Anno XXI, 1979, Numero 1, Pagina 41
LO S.M.E. E L’ECONOMIA ITALIANA
1. — Gli accordi di Bruxelles, che hanno dato un volto al nuovo Sistema monetario europeo, tendono a reintrodurre, almeno su scala regionale, una disciplina monetaria paragonabile a quella che ha prevalso in passato in regime di gold-standard e nel sistema di cambi fissi che ha governato il mondo dagli accordi di Bretton Woods all’inizio degli anni Settanta. È in questo quadro di stabilità monetaria internazionale che si sono realizzate le grandi fasi di sviluppo dell’economia europea.
Appare quindi di difficile comprensione l’ondata di critiche che, soprattutto da parte degli esperti, è stata rivolta contro questi accordi che, si afferma, provocheranno in Italia una consistente recessione e una accelerazione della disoccupazione. Occorre subito ricordare che lo S.M.E. consente all’Italia una fascia di oscillazione più ampia (±6%) e, nel caso di un grave squilibrio di bilancia dei pagamenti, una variazione concordata del tasso di cambio. In sostanza, quella che viene impedita è la c.d. svalutazione selvaggia, che mira a far guadagnare all’Italia più ampie quote di mercato, anche in presenza di alti livelli di inflazione all’interno, attraverso manipolazioni del tasso di cambio.
In realtà, l’opposizione allo S.M.E. appare giustificata alla luce del fatto che, dal 1973 in poi, «l’inflazione con svalutazione» ha rappresentato la ricetta di politica economica più largamente applicata in Italia. Con lo S.M.E. è comunque necessario invertire rotta. Appare logico il dubbio che chi si oppone allo S.M.E. abbia intenzione di farlo.
2. — L’inflazione significa un aumento del livello generale dei prezzi. Essa danneggia evidentemente chi detiene redditi fissi in quanto, a parità di valori monetari posseduti, si riduce la sua capacità d’acquisto. Questo effetto, d’altra parte, tende a frenare l’inflazione (c.d. stabilizzazione automatica) in quanto si contrae la spesa e quindi la pressione sulle risorse disponibili, che ha generato l’aumento dei prezzi.
La stabilizzazione automatica è resa più difficile, nell’economia italiana, dalla larga diffusione di «clausole di indicizzazione», ossia di rivalutazione dei redditi monetari sulla base delle variazioni dei prezzi. Di queste la più nota è la scala mobile, attraverso cui i salari si adeguano all’andamento del costo della vita. Ma esse sono molto generalizzate, anche nell’ambito della spesa pubblica: ad esempio le pensioni, che sono una spesa per l’operatore pubblico e un reddito per gli individui che le percepiscono, sono largamente indicizzate. In conseguenza, affinché l’inflazione riduca la spesa, occorre che i tassi di aumento dei prezzi siano sempre più elevati. In questo caso si riduce drasticamente il valore del risparmio e le famiglie sono indotte a contrarre il consumo per ricostituire la capacità d’acquisto del risparmio accumulato. Si tenga presente in proposito che si è calcolato (Masera) che in Italia il prelievo dell’imposta inflazionistica sul risparmio è stato pari all’incirca al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Se si accelera il ritmo inflazionistico, aumenta la svalutazione del tasso di cambio — per ridare competitività alle imprese nazionali sul mercato mondiale —, e si entra nel c.d. circolo vizioso. La svalutazione, facendo aumentare i prezzi dei beni importati dall’estero, accelera l’aumento dei costi di produzione per due vie: facendo crescere il prezzo delle merci importate e impiegate direttamente nei processi produttivi interni; facendo crescere i prezzi delle merci importate e consumate e, quindi, attraverso variazioni dell’indice del costo della vita, facendo aumentare i salari. Si avvia quindi una spirale perversa inflazione-svalutazione-inflazione che provoca la disgregazione del sistema economico.
