Anno XXI, 1979, Numero 3-4, Pagina 244
Claude Bourdet, L’Europe truquée, Parigi, Seghers, 1978, pp. 236.
Michel Debré, Français, choisissons l’Espoir, Parigi, Albin Michel, 1979, pp. 280.
D. Debatisse, S. Dreyfus, G. Laprat, G. Steiff, J.C. Thomas, Europe, la France en jeu, Parigi, Editions sociales, 1979, pp. 254.
Nessuno di questi tre libri meriterebbe di per sé una recensione: non è tuttavia priva di interesse una loro lettura per così dire «sinottica», trattandosi di tre testi a trattano lo stesso problema (l’elezione europea e lo sviluppo della Comunità) da tre punti di vista molto caratterizzanti. Debré rappresenta il nazionalismo di destra, per così dire classico, Bourdet è il tipico intellettuale di sinistra, di ascendenza giacobina e di simpatie socialiste, il nutrito gruppo di autori mobilitati dal P.C.F. ha il compito di tracciare con chiarezza, anche se a prezzo di uno stile un po’ catechistico, la retta via da cui il fedele membro di partito non deve discostarsi, quando gli parlano di quella cosa strana che è l’Europa.
Tutte e tre le opere sono state scritte in vista dell’elezione europea, con l’intendimento di fare azione politica o, quanto meno, recare una testimonianza contro di essa. Il libro di Debré peraltro si presenta come opera di maggior respiro, assumendo il carattere di una vera e propria autobiografia idealmente contrapposta a quella di Monnet, con il lungo racconto della milizia antieuropea dell’autore dai tempi della C.E.C.A. e della C.E.D.
Ma più che i meriti rispettivi, interessano in questa sede le argomentazioni storiche su cui le tre opere sono basate e le proposte politiche su cui sboccano. A questo proposito i parallelismi e le analogie tra di esse (pur rimanendo ciascuna a modo suo esemplare della corrente politica che rappresenta) sono estremamente significativi.
Elemento comune è innanzitutto la considerazione del tutto a-storica della Francia come entità eterna ed immutabile. Debré lo dice chiaramente: Giovanna d’Arco, Colbert, Carnot, Ferry e… de Gaulle sono manifestazioni di una Francia «persona», che è l’unica realtà non sfiorata dal divenire storico (p. 264). La stessa concezione è fatta propria dagli Autori del P.C.F., con qualche aggiornamento di vocabolario, per far finta di restare marxisti: leggiamo che in Francia, paese «caratterizzato da dolorose prove in cui la solidarietà nazionale, sotto l’impulso decisivo della classe operaia, si è radicata profondamente nella coscienza popolare, la difesa dell’identità nazionale, la lotta per l’indipendenza e la sovranità… sono la posta di una importante battaglia di classe» (p. 191). Jaurès, insomma, è stato ucciso perché si batteva per i crediti di guerra. Ed è certamente indiscreto chiedere a persone che si professano filosoficamente materialiste che cosa intendano con l’espressione «l’anima della Francia» (p. 245).
Stando così le cose, ovviamente tutto lo sforzo che dura ormai da una generazione verso forme di integrazione europea non ha nessun fondamento storico e politico, ma ha come unica spiegazione l’«abbandono», il tradimento, il complotto. Anche qui il parallelismo tra le tre opere colpisce: il complotto è ordito ovviamente dagli U.S.A. servendosi come intermediari, a seconda delle situazioni, dei tedeschi, degli inglesi o degli olandesi, tutti uniti nel satanico disegno di «abbassare» la Francia, con la complicità miserabile dei francesi che si battono per l’Europa, i quali non sono in realtà che il «partito dello straniero» (il paragone tra i federalisti e i cattolici ultramontani nel secolo scorso, storicamente assurdo, è avanzato più volte da Debré).
Che esistano delle ragioni di Stato contrapposte, che la Comunità, pur con tutti i suoi limiti, possa rappresentare l’emergere di una ragion di Stato europea con la quale gli U.S.A. possano avere interesse a trattare una ripartizione di responsabilità che manifestamente sono troppo pesanti per essi soli, non viene neanche contemplato come ipotesi. Solo esiste la volontà di impedire alla Francia di realizzare le sue «magnifiche sorti e progressive», siano queste indirizzate nettamente verso destra come si augura Debré, o verso sinistra come, con una certa faciloneria, pronostica Bourdet, con un governo «della sinistra» (cioè socialista o comunista), ipotesi verso cui significativamente gli Autori del P.C.F. si mostrano molto più riservati.
