Anno XVII, 1975, Numero 4, Pagina 227
ETNIE E POTERE IN EUROPA
La condizione di soffocante subordinazione in cui si trovano molti gruppi etnici è diventata sempre più grave in questi ultimi anni e ha determinato la diffusione di un sentimento di crescente opposizione al potere centrale degli Stati nazionali; anzi, dal «sentimento di opposizione» si è passati più volte alla resistenza armata, alla guerriglia urbana, ad azioni di insurrezione che hanno riproposto alle popolazioni delle zone interessate e, più in generale, all’opinione pubblica mondiale il problema della liberalizzazione e autogestione delle etnie.
La indicata condizione si verifica in varie parti del mondo, certamente nella maggior parte degli Stati nazionali; in certi tuttavia, i gruppi etnici, pur conservando un minimo di identità, non riescono ad esprimersi in modo incisivo e in altri casi il logorio del tempo e la gendarmeria del governo centrale determinato la loro scomparsa politica.
L’Europa occidentale è la zona nella quale le etnie riescono maggiormente a conservare una coscienza di gruppo, a manifestare la propria esistenza e a reclamare nuove condizioni di potere che favoriscano la tutela diretta dei propri interessi. Inoltre, alcune etnie europee hanno realizzato di recente qualche iniziativa per la ricerca di una comune strategia di sopravvivenza o di opposizione, per aiutarsi reciprocamente, per collegare le specifiche esperienze.
Comunque, anche nell’Europa occidentale, stante l’attuale organizzazione politica degli Stati, le prospettive dei gruppi etnici sono disperate a motivo della supremazia del governo centrale che controlla la politica, l’economia, la cultura e che impone le proprie esigenze in modo apparentemente pacifico, quando è possibile, ovvero in modo repressivo, nella maggior parte dei casi.
Generalmente, il problema di cui trattasi viene «liquidato» qualificando esplicitamente o implicitamente i gruppi etnici, che mal sopportano la situazione in essere, come «minoranze» e, quindi, essenzialmente come un «coacervo» di nostalgici o, peggio, di facinorosi che, talvolta, giocano alla rivoluzione o alla guerra, magari perché vengono strumentalizzati da «spregiudicati estremisti». Questo giudizio dei cosiddetti «benpensanti» non sempre è presentato nei termini su riportati, ma, a ben osservare, anche nel caso che si usino circonlocuzioni mistificatorie o espressioni e termini equivoci, il senso di molti commenti può sintetizzarsi nella opposizione a che le «minoranze» infastidiscano le «maggioranze» con i loro atti inconsulti.
Per esaminare realisticamente e con volontà di obiettività gli atteggiamenti di questi gruppi «minoritari» è necessario preliminarmente considerare che l’espressione usata per indicarli (minoranze etniche), non è esatta, anzi può affermarsi che è falsa. Tale espressione, infatti, sottintende l’esistenza di un rapporto numerico tra le minoranze e gruppi al potere, il quale in molti casi non corrisponde alla realtà (p. es. si consideri la situazione irlandese). Inoltre, il cosiddetto gruppo etnico contrapposto alle «minoranze», in effetti, è costituito da alcune piccole etnie che sono state in qualche modo «omogeneizzate» da una di esse, da quella, cioè, che ha assunto l’egemonia e che ha imposto le proprie regole (lingua, struttura del potere, modelli di vita, usi e costumi, ecc.). L’operazione di «omogeneizzazione politica» nella realtà degli Stati nazionali dell’ottocento e del novecento è avvenuta con la partecipazione interessata di gruppi sociali, anch’essi egemoni, cioè di grandi interessi economici e finanziari, ed ha avuto l’utile strumentazione della retorica nazionalistica.
Pertanto, quelle che vengono qualificate «minoranze etniche» sono in effetti i gruppi etnici che hanno saputo conservare una propria individualità nei confronti di altri gruppi etnici, ai quali gli eventi storici e i rapporti economici hanno attribuito una posizione egemone.
I gruppi etnici, che hanno resistito, rivendicano il riconoscimento della loro esistenza e ciò si scontra con gli interessi costituiti degli Stati nazionali, nei quali altri gruppi etnici hanno assunto una posizione egemone e la possibilità di esercitare un potere di prevaricazione politica e di sfruttamento economico.
I fatti dimostrano che la lotta dei gruppi etnici resistenti contro gli Stati nazionali è, di norma, disperata e tristemente sanguinosa, cioè testimonia un rapporto di forza e di potere ampiamente impari, tanto che è comprensibile l’atteggiamento di chi, pur partendo da posizioni di resistenza etnica, è contrario alle azioni violente, in quanto non le considera risolutive; a maggior ragione, si dimostrano contrari ai metodi cruenti di lotta, che in Europa sono sempre più frequenti, coloro che, comunque, sono contrari alla violenza, quale strumento di lotta politica.
