IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIII, 1981, Numero 1, Pagina 36

 

 

SOLO DUE ANTIMARKETEERS O DUE ANTIEUROPEI?
A PROPOSITO DI DUE VOLUMI DI HOLLAND E DELL’OMODARME
 
 
1. -Come non si scrive la critica del Mercato comune.
Il provincialismo degl’Italiani si manifesta non di rado in forme assai goffe: tipica fra queste un’anglomania talora così sviscerata, che in essa si può trovare la più bella conferma di quanto Giuliano Amato ha scritto nella sua opera più recente (Una Repubblica da riformare, Bologna, Il Mulino, 1980): «la forma peggiore di provincialismo è quella dei cosmopoliti a oltranza». E uno degli esempi meno commendevoli e più sciocchi, anche se non dei più importanti, di tale insulsa moda — attentissima nell’ispirarsi a quelle manifestazioni del pensiero o del costume inglese (o francese, o tedesco, ecc.) che meno meriterebbero di esser notate e imitate — è senza dubbio costituito dalla fama di cui ha goduto e gode un anti-marketeer laburista britannico, Stuart Holland (che sull’anti-europeismo ha costruito le proprie fortune elettorali), i cui fumosi e confusi saggi sulla politica regionale europea sono stati, nel nostro Paese, debitamente tradotti, discussi e imitati (stavo per dire copiati), e hanno perfino ispirato libri che hanno trovato ospitalità e consenso in circoli — per la verità fra i meno provveduti — dell’europeismo, ed hanno ispirato opere che sono state gabellate come genuinamente federaliste. Quando c’è la marca di fabbrica inglese si trangugia tutto: meglio se quello che si trangugia è nebuloso e poco comprensibile.
L’ultimo libro di Holland[1] conferma questo nostro giudizio, rivelandosi per niente originale (e ancor meno spiritoso) fin dal titolo, ripreso pari pari da un volume poco noto di vari anni addietro: che egli, naturalmente, si guarda bene dal citare.[2] Detto libro costituisce infatti — fin nel titolo, come si diceva — una rifrittura delle tesi ostili all’unificazione europea a lungo proprie di tutta, o quasi, la sinistra (ma in Italia progressivamente abbandonate, per fortuna, prima dai socialisti, poi dal partito comunista), e che si riducono a questi tre punti:
1. — Il Mercato comune qual è deve esser condannato perché impresa capitalistica, imperialistica, che favorisce le disuguaglianze, gli squilibri, ecc. Tutte tesi che possono, e anzi debbono esser condivise anche dall’europeista più convinto, a condizione che al posto del Mercato comune si proponga qualcosa di meglio. E perché uno Stato federale europeo — qualitativamente diverso dalle Comunità — non dovrebbe costituir la risposta valida?
2. — Perché — replica Holland — il federalismo è una formula statale debole, superata, che favorisce la conservazione. Anche questo è, almeno in certo senso, vero: chi voglia attuar una tabula rasa (cominciando col «radere» le teste), come hanno fatto la Rivoluzione francese e il Terrore, deve ricorrere a un feroce centralismo. Ma anche qui cosa si propone in cambio? Si propone, se vegnimo a dir el merito — pur senza osar affermarlo in tutte lettere — il mantenimento della divisione, e cioè delle sovranità nazionali: una formula ancor più debole, e ancor più conservatrice. Così ragionava Cecco grullo.
3. — Per mascherare tutto questo si suggerisce vagamente un «nuovo e più giusto internazionalismo»; ma lo si propone solo nella presentazione del libro, sì che per trovar l’enunciazione — ma non la spiegazione — di tale internazionalismo bisogna andarlo a cercare nell’ultima pagina della copertina: avendo ben cura di non definirlo mai, neppur nei termini più generici, giacché allora si scoprirebbe troppo facilmente che quel «nuovo internazionalismo» vuol semplicemente auspicare il ritorno dell’Europa allo statu quo ante, e cioè alla divisione borghese in Stati nazionali, il che, per dei socialisti, progressisti, anti-capitalisti ecc. non costituisce una gran bella figura. È la stessa figura che a suo tempo hanno fatto, macchiandosi della medesima ipocrisia, i vari Mandel, Kanapa, Lenègre ecc.: e cioè tutti i teorici della sinistra o dell’ultra sinistra che hanno scritto libri in cui si spara a zero sul Mercato comune, e nella cui non egregia compagnia lo Holland egregiamente si colloca.
La conferma, davvero non necessaria, di questa sistematica ottusità mentale, si ha quando il nostro autore parla, di sfuggita e distrattamente, del Parlamento europeo. «Una semplice foglia di fico» sul centralismo comunitario, egli lo definisce: e che i poteri del Parlamento europeo abbiano limiti precisi nemmeno lo contesta. Ma, anche qui, che cosa egli propone in cambio? Solo l’eliminazione, sic et simpliciter, di ogni struttura europea (che egli definisce, secondo quanto gli fa comodo, volta a volta come paurosamente centralistica, oppure debole e insufficiente) e quindi anche della foglia di fico. Egli potrebbe insomma mettere a motto del suo libro quello che meno ipocritamente scrive un altro di questi super-intelligenti critici dell’unificazione europea, di provenienza analoga, Claude Bourdet,[3] quando, a chi gli obietta «sei contro l’unità europea cosa proponi al suo posto?», risponde trionfalmente: «Non c’è nulla da mettere al posto del cancro, se non ‘niente cancro’». Tutti gl’immobilisti, i reazionari, i qualunquisti di tutte le epoche hanno sempre ragionato così.
Insomma: un libro da non leggere. Proprio per questo — c’è da scommetterlo — verrà tradotto e commentato con tutti gli onori.
 
