Anno XXI, 1979, Numero 2, Pagina 122
RENDERE DEMOCRATICI I PARTITI EUROPEI
Una certa cultura marxista non troppo perspicace ha costantemente stabilito un'equazione tra ciò che è «sovrastrutturale» e ciò che è «irrilevante». Ne è scaturita una costante cecità di fronte alla fenomenologia del nazionalismo e l'incapacità di governare i fatti che discendono dallo Stato nazionale. La formula magica dell’internazionalismo proletario, che riproponeva in termini niente affatto originali il vieto mito della borghesia cosmopolita, e quindi degli Stati borghesi operosi e pacifici, o quello delle nazioni sorelle, ha coperto l’impotenza del movimento operaio di fronte a due guerre mondiali, al fascismo, al nazismo, e lo ha posto a rimorchio del processo di integrazione europea. Così, quando i governi, per fronteggiare, nel secondo dopoguerra, problemi che avevano assunto una dimensione sovrannazionale, hanno imboccato e percorso la strada senza sbocchi della collaborazione intergovernativa, la sinistra se ne è sussiegosamente disinteressata, disponendosi, come troppo spesso le accade, a subire il corso delle cose anziché a governarlo.
Questo atteggiamento di passiva subordinazione ai condizionamenti della sovrastruttura si è manifestato anche sul terreno della costruzione dei partiti europei. È evidente che la linea politica di un partito, che voglia rappresentare i lavoratori europei e non una somma europea di lavoratori nazionali, non può che scaturire da una struttura europea in grado di esprimerla unitariamente e di gestirla unitariamente. Il che, va da sé, richiede congressi europei, cui partecipino delegati eletti direttamente dalla base di un partito europeo. Ma i partiti della sinistra hanno preferito o marciare ciascuno per proprio conto, come hanno fatto i comunisti, o ripercorrere la strada, ugualmente disastrosa, delle impotenti «internazionali» del passato, come hanno fatto i socialisti che, su questo terreno, si sono comportati esattamente come i partiti che hanno dato vita alla federazione liberal-democratica o al partito popolare europeo.
Il caso dei socialisti è emblematico. La loro linea politica europea è pregna di contraddizioni e sarà perciò inefficace, a dispetto del forte peso che il responso delle urne attribuirà loro. I laburisti sono in gran parte contrari alla stessa Comunità, i socialisti francesi non sono disposti a battersi per l’estensione dei poteri del Parlamento europeo. Tutti sanno che in queste posizioni non si riconosce la maggioranza dei socialisti europei; ma queste posizioni non solo hanno diritto di cittadinanza nel programma elettorale europeo della Federazione dei partiti socialisti, ma si esprimeranno vigorosamente al Parlamento di Strasburgo attraverso le compagini nazionali britannica e francese del socialismo europeo. Vada sé che, in una struttura europea democratica, cioè in un congresso europeo che avesse i caratteri cui abbiamo accennato, la posizione laburista e quella di Mitterrand sarebbero state largamente battute e ridotte al rango di minoranze inoffensive.
La struttura confederale, o internazionale, non democratica, dei partiti europei fatalmente ripropone nelle loro conferenze diplomatiche (è falso chiamarle congressi) le formule che imperano nelle relazioni tra gli Stati: il compromesso, i reticenti silenzi, l'accordo sui progetti più chiassosi ma vuoti. Questa struttura fa anche sì che in sede europea si riflettano oltremisura le preoccupazioni connesse alla lotta politica nazionale e che queste facciano premio sul dibattito intorno alla linea da seguire nel nuovo equilibrio europeo delle forze. Ciò rende ragione della squallida povertà dei programmi europei dei partiti.
Occorre che vi si ponga tempestivamente rimedio. I parlamentari europei dovranno sfruttare la ancor lassa disciplina europea dei partiti non solo per il rafforzamento della Comunità, ma per la trasformazione europea dei partiti.
Luigi Vittorio Majocchi
(maggio 1979)