Anno XXIV, 1982, Numero 1, Pagina 19
LA LIBERTÀ DELLA POLONIA
E L’INDIPENDENZA DELL’EUROPA
Il governo militare che il 13 dicembre ha preso il potere in Polonia rappresenta una novità assoluta per un paese comunista.
La vittima del colpo di Stato non è infatti soltanto il sindacato indipendente Solidarnosc, ma lo stesso partito comunista (il POUP). L’esercito era ormai l’unica forza capace di colmare il vuoto aperto dalla disgregazione del partito comunista e dalla crescente incapacità di direzione politica del governo. Il ricorso all’esercito mette in luce le dimensioni del discredito che aveva colpito il partito e il governo che ne era l’espressione. Solidarnosc, con i suoi 10 milioni di iscritti, era qualcosa di più di un sindacato. Era diventata l’organizzazione di massa attraverso la quale il popolo polacco sperava di modificare il sistema di direzione politica del paese. Così, per arrestare l’avanzata irresistibile del processo di riforma democratica, è stato necessario l’intervento brutale dell’esercito.
L’esperimento di Solidarnosc era sostenuto dalla grandissima maggioranza del popolo polacco. Ma ciò non è stato sufficiente a farlo vincere. La Polonia è un paese a sovranità limitata. L’esercito polacco non è un centro di potere autonomo. È parte integrante del sistema militare del Patto di Varsavia, che ubbidisce ai comandi di Mosca.
Non sappiamo da chi sia partita l’iniziativa del colpo di Stato in Polonia: se sia nata da una decisione autonoma dei militari o se invece sia stata il risultato delle pressioni di Mosca. Ma ciò che conta è il fatto che l’Unione Sovietica ha approvato il colpo di Stato e ne appoggia gli autori. Di fatto, essa ha ricuperato il pieno controllo della situazione con il vantaggio di non aver dovuto ricorrere, almeno per ora, all’Armata rossa per piegare la Polonia.
Jaruzelski può aver pensato di agire per difendere gli interessi del popolo polacco; in realtà, il risultato della sua azione di forza è stato quello di ristabilire le condizioni della continuità della egemonia sovietica sulla Polonia, che risulta così confermata e consolidata. Bisogna riconoscere però che un intervento militare sovietico avrebbe colpito ben più gravemente le prospettive della distensione in Europa.
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La crisi polacca è stata interpretata come l’espressione più grave e acuta di una crisi più generale che investe il sistema dei paesi socialisti, come l’avvisaglia della crisi dell’impero sovietico.
Dove i partiti comunisti hanno perduto ogni base di consenso nella popolazione (e i partiti fratelli di quello polacco si stanno avvicinando a questa situazione), non c’è altra organizzazione al di fuori dell’esercito che possa prendere nelle proprie mani il potere per garantire la sopravvivenza dello Stato e la fedeltà alle alleanze. Si potrebbe quindi sostenere con Duverger che «il bonapartismo è lo stadio supremo del comunismo». Ma a condizione di sottolineare il fatto che, nella misura in cui si trasformano in dittature militari, gli Stati del «socialismo reale» entrano in contraddizione con i princìpi sui quali si fondano. In effetti, non è più sostenibile l’idea che questi regimi si fondano sul potere della classe operaia e segnano una tappa sulla via dell’emancipazione umana. La morte del regime leninista in Polonia è stata decretata da Solidarnosc. Jaruzelski è stato soltanto un esecutore.
Per questo motivo, a lungo termine, non c’è alternativa alle riforme democratiche. Il successo del colpo di Stato in Polonia non è certo in grado di spegnere l’immensa speranza che si è accesa a Varsavia: che sia cioè possibile fare evolvere i paesi del «socialismo reale» verso la democrazia. Non si può piegare indefinitamente l’Europa orientale con la forza. Di conseguenza, l’esempio polacco rappresenterà un punto di riferimento permanente per i gruppi riformatori che si battono per la libertà nei paesi socialisti, compresa l’Unione Sovietica.
Certo, l’esperienza rivoluzionaria che ha avuto origine con la rivoluzione russa, della quale il sistema dei paesi socialisti è l’erede, ha subìto una profonda degenerazione. La storia dei regimi di «socialismo reale» ha dimostrato, ormai senza possibilità di contraddizione, che la presa del potere da parte dei partiti comunisti e la statalizzazione dei mezzi di produzione ha generato un’involuzione burocratica e autoritaria dello Stato e una separazione così radicale tra il partito-Stato e la classe operaia, che la Polonia, dove i lavoratori avevano ottenuto il diritto di organizzarsi in sindacato autonomo e di scioperare, è diventata il teatro della contrapposizione e dello scontro tra la classe operaia e il partito che si autodefinisce come partito della classe operaia.