2. -Come non si scrive la storia dell’integrazione europea.
Passando dalla Gran Bretagna all’Italia, dall’analisi politica alla storia e da Holland a Dell’Omodarme, la musica non cambia. Siamo anche qui in compagnia di uno di quei molti per i quali Sibona enunciò la celebre dignità secondo cui «fra tutte le nazionalizzazioni volute dai socialisti, la sola riuscita è quella dello stesso socialismo». Ascoltiamo, dunque, anche questa seconda, e altrettanto stonata suonata.
L’Europa non ha bisogno d’istituzioni, ma di contenuti. Deve liberarsi dalla soggezione americana, buttar a mare l’alleanza atlantica, slanciarsi arditamente verso il disarmo e il neutralismo, lasciando perdere i miti di una unificazione sovrannazionale che non ha basi né avvenire. Liberata in tal modo dalla minaccia occidentale che l’ossessiona, l’URSS liberalizzerà a sua volta l’Europa orientale, sì che un ordine mondiale più sano e non rigidamente bipolare avrà così origine. E a chi obiettasse, sprovveduto, i rischi della finlandizzazione, occorre rispondere senza mezzi termini che un tale timore non ha senso, perché un «insieme» come l’Europa non si finlandizza.
Su questa tesi e su questa premessa politica — esposta esplicitamente solo nelle ultime pagine, ma che è alla base di tutto il suo pensiero —Marcello Dell’Omodarme costruisce la sua storia vient de paraître— o piuttosto stroncatura, nel senso papiniano della parola — dell’integrazione europea.[4]
Di essa diremo fra un momento. Prima ci sembra però necessario soffermarci ancora qualche istante su quella tesi di fondo, ammettendo o rifiutando la quale tutto il giudizio storico di Dell’Omodarme stands or falls. Giacché essa ci richiama prepotentemente alla memoria un’antica leggenda, anzi profonda convinzione, vivissima ancora nel secolo scorso presso le classi popolari dei popoli nordici, almeno se si presta fede a quanto racconta Axel Munthe nella sua Storia di San Michele. E cioè la credenza che una ragazza non ha nulla da temere se, nella foresta, incontra l’orso, anche il più gigantesco e spaventoso: giacché il temibile plantigrado attacca solo gli uomini, sì che essa, al suo avvicinarsi minaccioso, non ha se non d’alzar la sottana (sotto questa una volta non c’era altro), provandogli così in modo irrefragabile il suo esser donna: e l’orso, cavallerescamente, girerà largo.
L’ipotesi che l’orso russo possa comportarsi nello stesso modo di fronte alla fanciulla Europa è valida? Ci si può contare? Val la pena, per ammansirlo, di praticar questa strana forma di esibizionismo? C’è davvero da ottener qualcosa, per dirla con la perpetua manzoniana, a «calar le…», come vuole Dell’Omodarme?
La nostra risposta è esplicita. Quella tesi è certo — come dire? — singolare; ma può ancora esser sostenuta con qualche credibilità, se si tiene ferma la premessa su cui si regge («non si finlandizza un insieme come l’Europa occidentale»). Ma se si fa poi di tutto perché quell’insieme sia il meno «insieme» e il più disunito possibile — e così appunto fa e predica Dell’Omodarme — quella tesi non solo non ha nessuna consistenza, ma si riesce a stento ad attribuirle anche un minimo di buona fede. L’Europa degli Stati «sovrani» (tra virgolette), e cioè debole e divisa, posta nella condizione auspicata da Dell’Omodarme, e cioè liberata, in ipotesi, dal Patto atlantico e dalla tutela americana, non solo sarà finlandizzabile, ma non può che esser finlandizzata, e ultra-finlandizzata. Dalla padella nella brace.
E resta ancora da chiedersi, last but not least: se è vero, come Dell’Omodarme sostiene, che l’egemonia e sovranità limitata a cui gli Stati euro-occidentali sono sottoposti è, quantitativamente e qualitativamente, identica a quella che affligge (o, secondo i gusti, delizia) i Paesi euro-orientali, dove troveranno i primi la capacità e la forza, che non banno i secondi, per liberarsi, pur restando disuniti e ciascuno per sé, dalla loro attuale condizione di sudditanza?
