l’approssimarsi della prima vera prova elettorale, dopo la formazione della Repubblica, De Gasperi mette fine al governo tripartito e le sinistre lanciano la politica del Fronte popolare, accentuando i toni polemici con il governo. La risposta immediata è la formazione di un « blocco anticomunista» e la mobilitazione della Chiesa, che fino ad allora si era tenuta prudentemente ai margini della vita politica. In vista delle elezioni del 18 aprile 1948, vengono formati, su iniziativa del Vaticano, i «Comitati civici» sotto la guida di Luigi Gedda, che già aveva dato ampie prove di capacità organizzative nell’Azione cattolica. «Nel giro di un mese si crea così una ragnatela di Comitati civici regionali e poi zonali, questi ultimi direttamente appoggiati alle 22 mila parrocchie esistenti nella penisola. ‘Complessivamente — afferma Gedda — nelle ultime settimane della campagna elettorale il nostro esercito poteva contare su circa 300 mila volontari. La nostra forza, però, non era solo nel numero, ma anche nella possibilità di stabilire con la popolazione un contatto immediato, di poter agire, in qualche modo, dal di dentro della società, e non dal di fuori, come quasi sempre accade alle normali formazioni politiche’» (p. 444).
All’intervento del Vaticano si aggiunge quello degli Stati Uniti. Proprio allora era stato varato il Piano Marshall e l’ambasciatore americano in Italia non perde l’occasione per influenzare in senso filoamericano ed anticomunista l’elettorato italiano. «James Dunn intuisce immediatamente l’occasione eccezionalmente favorevole che in questo modo gli si presenta. D’accordo con il governo italiano stabilisce quindi che l’arrivo di ogni centesima nave, che non avverrà mai allo stesso porto, sia accompagnato da una cerimonia celebrativa. Civitavecchia, Bari, Genova, Napoli, ecc. ricevono così a poche settimane l’una dall’altra, la visita dell’ambasciatore americano, le cui parole, ampiamente riportate da tutta la stampa governativa, acquistano, mano a mano che ci si avvicina al 18 aprile, un tono sempre più apertamente politico… Dunn non limita i propri interventi alla cerimonia portuale. La costruzione di ponti, case, ospedali, al cui finanziamento ha contribuito in tutto o in parte denaro pubblico o privato americano, gli fornisce altrettante occasioni percorrere la penisola e incontrare gruppi più o meno grandi di futuri elettori» (pp. 446-7).
A queste iniziative americane in Italia si aggiungono pressioni sugli italiani emigrati in America e sui loro parenti rimasti in patria. Ben presto l’operazione assume dimensioni molto ampie e pianificate. «Come tutte le imprese fortunate, anche le ‘lettere agli italiani’ hanno molti padri… Quello che è certo è che dall’inizio del 1948 la campagna per convincere centinaia di migliaia di americani a scrivere ad altrettanti italiani è in pieno sviluppo. L’impostazione originaria, che era quella di approfittare di legami di amicizia o di parentela preesistenti, viene rapidamente abbandonata. Lettere, o anche semplicemente cartoline già scritte, sono messe a disposizione di chiunque le desideri, nelle redazioni di taluni giornali, nelle chiese, nei nelle botteghe di barbiere» (p. 448).
Queste sono le due ragioni della schiacciante vittoria elettorale della D.C. alle elezioni del 18 aprile e della sua successiva permanenza al governo. L’interpretazione di Gambino è nel complesso soddisfacente: il solo appunto che gli si può muovere è di aver ignorato gli ideali europeistici e l’attività gravitante in torno al Movimento federalista europeo, in questo primo dopo-guerra. Anche se l’impegno delle forze europeistiche non si era ancora tradotto in un successo, non per questo andava ignorato: l’Europa era allora solo una speranza; ma una speranza che doveva concretizzarsi in importanti iniziative negli anni successivi.
Guido Montani