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Gli avvenimenti polacchi aprono dunque una nuova fase della crisi del sistema di potere guidato dall’Unione Sovietica e pongono interrogativi drammatici sul modo di affrontarla.
La stabilità del blocco comunista nel quadro politico internazionale bipolare si regge su due condizioni: la fedeltà di tutti i paesi del blocco al Patto di Varsavia e l’omogeneità del regime di ogni paese del blocco, modellato su quello dell’Unione Sovietica e fondato sulla dittatura del partito comunista.
Nell’epoca della guerra fredda in Polonia, così come negli altri paesi socialisti, pur essendo stato soffocato qualsiasi fermento democratico, si crearono condizioni per un certo sviluppo economico e sociale, che ha strappato da una situazione di spaventosa arretratezza la maggior parte delle società dell’Europa orientale, con l’eccezione della Cecoslovacchia, che aveva sviluppato il processo di industrializzazione e sperimentato con successo le istituzioni democratiche già prima della seconda guerra mondiale.
Dopo la morte di Stalin e il XX Congresso del PCUS e con lo sviluppo della distensione e del multipolarismo, la spinta verso l’autonomia nazionale dei paesi satelliti dell’URSS e la tendenza al rinnovamento dell’organizzazione economica e politica si affermarono dovunque nel campo socialista. Il che mostra che non si tratta di una realtà completamente immobile. Alcuni cambiamenti sono stati giudicati dalla potenza egemonica compatibili con la stabilità del sistema (come un certo grado di indipendenza nazionale in Romania o le riforme economiche in Ungheria), mentre invece la trasformazione del modello costituzionale in senso democratico (tentato in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968) è stata stroncata con la forza.
L’interesse del processo riformatore iniziato in Polonia consiste nel fatto che esso ha rappresentato il tentativo di avviare una transizione graduale al socialismo democratico senza mettere in discussione il sistema di potere interno e internazionale, fondato sull’egemonia dei partiti comunisti nei singoli paesi e dell’Unione Sovietica sull’insieme dei paesi socialisti. Il gradualismo è dunque l’elemento che distingue l’esperimento polacco da quello ungherese e cecoslovacco.
Il sindacato indipendente Solidarnosc mirava a controllare il potere, non a rovesciare il regime. Ma perché questo sistema potesse funzionare era necessario che il partito restasse forte, in modo da gestire il compromesso con le due grandi forze sociali emerse nella nuova società politica: Solidarnosc e la Chiesa. Proprio questa condizione è venuta a mancare con le conseguenze che abbiamo visto.
È chiaro che il processo riformatore iniziatosi in Polonia non potrà giungere al suo compimento senza la distruzione del sistema di potere imposto e diretto da Mosca dopo la seconda guerra mondiale. Il che richiede che si dia al popolo non solo la libertà civile, ma anche la libertà politica, cioè il potere di scegliere tra più alternative politiche i propri dirigenti e gli indirizzi di fondo della politica del governo. E, d’altra parte, questa libertà del popolo rimarrà nominale senza il potere di decidere in modo autonomo, cioè senza l’indipendenza da Mosca. Il che richiede il superamento dei blocchi e lo scioglimento tanto del Patto atlantico quanto del Patto di Varsavia.
Ma è anche vero che occorre individuare e mettere in moto un meccanismo che consenta di raggiungere progressivamente quegli obiettivi.
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Dal punto di vista sociale non esistono ostacoli alle riforme democratiche. Esse sono sostenute dalla grandissima maggioranza della popolazione. Ma c’è di più. Superata la fase dell’industrializzazione rapida e forzata, la struttura monolitica del potere rappresenta ormai un ostacolo allo sviluppo economico, al progresso sociale e a qualsiasi evoluzione delle forze del lavoro e della cultura. Gli ostacoli risiedono nell’assetto internazionale del potere. In ultima istanza, alla base del colpo di Stato in Polonia c’è la divisione dell’Europa in blocchi e l’appartenenza della Polonia al Patto di Varsavia. Nella situazione attuale, con una Comunità europea impotente, senza un governo e non ancora unita sul piano della moneta, della politica estera e della difesa e quindi dipendente dagli Stati Uniti, l’Unione Sovietica non può tollerare che nessuno Stato del blocco comunista si allontani in modo sostanziale dal modello monolitico del «socialismo reale». Un’evoluzione di questo genere potrebbe infatti contagiare gli altri paesi del blocco e la stessa Unione Sovietica, indebolendo la coesione del Patto di Varsavia e rafforzando, di conseguenza, gli Stati Uniti.
