Anno XXII, 1980, Numero 3, Pagina 211
Giuseppe Petrilli, Il mattino d’Europa, F. Angeli, Milano, 1980.
Tutti gli scritti che Petrilli ha raccolto in questo volume hanno come riferimento diretto o indiretto l’Europa. Ma non si tratta di una limitazione, come accade troppo spesso quando in causa è l’Europa, perché nell’analisi di Petrilli i fatti europei non sono mai separati dall’intera vita del nostro tempo, né dalle grandi questioni culturali con le quali ci si interroga sul suo senso. C’è dunque, in questo volume, l’Europa vera — che, va ricordato, pur avendo raggiunto un grado di sviluppo che ha reso possibile per la prima volta l’esercizio del voto nell’ambito di un gruppo di nazioni (aprendo probabilmente una nuova via, quella della democrazia internazionale), non ha ancora trovato nel dibattito scientifico, politico e culturale, e nello stesso sistema dell’informazione, il posto che occupa già, sia pure in embrione, tra le grandi innovazioni della storia.
È per questo che bisogna ancora distinguere, con l’aiuto di esperienze come quella di Petrilli, l’Europa com’è nella realtà dall’Europa immaginaria, che esiste solo nella testa dei molti che non fanno alcuno sforzo per pensarla. E la prima distinzione da fare, a questo riguardo, è molto semplice. Si può infatti dire che si arriva al cuore dei fatti europei — uno storico direbbe alle fonti di prima mano — solo se si tiene presente che l’Europa è — e non può essere altro che — uno dei modi di vivere il nostro tempo e di tentare di costruirlo. E si può andare più in là. Sulla base di una opinione che si è sviluppata faticosamente nell’ambiente del federalismo a partire dal pensiero di pionieri come Luigi Einaudi, si può anche giungere a dire che per coloro che vivono in Europa l’impegno europeo è forse, sul piano politico, il modo più profondo di vivere il nostro tempo, quello che ci avvicina di più al corso attuale della storia, e collega così senza troppe zone d’ombra il presente al passato e al futuro.
In ogni caso la riflessione europea, nella misura in cui non separa l’Europa dalla vita e dalle lotte del nostro tempo, permette di riproporre questo problema decisivo. È un fatto che se si perde il contatto con il passato si rende indecifrabile il futuro, e si riduce lo spazio della ragione alimentando l’irrazionalismo. È sensato, d’altra parte, ritenere che ciò accada proprio quando l’impegno nazionale prevale su quello europeo perché in questo caso non si dispone del punto di vista necessario per una conoscenza esauriente dei rivolgimenti provocati dalle due grandi guerre mondiali. In questione non è soltanto la posizione in cui si trova ora l’Europa, occupata e divisa in due dalle grandi potenze del nuovo sistema mondiale, ma anche il profondo cambiamento del modo di vivere e di sentire di tutti gli europei. Ed è questo il punto cruciale. Si può infatti constatare che questo cambiamento resta tuttora nell’oscurità — lasciando senza bussola il mondo della politica fino alla crisi delle ideologie — proprio perché viene ancora interpretato, da una cultura ferma al punto di vista nazionale, come la continuazione e lo sviluppo della fase nazionale della storia europea, che invece è finita per sempre. Sta qui, probabilmente, la radice dell’immaginario nel quale si perde il contatto con la storia e la ragione.
Ormai per sapere chi siamo dobbiamo davvero tenere presente che è finita un’epoca; e che ciò riguarda la stessa identità personale di ciascuno perché, in ogni caso, non si può più essere italiani come prima. Il nostro mondo è quello di ciò che comincia ex novo — e solo in parte ricomincia — dopo l’agonia del sistema europeo degli Stati (l’espressione è di Ludwig Dehio); cioè dopo la morte storica degli Stati nazionali della vecchia Europa, che riescono a trovare ancora una parvenza di vita — ma non certo la vera vita di uno Stato che sta nell’affermazione della volontà generale — solo promuovendo — e insieme frenando — l’unificazione dell’Europa, ridotta dai governi nazionali, per quanto sta in loro, a qualcosa come la tela di Penelope. A questo riguardo il caso esemplare è la Francia; e l’istituzione-simbolo il Consiglio europeo, ossia la folle pretesa di governare l’Europa con un mostro a nove teste, e domani a dodici, e così via, fino all’assurdo.
Quando il mondo cambia, per un certo tempo molti credono di continuare a vivere ancora nel mondo di prima. Se non si tiene presente questo tratto costante della storia, non si trova il bandolo della matassa aggrovigliata dei fatti come risultano nella visione della cronaca; e la stessa Europa diventa il paradosso nei quale tanti si imbattono senza accorgersene. È vero, nel senso empirico del termine, che l’unificazione dell’Europa è un fatto nuovo, uno dei pochi fatti politici veramente nuovi del dopoguerra. Ma il grosso dell’intellighenzia, pur avendolo ogni giorno sotto gli occhi, ne vede solo la facciata; e non se ne occupa, sino a ridurlo, nel suo specchio, ad un assurdo, ad un fatto senza senso, senza alcun rilievo sia per il riesame del passato, sia per la comprensione del presente e dell’avvenire. È vero, d’altra parte, che la costruzione dell’Europa è il solo progetto di trasformazione politica e sociale che resta sul campo da alcuni decenni, in un tempo come il nostro che consuma tutto così rapidamente. Ma l’intellighenzia, se si degna di parlarne, arriva persino a dire che dell’unità europea non si occupa nessuno, che le divisioni nazionali sono ancora insuperabili, che l’unità non è per oggi né per domani, e così via, di favola in favola. E quando le nubi si addensano, il coro annuncia la fine dell’Europa, come è già accaduto molte volte.
