Anno XIX, 1977, Numero 1, Pagina 65
IL P.C.I. E IL PIANO A MEDIO TERMINE
Non vi è dubbio che il destino dell’attuale governo, o di qualsiasi altro governo italiano, dipenderà principalmente dalla sua capacità di formulare e realizzare un piano per far uscire l’Italia dalla più grave crisi economica del dopoguerra. Bene ha fatto pertanto Berlinguer ad aprire nel P.C.I. un dibattito al fine di definire gli obiettivi prioritari di un piano a medio termine. Si corre altrimenti il rischio di dover improvvisare giorno per giorno misure di politica economica che possono portarci in direzioni del tutto indesiderabili.
Il P.C.I. è anche il partito nel quale più netta è la coscienza del rapporto fra prospettive politiche e capacità di ripresa e di sviluppo economico. Senza la partecipazione delle forze produttive e delle masse popolari, qualsiasi programma è destinato a cadere nel vuoto, come testimonia la politica economica del centro-sinistra.
Si ha tuttavia l’impressione che il dibattito appena iniziato all’interno del P.C.I. prescinda totalmente da alcune prospettive politiche che potrebbero modificare radicalmente non solo l’orientamento del piano a medio termine, cioè delle misure più urgenti, ma anche delle scelte a più lunga scadenza, dalle quali anche dipende la formulazione degli obiettivi a breve termine.
Secondo i federalisti, i fattori trascurati nel dibattito sono: 1) il fatto che nel 1978 si terranno le elezioni del parlamento europeo a suffragio universale e che, pertanto, una prima verifica dell’efficacia della politica del governo e dei partiti che lo sostengono avverrà proprio sul terreno europeo; 2) il fatto che con il Parlamento europeo eletto, cioè con la partecipazione delle forze popolari, sarà possibile varare a livello europeo misure di politica economica ben più efficaci delle attuali. Sarà possibile, in effetti, rilanciare la costruzione dell’Unione economica e monetaria, i cui progetti sono fino ad ora miseramente falliti proprio a causa della mancanza del sostegno delle forze politiche e sociali alle istituzioni comunitarie. Inoltre, il Parlamento europeo eletto, affiancato da un esecutivo europeo, potrà adottare misure di politica estera che rendano di nuovo indipendente l’Europa nei confronti delle potenze continentali e facilitino il processo di distensione e di collaborazione con i paesi del Terzo mondo.
Non si potrà pretendere di meno dalla elezione europea del 1978 e dai partiti che vorranno essere presenti nel Parlamento europeo. Chiamare i cittadini europei alle urne significa riconoscere l’esistenza di un popolo europeo e di una volontà popolare: il Parlamento europeo eletto è lo strumento istituzionale per la trasformazione della società europea; esso diventerà, come ha detto Willy Brandt, la Costituente permanente dell’Europa.
Nel formulare le direttive di un piano a medio termine occorre pertanto riconoscere queste prospettive politiche. Il piano a medio termine è definito nel tempo: si tratta di governare l’economia italiana nella prospettiva della costruzione dell’Unione economica e monetaria, che potrà essere varata solo dopo l’elezione del Parlamento europeo. Esso, inoltre, deve essere limitato nei contenuti: si tratta di iniziare il dibattito sulle misure che possono essere prese a livello italiano e quelle che invece possono e devono essere prese a livello comunitario, dall’esecutivo e dagli organismi istituzionali che il Parlamento europeo deciderà di attivare.