Conseguenza naturale dell’ipotesi del «complotto» contro la Francia è la demonizzazione di chi è all’origine del complotto. Il ruolo della «Commissione trilaterale» assurge in Bourdet (p. 54-55) a quello di vero «deus ex machina» con risultati abbastanza comici per chi ha nozione di quest’istituzione. Ma ciò è nulla rispetto alla falsificazione di cui è oggetto la figura di Jean Monnet; «il più americano degli uomini d’affari francesi» lo definisce Bourdet (p. 29) e gli Autori del P.C.F. più semplicemente «un banchiere» (p. 21).
Debré si vanta del suo odio per Monnet perché «è lui che ha inventato, animato e simbolizzato la religione della sopranazionalità» (p. 33). Per quanto viva sia la nostra venerazione per la memoria di Monnet, è chiaro che siamo di fronte a una sopravalutazione del ruolo storico di Monnet e, ancor più, a una falsificazione della sua personalità. Monnet — lo riconosce un critico non certo preconcetto di Debré come André Fontaine (Le Monde, 4-4-1979) — era l’opposto di un fanatico. Era un empirico, sorretto però da una lucida visione complessiva e da una indomabile coscienza morale.
Come logico, di fronte al verificarsi comunque della elezione europea e al nuovo soffio di energia che essa potrà dare alla Comunità (sull’argomento le pagine di Debré potrebbero essere condivise da qualsiasi federalista, anche se con animo del tutto opposto), i nostri Autori devono comunque fornire qualche indicazione sul «che fare». Per Bourdet la politica dell’Europa deve essere quella del non-allineamento (cui consacra la seconda parte del suo saggio), ma a condizione che tale politica trovi prima realizzazione in Francia e in Italia (e successivamente «per la forza dell’esempio» — p. 86 — negli altri paesi europei). Prospettiva data come possibile e, anzi, imminente, se le elezioni europee, con la prevista maggioranza «atlantica», non venissero ad impedirlo. La riflessione del P.C.I. a proposito dell’Europa e del Patto atlantico viene presentata da Bourdet come un puro stratagemma tattico (p. 82), il che non è un servizio, né alla verità né al P.C.I.
Non molto più chiari sono gli obiettivi del P.C.F.: «La costruzione di una Europa democratica e indipendente implica non ridurre, ma anzi rafforzare, la sovranità nazionale» (p. 209). Così «a livello del Consiglio dei ministri, la regola dell’unanimità deve essere rigorosamente osservata», anche se… «la democratizzazione delle istituzioni europee s’impone urgentemente» (p. 207).
Per Debré «il più grande dei problemi dell’Europa occidentale è la sua debolezza demografica» (p. 255) da cui la necessità di assegni familiari, statuto della madre di famiglia, per allettarla a essere prolifica, ecc. (È significativo che i pochi problemi che Debré vorrebbe trattati a livello europeo, sono quelli che in una ottica federalista devono essere competenza della Comunità di base, anche perché, ad es., il problema demografico si presenta diversamente in Sicilia o in Normandia).
In tutti e tre i libri comune è il rifiuto di prendere in considerazione quelli che sono i problemi fondamentali del parlamento eletto: organizzare la propria attività a misurarsi con i temi di fondo su cui si gioca il futuro dell’Europa: la politica monetaria, la politica regionale, la politica energetica. Sul tema monetario il silenzio dei nostri Autori è completo, sul tema regionale non si va al di là dell’ ‘assistenza’ che deve essere assicurata a situazioni di difficoltà (e sempre, d’altronde, da parte dei governi nazionali). Quanto alla politica energetica pochi vaghissimi cenni, mentre essa è, a ben vedere, proprio un test di federalismo applicato, in quanto le diverse fonti di energia che l’Europa deve sviluppare non si situano allo stesso livello di controllo politico: non ha senso che sia la stessa struttura politica che decida la produzione e l’utilizzazione di energia solare e energia d’origine nucleare (si vedano in proposito le penetranti osservazioni di O. Giarini in La delusione tecnologica, Milano, Mondadori, 1979).
Tutto ciò prova, se fosse stato necessario, che le battaglie per l’ordine del giorno delle sedute del Parlamento europeo saranno molto più che battaglie procedurali. Starà agli eletti dimostrare di essere all’altezza della loro storica responsabilità.
Gianni Merlini