Siamo, come si vede — per dirla con Marinetti — nelle pure «parole di libertà».
Il concetto vi dissi: ora ascoltiamo come l’autore svolge il suo sillogismo (o sofisma). E lo svolge, secondo noi, in modo poco originale nei contenuti, ma perfetto, o quasi, nell’esecuzione.
Poco originale nell’impostazione di fondo, giacché Dell’Omodarme non fa se non riassumere le tesi più apertamente nazionalistiche e più contrarie a ogni forma di unità europea — che non sia una vaga Europa delle patrie — già più volte sfornate, in Francia e altrove, da vari autori gollisti, a cominciare da Michel Debré: i quali, com’è noto, si battono non solo contro l’attuale tipo d’integrazione comunitaria (sulle critiche alla quale, comprese le più dure, tutti, anche il più convinto federalista, possono, e anzi devono esser d’accordo); ma anche contro una genuina integrazione federale che sola quei difetti potrebbe davvero correggere. Per loro infatti, la nazione essendo un dato permanente e meta-storico, ogni limitazione alla sovranità nazionale è assurdità e delitto di lesa patria, e rinunzia alla dignità di cittadino e di uomo.
Dietro ai gollisti si sentono però in sottofondo, nel discorso di Dell’Omodarme, quegli autori — ancor meno obiettivi e punto illuminati — pullulanti nella sinistra e nell’estrema sinistra, specie francese, i quali tutti, lo sappiamo già, anche quando a parole lottano contro l’integrazione europea in nome «di un più vero internazionalismo», possono tutti ripetere le già citate parole di Claude Bourdet: «Perché mi chiedete cosa propongo al posto dell’Europa ufficiale? Non c’è nulla da porre al posto del cancro, se non: niente cancro». Una affermazione a cui non c’è se non da contrapporre la massima del salmista: Dixit insipiens in corde suo: non est Deus. La pura negazione, il «no non dialettico» — insegnano anche i sacri testi — è atteggiamento luddistico e obiettivamente reazionario: come anche i comunisti italiani cominciano faticosamente a comprendere (e non solo in tema d’integrazione europea).
Insomma, per dirla tutta: Dell’Omodarme non è lontano nel suo europeismo — ed è tutto dire — da quello che è proprio dei comunisti francesi, e la pensa esattamente come un altro di quegli autori da lui così seguiti e citati, José Fralon, il quale intitolava, qualche anno addietro, un suo volume, ispirato appunto a questo tipo d’«europeismo»: L’Europe c’est fini. Col particolare piccante che il Fralon nostrano è anche un alto funzionario comunitario.
«Se fossi vissuto al tempo di Teodorico, sarei stato dalla parte di Boezio, anche sapendolo condannato alla sconfitta», diceva il Croce. Dell’Omodarme non ha di queste fisime e, da buon Sancho Panza, sta per Teodorico. Nessuno, meno di lui, potrebbe ripetere e far propria la massima, appunto del Croce: «Non chiedetevi dove va il mondo, chiedetevi dove andate voi stessi».
Occorre però subito aggiungere, per doverosa obiettività, che l’esecuzione del lavoro storico di Dell’Omodarme è davvero eccellente; che l’autore dà prova di una diligenza che un maligno definirebbe degna di miglior causa; che molte delle sue demitizzazioni dell’integrazione ufficiale, anche se tutt’altro che nuove, possono e debbono esser pienamente recuperate anche in chiave europeistica, una volta depurate delle esagerazioni più manifeste. Dirò di più: poiché anche molti europeisti — anche se non i più seri né i più illuminati — hanno spesso abboccato, troppo, a quei miti, il libro di Dell’Omodarme è indubbiamente, anche per loro, un ottimo emetico e revulsivo per mostrare che il re è nudo e che in molto, se non in tutto, bisogna ricominciar da zero, o quasi. Almeno in questo tutti abbiamo qualcosa da imparare dal suo libro.[5]