In questi ultimi anni, taluni Stati nazionali europei hanno tentato di razionalizzare la propria struttura di potere e di procrastinare la propria esistenza concedendo deleghe, o decentrando la propria burocrazia, o riformando il sistema politico-amministrativo con la realizzazione di autonomie locali, invero più formali che sostanziali.
In effetti, le risposte finora presentate dallo Stato nazionale per reagire alle sfide delle «etnie resistenti», che reclamano autonomie sostanziali, sono apparse decisamente inadeguate: spesso, neppure a breve termine, sono riuscite a soddisfare l’esigenza dei gruppi etnici ad avere una propria identità e a favorire il proprio sviluppo economico e sociale.
La circostanza che può soddisfare le indicate esigenze non può essere, peraltro, la realizzazione di un «separatismo» che consenta la formazione di anacronistiche repubblichette politicamente e territorialmente asfittiche, le quali avrebbero nella realtà internazionale, che è quella che più conta, una funzione politica simile a quella della repubblica di Andorra o della repubblica di San Marino.
Il progresso dei popoli e delle comunità rende sempre più necessario poter accedere ai centri mondiali del potere politico, attivare le ricerche che consentano lo sviluppo della scienza e della tecnica e l’utilizzazione concreta dei relativi risultati, attuare politiche economiche e commerciali che garantiscano il reperimento delle materie prime vitali, ottenere i vantaggi da progetti economici di ampio respiro spaziale e temporale coordinati a livello di continente, ecc. Orbene, tutto ciò sarebbe precluso alle eventuali repubblichette che riuscissero a nascere in seguito ad un improbabile o, meglio, impossibile distacco dagli attuali Stati nazionali europei.
Invero, per realizzare le prospettive dei resistenti etnici non appare opportuno passare attraverso operazioni pacifiche o violente di separazione per scissione. Non è realistico, in altri termini, presumere che lo Stato nazionale possa essere sconfitto sul piano interno da una delle sue etnie minoritarie, proprio perché ciò comporta un confronto impari. Il risultato massimo ottenibile da una tale strategia — come taluni esempi hanno dimostrato — è l’ottenimento di una maggiore autonomia formale.
È anche vero, tuttavia, che gli attuali Stati nazionali europei possono e devono essere sconfitti, conformemente all’interesse di un’ampia coalizione di forze politiche e sociali, oltreché all’interesse delle etnie resistenti; ma, a tal fine occorre agire non sul piano interno, nel quale — si ripete — le etnie resistenti sono deboli rispetto a quelle egemoni, bensì sul piano internazionale nel quale ciascuno Stato nazionale dimostra sempre più la propria obsolescenza storica. Si vuole affermare, cioè, che il superamento delle gravi contraddizioni e deficienze dello Stato nazionale non si può attuare creando nuovi staterelli, anch’essi necessariamente inadeguati rispetto alle condizioni politiche del mondo moderno.
Pertanto, la sopravvivenza in condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale delle etnie europee passa attraverso una loro unificazione paritetica, che consenta, cioè, l’ottenimento dei benefici dell’ampia dimensione statuale, unitamente, però, alla autonomia sostanziale.
Per conseguire un tale risultato, «storicamente rivoluzionario», occorre realizzare l’unificazione politica dell’Europa su basi federali che per definizione implica la sostituzione del potere dei singoli Stati nazionali europei con due nuovi centri di potere: quello europeo (sovrannazionale) che gestirebbe le materie di comune interesse di tutte le etnie presenti in Europa e, cioè, del Popolo europeo considerato nel suo complesso, ma articolato democraticamente e, quello di ciascuna delle Comunità locali (infranazionali) che dovrebbero gestire in modo sostanzialmente autonomo, originario, ed esclusivo, le materie di specifico interesse. È facile dimostrare, come anche in questa rivista è stato fatto più volte, che l’equilibrio dei poteri potrebbe ottenersi agevolmente per il tramite ad apposite soluzioni tecnico-giuridiche.
Il risultato di tale evento sarebbe costituito, oltreché dalla eliminazione degli Stati nazionali europei, dalla affermazione del pluralismo, della partecipazione al potere, dell’autogestione, della democrazia sostanziale, da un lato e, dall’altro, dalla garanzia della rappresentanza degli interessi di tutte le etnie europee sul piano internazionale, dall’assistenza per lo sviluppo economico e sociale e dallo sfruttamento dei vantaggi connessi con l’appartenenza ad un grande Stato di ampiezza continentale (lo Stato federale europeo).
Giuseppe Usai
(settembre 1975)