Ma l’unità c’è, non si disfa, avanza; proprio, si dovrebbe dire, come la talpa di cui parlava Hegel alla fine delle sue lezioni di storia della filosofia, per spiegare ai suoi allievi il trapasso delle epoche, e il modo con il quale il fattore del trapasso lo porta a compimento. Citando le parole di Amleto allo spirito del padre (Ben fatto, vecchia talpa!), egli paragonava il modo con il quale il nuovo avanza nella storia al lavoro della talpa che scava nel sottosuolo fino a che «la crosta, edificio senza anima e tarlato, crolla, e lo spirito assume l’aspetto di una nuova giovinezza». Sembra di vedere all’opera Jean Monnet che del suo lavoro ha detto: «Se la concorrenza era viva nei dintorni del potere, era praticamente nulla nel dominio nel quale io volevo lavorare, quello della preparazione dell’avvenire che, per definizione, non è rischiarato dalle luci dell’attualità».
In effetti la talpa europea lavora già da molto tempo. Fuor di metafora, l’unità c’è, non si disfa e avanza proprio perché un numero crescente di persone si occupa dell’Europa. Il voto europeo, col tempo, farà il resto. Intanto, per chiamare altri sulla via dell’unità e per far sì che il suo significato politico e sociale venga apertamente riconosciuto, bisogna far cadere il paradosso europeo; e per farlo cadere basta mostrare quale sia stato, nel corso di questi anni, il rapporto tra l’Europa e il modo di vivere degli europei — rapporto così bene illustrato, per quanto riguarda la sua valenza positiva, dalla esperienza di Petrilli. Bastano, a questo riguardo, poche osservazioni. La prima è questa: l’unità europea è solida perché corrisponde al nuovo modo di vivere e di sentire degli europei. Senza questo nuovo modo di sentire e di comportarsi, al posto del Mercato comune avremmo il protezionismo, al posto della riconciliazione franco-tedesca (come della generale riconciliazione europea) la diffidenza reciproca, al posto della collaborazione fra gli Stati la vecchia rivalità militare, con i confini da presidiare, di tutto il passato.
La seconda osservazione è questa: abbiamo l’Europa che è stata costruita da coloro che se ne sono occupati. Uomini come Monnet, statisti come Adenauer, De Gasperi, Schuman, Spaak, uomini politici come Petrilli, e beninteso i federalisti, e Altiero Spinelli. La loro opera sembra imperfetta, ma in verità è imperfetta solo perché è incompiuta. La terza osservazione è questa: l’Europa vive ancora nel sottosuolo, cioè solo nel sentire, ma non ancora nel pensare della gente, proprio perché i più tra coloro che le forniscono le immagini del mondo si occupano di tutto meno che della costruzione dell’Europa; e se l’Europa sembra povera di senso è perché il senso le viene tolto da tutti coloro che lo cercano ancora nelle cose morte, negli Stati nazionali, fino a far scomparire dall’orizzonte l’idea stessa dell’avvenire, che non sta più dalla parte delle nazioni esclusive del passato, ma dalla parte dell’unità europea, e dell’incipiente unità del genere umano.
Non bisogna tuttavia perdere né la pazienza né la fiducia. L’Europa come governo democratico di una società di nazioni coincide con l’idea dell’avvenire. Questo è il fatto che conta, e che finirà con l’aprire gli occhi a tutti, perché dalla parte dell’avvenire sta anche la ragione, che si sveglia, e fa il suo lavoro, là dove si vede una via nuova da percorrere. Questa via nessuno l’ha vista meglio di Sacharov, anche se per ora gli europei, ai quali egli si rivolgeva in occasione del voto europeo, non l’hanno ancora ascoltato: «È mia opinione che la creazione del Parlamento europeo, e soprattutto l’intenzione di riorganizzarlo in base alle indicazioni che emergeranno dalle elezioni dirette, sia un passo importante nella giusta e necessaria direzione dell’integrazione europea e anzi trampolino, in una più ampia prospettiva, per la convergenza e l’integrazione di tutti i paesi del mondo. Sono convinto che solo il progresso in questa direzione potrà diminuire i complessi pericoli che minacciano da vicino l’umanità… È risaputo che un numero sempre crescente di problemi della vita moderna a livello mondiale esigerà gli sforzi di tutti. Tali sforzi dovranno essere coordinati tenendo presente le sempre più ampie prospettive poste per gli interessi dell’umanità. Uno di questi problemi globali è la protezione dell’ambiente collegato con quelli relativi alle risorse, alla tecnologia e alla demografia. Come problema centrale socio-politico abbiamo la battaglia nei confronti del totalitarismo dilagante e contro la minaccia di una guerra termonucleare a livello mondiale… L’integrazione europea, che nel prossimo futuro è destinata a diventare sempre più reale e immediata, dovrà — lo ripeto — diventare passaggio obbligato e modello per un processo evolutivo che si estenderà a tutto il mondo».
Mario Albertini