Ed è forse opportuno iniziare subito la discussione sui contenuti del piano, cioè sul contributo che può dare l’Italia alla soluzione della crisi economica. L’Italia è in crisi perché il Mercato comune si sta disgregando ed il Mercato comune si sta disgregando perché l’Italia, insieme agli altri paesi europei, persegue la politica del nazionalismo economico. Non è vero, come spesso si dice, che l’Italia e l’Europa sono travolte da circostanze esterne eccezionali, incontrollabili, come la crisi del sistema monetario internazionale e l’aumento dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio. È vero invece che l’economia mondiale è in crisi perché è in crisi l’economia europea e che gli europei hanno talmente ridotto i loro vincoli di solidarietà comunitaria che diventano facilmente ricattabili — proprio perché si presentano in ordine sparso — da qualsiasi cartello internazionale che sfrutti abilmente i suoi poteri di monopolio. Si può dare anche una semplice prova di questa affermazione. L’economia europea è molto più importante di quella americana nel commercio internazionale: la sua evoluzione condiziona in modo decisivo l’intero andamento del commercio mondiale. Ebbene, dai tempi della fondazione del Mercato comune il tasso di crescita del commercio intra-comunitario è sempre stato più elevato del tasso di crescita del commercio internazionale. Lo sviluppo europeo ha così «tirato» lo sviluppo dell’economia mondiale. Ma oggi, l’incapacità degli europei di governare l’economia comunitaria ha creato una situazione paradossale. Tutti tentano di esportare di più e di importare di meno: tutti tentano cioè di scaricare disoccupazione e inflazione sulle spalle dei propri vicini. E poiché la quota del commercio estero rispetto al volume del prodotto interno è ormai determinante per tutti i paesi europei, il risultato è una riduzione complessiva del prodotto nazionale in tutti i principali paesi europei. Per la prima volta dalla fondazione del Mercato comune, nel 1975 il tasso di sviluppo del commercio intra-comunitario presenta dei valori negativi. Nel 1976, nei principali paesi della Comunità, anche il tasso di crescita del prodotto nazionale presenta dei valori negativi. Sono gli europei a distruggere, con le proprie mani, il loro benessere ed a trascinare in una folle corsa verso il protezionismo l’economia mondiale. Come negli anni trenta stiamo assistendo al ritorno dell’autarchia e come negli anni trenta sono gli europei a guidare questa politica suicida.
Se l’elezione del Parlamento europeo non diventa l’occasione politica per invertire questa tendenza al nazionalismo economico, non si presenteranno forse più speranze di prosperità per decenni. Ma ciò che è peggio è che gli europei dovranno, che lo vogliano o meno, sottoporsi al dominio delle. maggiori potenze che da un ordine internazionale in cui «ciascuno deve fare da sé» hanno tutto da guadagnare, essendo la loro economia molto più,autosufficiente di quella degli Stati europei (gli Stati Uniti dipendono solo per il 4% dalle importazioni, che possono comunque essere facilmente sostituite con produzioni nazionali). E in questa folle corsa al sottosviluppo non sarebbero trascinati soltanto gli europei, ma anche i paesi del Terzo mondo che possono fondare le loro speranze di emancipazione solo sugli aiuti e sulla possibilità di esportare manufatti nei mercati più ricchi.
Bisogna abbandonare la mitica idea, che ha alimentato e alimenta ancora pericolose illusioni, che l’ltalia possa da sola, isolando la propria economia, iniziare la ripresa. Oggi si può pensare un modello di sviluppo europeo, del quale faccia parte l’economia italiana; non più un modello italiano di sviluppo. L’Italia, con una propria politica monetaria, una propria bilancia dei pagamenti, una propria politica industriale, ecc. è condannata alla subordinazione ed alla decadenza sociale ed economica. Un governo europeo, forte del sostegno delle forze popolari, potrebbe invece avviare con successo una politica dell’occupazione e della ristrutturazione industriale su scala europea. Tale politica richiederebbe l’incentivazione, con commesse pubbliche, delle industrie di punta dell’elettronica, dell’energia atomica, dell’aeronautica, ecc. e l’incentivazione, su nuove basi, della cooperazione con i paesi del Mediterraneo, dai quali l’Europa importa materie prime e prodotti agricoli. È evidente che questa nuova divisione internazionale del lavoro richiederebbe per la sua attuazione sia delle modificazioni della tariffa esterna comunitaria, sia una nuova politica agricola che affronti i reali problemi di struttura dell’agricoltura europea e non rappresenti più — come lo è ora — la semplice esportazione, negli altri paesi, della politica agricola degli Stati più forti della Comunità. Un governo europeo avrebbe infine i mezzi necessari per affrontare seriamente il problema degli squilibri regionali e, in particolare, quello del Mezzogiorno.