3. — L’effetto iniziale di un processo inflazionistico è di ridare vigore alla produzione interna, soprattutto se la stasi del processo di crescita è imputabile ad un aumento dei costi di produzione che ha generato una contrazione dei margini di profitto. L’aumento dei prezzi tende a ricostituire un divario positivo fra prezzi e costi, soprattutto se accompagnato da una svalutazione del valore esterno della moneta, che consente di far saltare il vincolo imposto dai prezzi che prevalgono sui mercati mondiali per i settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale. Ma questo effetto espansivo (la c.d. ripresa drogata) tende ad attenuarsi rapidamente, in quanto i costi si adeguano alla nuova dinamica dei prezzi, a meno che il ritmo inflazionistico si acceleri continuamente. Se questo viene impedito con misure di politica economica, si rientra in una fase di stagnazione.
In realtà l’inflazione ha effetti devastanti per il sistema economico, dal lato della produzione oltre che della distribuzione del reddito. In una situazione generale di incertezza nessuno prende impegni per il futuro. Le imprese producono quanto è necessario per soddisfare la domanda corrente, ma non si avventurano in processi di investimento, ossia di allargamento della capacità produttiva. Anche l’occupazione quindi ristagna o addirittura si riduce in quanto, in una situazione di costi del lavoro crescenti, gli unici investimenti che vengono effettuati sono quelli che mirano a risparmiare forza lavoro. D’altra parte, con una produzione stagnante, le imprese cercano di alleggerirsi della forza lavoro in eccesso con il blocco delle assunzioni e non procedendo al rimpiazzo di chi esce dal mercato del lavoro: il problema della disoccupazione tende quindi a scaricarsi sulle nuove leve giovanili.
L’altro fattore dinamico della domanda, le esportazioni, è anch’esso frenato dall’andamento piuttosto statico del commercio internazionale. Per aumentare l’occupazione e per sostenere il livello del reddito resta soltanto la possibilità di aumentare la spesa pubblica. Ma questo implica, in una situazione in cui la stagnazione economica frena la crescita delle entrate tributarie, aumentare il disavanzo del settore pubblico che va ad alimentare, con la nuova liquidità immessa nel sistema, il processo inflazionistico.
4. — Per riprendere un processo di crescita stabile è quindi necessario eliminare i fattori inflazionistici. Nel concreto questo significa oggi in Italia — al di là di possibili fattori internazionali, come l’aumento ulteriore previsto per il prezzo del petrolio, al di fuori del nostro diretto controllo — intervenire sulle dimensioni del disavanzo pubblico e sull’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto (C.L.U.P.).
L’aumento della spesa pubblica è in larga misura imputabile ad una ricerca di consenso da parte dell’operatore pubblico, in una situazione di grave deterioramento della situazione economico-sociale. Data la minore produttività, in generale, del settore pubblico e, comunque, dato che i servizi della pubblica amministrazione non possono essere esportati, l’aumento della quota sul P.I.L. della spesa pubblica tende tra l’altro a rendere più rigida la situazione della bilancia dei pagamenti. Inoltre, la composizione della spesa pubblica si è andata deteriorando, con un aumento della spesa corrente e una riduzione della spesa per investimenti. Occorre quindi da un lato coprire con nuove imposte l’aumento di spesa corrente, in modo che la crescita eventuale dei servizi pubblici, se voluta dalla collettività, venga compensata da una contrazione della spesa per beni privati; d’altro lato, si deve provvedere ad una riqualificazione della spesa, accrescendo la quota destinata ad investimenti.