Il punto decisivo sul quale bisogna agire per liberare i paesi dell’Europa orientale dall’egemonia sovietica è il rafforzamento dell’unità e dell’indipendenza dell’Europa occidentale. I processi di unificazione europea e di costruzione di un socialismo democratico e pluralistico nell’Europa orientale sono infatti espressioni di una stessa tendenza: la formazione di un ordine politico mondiale multipolare. Esiste quindi una convergenza di interessi tra le forze che tanto a Ovest quanto a Est si battono per l’indipendenza dalle grandi potenze e contro l’ordine bipolare.
Se la Comunità europea vuole operare per l’indipendenza dell’Europa orientale e per il superamento dei blocchi, deve tenere costantemente aperta la porta del negoziato con l’Unione Sovietica e sviluppare la cooperazione economica con l’Europa orientale. Deve puntare cioè sugli elementi che possono far evolvere la situazione verso lo sviluppo del multipolarismo ed evitare soluzioni di carattere militare. Ma lo sforzo di tenere aperta la porta al negoziato non può produrre nessun risultato politico se non si traduce in un tentativo di condizionare in misura crescente la politica estera delle superpotenze. Se è soltanto una accettazione passiva del fatto compiuto (come sembra essere l’atteggiamento del governo tedesco occidentale sulla crisi polacca), è una politica di appeasement, che incoraggia la prepotenza dei più forti.
D’altra parte, le sanzioni economiche decise da Washington, che rappresentano un tentativo di sfruttare i fatti di Polonia per indebolire l’Unione Sovietica, hanno l’effetto di aggravare la tensione internazionale e possono portarla a pericolosi punti di rottura, specie se si pensa alla crisi del «socialismo reale», rivelata dalla Polonia.
Ora, la Comunità europea ha svolto un’importante ruolo internazionale per la ripresa del dialogo tra le superpotenze. Ma la sua influenza internazionale, che indubbiamente ha favorito l’avvio delle riforme in Polonia, perché, nella misura in cui ha sviluppato una politica non allineata con le posizioni di Washington, ha permesso di allentare la pressione di Mosca sui suoi satelliti, non è stata però sufficiente a garantire le condizioni internazionali necessarie a portarle a uno sbocco positivo.
La distensione ha dunque favorito lo sviluppo delle riforme democratiche in Polonia, ma ha creato una crisi che si è conclusa con la restaurazione dell’ordine precedente. Non è la prima volta che ciò accade tanto a Est (invasione dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, ecc.), quanto a Ovest (colpi di Stato militari in Grecia, in Cile, ecc.).
Il fatto è che il multipolarismo non si è ancora sviluppato abbastanza da scongiurare le prove di forza delle superpotenze. Non è quindi possibile l’affermazione della libertà in Polonia senza l’indipendenza della Comunità europea. E va sottolineato che la risposta che il Piano Genscher cerca di dare al problema dell’indipendenza dell’Europa è del tutto inadeguata. Esso è l’espressione dell’incapacità dei governi europei di risolvere i propri problemi, di contribuire alla soluzione dei grandi problemi del mondo e di superare il metodo della cooperazione politica per tendere risolutamente verso l’unità.
Bisogna dunque portare a compimento l’unificazione europea, dotando la Comunità di un governo, che le permetta di parlare con una sola voce, di una moneta, di una politica estera e di una difesa, per superare l’egemonia degli Stati Uniti in questi settori, avviando così il processo di superamento dei blocchi. Il Parlamento europeo, con la decisione di avviare la riforma istituzionale della Comunità, ha preso l’iniziativa necessaria a giungere a un rafforzamento dell’Europa occidentale. Spetta ora ai partiti sostenere il ruolo costituente del Parlamento europeo fino all’approvazione del progetto di riforma in seno ai Parlamenti nazionali.
Luci Levi
(gennaio 1982)