Per questo il Movimento federalista europeo ha lanciato una campagna popolare affinché i cittadini possano chiedere ai loro partiti di inserire nel loro programma elettorale europeo, come contenuto minimo, un esecutivo ed una moneta europea. La moneta europea e una banca europea di emissione rappresenterebbero gli strumenti indispensabili, nelle mani dell’esecutivo europeo, per realizzare una politica del credito, dell’occupazione e degli investimenti a livello comunitario. Creare una moneta europea significa togliere ai governi nazionali la possibilità di fare politiche monetarie divergenti e disgregatrici del Mercato comune. Ma, nello stesso tempo, significherebbe creare una bilancia dei pagamenti europea ed eliminare l’onere, ormai insostenibile per i paesi più deboli come l’Italia e la Gran Bretagna, di difendere l’equilibrio dei propri conti con l’estero. Una moneta europea sarebbe altrettanto forte del dollaro nel commercio internazionale e darebbe agli europei la possibilità di riconquistare la propria autonomia nell’economia mondiale.
Un piano a medio termine, che preveda uno sbocco europeo alla crisi italiana, dovrà pertanto affrontare principalmente i problemi della transizione dalla moneta nazionale alla moneta europea. Fare la moneta europea significa che il governo italiano non potrà più contare sulla politica monetaria, ma solo sulla politica fiscale, per impostare la sua politica economica. Ciò imporrà una drastica riduzione del deficit pubblico e, pertanto, si imporrà anche una generale revisione del modo e delle voci di spesa del denaro pubblico. Ma, più in generale, si tratterà di indicare nel piano a medio termine solo quegli obiettivi di politica economica che sono affrontabili nel contesto italiano al fine di arginare la crisi e di cominciare, invece, a predisporre i necessari interventi nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio, ecc. che si renderanno necessari in vista di un completo inserimento della nostra economia in quella europea. Certo, questo significherebbe ritornare alla politica dei due tempi, anche se formulata in una prospettiva europea e non più nazionale: risanare oggi l’economia italiana in vista di una ripresa dell’economia europea, in cui diventeranno possibili le riforme di struttura auspicate dalle forze politiche e sociali più avanzate. Ma bisogna rendersi conto che non esistono altre alternative. È molto peggio promettere oggi riforme, illudere le masse, e dover poi essere costretti a riconoscere la propria impotenza. Sarebbe allora la fine di qualsiasi prospettiva di progresso in Italia.
Certamente i tempi e i modi della ripresa in questa prospettiva, non sono brevi né facili. Ma non si tratta di sottovalutare le difficoltà. Alcuni paesi europei, come la Germania, sono fermamente contrari ad assumersi oneri supplementari per aiutare gli italiani ad uscire dalla crisi. Ma questo è proprio il punto di vista che deve essere sconfitto con l’elezione europea. Esistono ormai problemi comuni ai lavoratori tedeschi ed ai lavoratori italiani. Non è pensabile che la Germania si salvi se l’Italia si inabissa. Il problema italiano deve diventare un problema regionale dell’Unione europea. Questo non significa altro, per i lavoratori, che costruire un movimento dei lavoratori a livello europeo, con una strategia unitaria. Le differenze nazionali devono contare di meno delle differenze di classe nell’Unione europea. L’internazionalismo operaio, se diventerà democratico, è ancora un’idea che può mobilitare le masse. Con l’elezione europea vi è, per la prima volta nella storia, la possibilità di mettere sullo stesso piano il voto di un lavoratore tedesco e quello di un lavoratore italiano. È intorno a questo nuovo ideale internazionalistico che può rinascere un movimento dei lavoratori in Europa che rappresenti, come è avvenuto nel secolo scorso, un fattore di guida e di progresso per i lavoratori del mondo intero.
Guido Montani
(febbraio 1977)