Il C.L.U.P. dipende dall’andamento dei salari monetari e della produttività. A parità di salari, esso tende a salire durante le fasi di recessione e a diminuire durante le fasi di espansione, almeno fino al limite della capacità produttiva, in quanto le attrezzature disponibili sono utilizzate in misura più adeguata. Per riallineare il C.L.U.P. italiano a quello dei nostri partners all’interno della C.E.E. occorre quindi controllare la crescita dei salari monetari, in linea con la crescita media della produttività, ma anche accelerare lo sviluppo della produttività, attraverso una politica che stimoli il pieno utilizzo della capacità produttiva e rinnovazione tecnologica. In questo modo gli incrementi di produttività non distribuiti a salario possono fornire risorse per gli investimenti destinati a far crescere la capacità produttiva e a riassorbire la disoccupazione.
Su queste due esigenze, di ridurre il disavanzo pubblico e di frenare la crescita del C.L.U.P., concordano apparentemente tutte le forze politiche; ed esse sono state recepite, come linee guida di una politica controllo dell’inflazione, nel Piano triennale.
5. — Le condizioni per stare nello S.M.E. coincidono quindi con gli obiettivi da perseguire comunque per il risanamento dell’economia italiana. Occorre tuttavia sottolineare due differenze di fondo.
In primo luogo lo S.M.E. riconosce all’Italia, durante la fase transitoria che di fatto coincide con il periodo di rientro dall’inflazione, non soltanto una più ampia fascia di oscillazione del cambio intorno alla parità fissata, ma anche importanti trasferimenti di risorse finanziarie e un fondo cospicuo cui attingere crediti per far fronte ad eventuali attacchi speculativi contro la lira. Il vincolo di bilancia dei pagamenti — tenendo conto anche del fatto che, come extrema ratio, è pur sempre possibile una svalutazione della lira, purché concordata — è quindi in realtà meno rigido per l’economia italiana, dopo l’adesione allo S.M.E., di quanto fosse precedentemente, e può consentire misurate politiche di espansione della domanda al fine di riassorbire la disoccupazione.
In secondo luogo, nel quadro italiano, per compensare l’effetto deflattivo delle misure di riduzione del disavanzo pubblico e di contenimento della dinamica di crescita per quanto riguarda la massa salariale, è necessario fare affidamento su una notevole espansione degli investimenti pubblici. Nonostante l’impegno di spesa assunto dallo Stato, appare assai problematico, alla luce dell’esperienza, che questo risultato venga conseguito, data la cronica lentezza di attuazione delle spese per investimento. In questo caso, la manovra del Piano triennale, che viene presentata come un insieme complesso di misure destinate a spostare risorse dai consumi agli investimenti, si risolverebbe in una politica tradizionale di tipo deflazionistico. Lo S.M.E. apre invece una prospettiva diversa. La stabilità monetaria europea costituisce infatti la premessa per un’accelerazione degli scambi intracomunitari e quindi per una espansione delle esportazioni italiane. Nello stesso tempo, la ripresa economica che ne consegue stimola in senso favorevole le attese degli imprenditori e favorisce una crescita degli investimenti privati, sostenuti dalla maggiore accumulazione di risparmio che deriva da un contenimento dell’inflazione. In questo modo, la politica di rientro dall’inflazione non si traduce in una manovra deflazionistica e più dare effettivamente avvio, con un rilancio della produzione, ad un riassorbimento della disoccupazione.
In realtà, il giudizio negativo sugli effetti dello S.M.E. deriva in gran parte dal fatto che si valutano le conseguenze di una maggiore stabilità del tasso di cambio ceteris paribus. Ora è proprio questa clausola che, per definizione, in questo caso non regge. L’avvio del processo per la creazione di un’area di stabilità monetaria modifica alcuni dati della situazione concreta, ma soprattutto incide sulle attese, e quindi sui comportamenti degli operatori economici. Se di queste modificazioni si tiene conto, si può facilmente giungere alla conclusione che lo S.M.E. rappresenta un elemento di sostegno per l’operazione di risanamento dell’economia italiana. Allora, chi non accetta lo S.M.E. in realtà dimostra di non voler conseguire neppure questo obiettivo.
Alberto Majocchi
(marzo 1979)