Ma è proprio qui — proprio dove l’obiettività sembra maggiore (o viene presentata come tale) — che cessa il giudizio storico e sottentra la precisa scelta di parte (del resto ammessa francamente da Dell’Omodarme fin dalle prime pagine): giacché là dove lo studio storico non concerne le guerre puniche o l’espansione assiro-babilonese nel Mediterraneo orientale, ma un processo in corso, e ancora lontano dall’esser concluso, proclamarlo fin d’ora archiviato e senz’avvenire significa schierarsi, pur senza dirlo esplicitamente, fra i suoi nemici e per la conservazione stato-nazionale.
In altri termini: è il tono che fa la predica (e fa anche la storia). E la demitizzazione di Dell’Omodarme, per perfetta che la si voglia considerare — per informazione, puntigliosa ricerca dei particolari, stringatezza, acutezza di singoli giudizi — pecca per esser tutta, come i drammi a tesi di una volta, a servizio di quella linea politica che si è visto cominciando e che costituisce l’alfa e l’omega di quest’opera; il che spiega la svalutazione programmatica, anzi il silenzio costante e senza eccezioni (che è, come l’ipocrisia per la Rochefoucauld, l’omaggio che il vizio rende alla virtù) di cui Dell’Omodarme gratifica il pensiero e razione dei federalisti (non è un caso che Einaudi non sia nemmeno menzionato).
Per far solo un esempio: si potrà dir tutto il male che si vuole e deridere come un’illusione — magari, per soprammercato, in malafede — l’azione che gli Spaak, gli Spinelli, il Movimento europeo organizzarono, nel 1952-53, per l’approvazione della Comunità politica. Ma non menzionar nemmeno tutto questo significa far una storia non solo partigiana, ma anche di proposito non obiettiva e lacunosa. Lacuna e mancanza di obiettività che è confermata da questo giudizio di Dell’Omodarme, che costituisce un altro dei leit-motive dell’opera: «I più accesi fautori degli Stati Uniti d’Europa hanno sempre operato per l’Europa degli Stati Uniti».
Ciò è vero per tutti, o quasi, gli europeisti ufficiali e d’ appellation contrôlée ma non è vero per i federalisti; e se Dell’Omodarme riferisce quel giudizio — come fa implicitamente, ma in modo manifesto — anche a loro, o non è informato o non è sincero (e, più probabilmente, l’una e l’altra cosa insieme). Rilegga, anzi per dir meglio legga, oltre a Einaudi, Ernesto Rossi, Ronald Mackay, André Philip, Marc Paillet, Gunter Gillessen, Heinz Kuby — per non parlar dei federalisti canonici e patentati — e si convincerà che ripeter anche per essi quell’affermazione, significa, direbbero in Sicilia, «pisciar fuori dell’orinale».
Ma vi è di più: quell’accusa sprezzante può, a buon diritto, esser ritorta contro i fautori, come Dell’Omodarme, delle velleitarie concezioni piccolo-golliste, che vogliono l’indipendenza europea senza volerne i mezzi e gli strumenti politici: e battendosi contro una vera unità, mantengono, con la divisione, e rendono permanenti (e, a un certo punto, irreversibili) le cause dei mali che a parole condannano.
Non si può andar sulla luna con una mongolfiera: proporre dei contenuti europei (l’indipendenza dall’America) l’equidistanza, il terzomondismo, senza le strutture e le istituzioni necessarie è cader nell’illusione dilettantesca che si possa far una politica e un’azione di governo senza un governo: e che ciò, più in particolare, sia possibile perfino in politica estera (ma la situazione — come spiego meglio in nota — non è in fondo diversa anche in politica economica.[6]
Solo es moral el deseo — diceva Ortega y Gasset — al que acompaña la severa voluntad de aprontar los medios de su ejecución. Ed è anche questo, mi sembra, oltre che un valido giudizio morale, un buon criterio storico. «I vostri non appreser ben quell’arte».
 
Andrea Chiti-Batelli
(marzo 1981)


[1] Stuart Holland, UnCommon Market, Capital, class and power in the European Community, Londra, Macmillan, 1980.
[2] Edward A. McCreary, The americanization of Europe. The impact of Americans and American business on the Uncommon Market, New Garden City, Doubleday, 1964. Tutto quello che Holland sa fare è aggiungere una c maiuscola. Non diversamente una decina d’anni addietro Jean Jacques Servan Schreiber aveva rubato, limitandosi a semplificarlo, il titolo del suo strombazzatissimo volume La sfida americana (Milano, Etas Kompas, 1968) dall’assai meno noto e modesto (ma più serio) saggio di P. Cognard, Le défi scientifique et technologique américain, Centre de recherches européennes dell’Università di Losanna, 1967.
[3] Claude Bourdet, L’Europe truquée, Parigi, Seghers, 1977.
[4] Marcello Dell’Omodarme, Europa. Mito e realtà del processo d’integrazione, Milano, Marzorati, 1981. Anche il titolo di quest’opera è altrettanto poco originale quanto quello dello Holland, giacché anch’esso ricalcato sul titolo di un altro volume, e precisamente di Paolo Brezzi, Realtà e mito dell’Europa, Roma, Studium, 1955. Holland, di suo, metteva solo una c maiuscola, Dell’Omodarme neppure quella.
[5] Meriti, quelli di Dell’Omodarme, che non devono poi rallegrar troppo — notiamolo di passata — giacché se, come apprendiamo dallo stesso autore, la sua opera è stata subito adottata come libro di testo in varie università, a occhi chiusi e prima ancora di esser data alle stampe (segno che anche nelle università l’europeismo non è de mise) essa costituirà — proprio per la serietà e l’impegno con cui è scritta — un efficace stimolo, per le nuove generazioni, ad allontanarsi ancora di più dagl’ideali europeistici e a guardar ad essi con lo scetticismo freddo e ostile, ma soprattutto sterile e inerte — stavo per dir senile — che da queste pagine traspira.
[6] Valga come massima anche in tale campo quanto scrive uno studioso di fiscal federalism, a proposito della spesa pubblica: «I modelli di ottimalità non possono mai essere riferiti alla realtà sociale in modo indipendente dalla sua struttura istituzionale nella quale si formano le scelte collettive» (R.E. Wagner, «Institutional constraints and local community formation», in American Economic Review, maggio 1976).

 

 

 

 

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