Anno I, 1959, Numero 1, Pagina 39
MORANDI, LOMBARDI, BASSO E L’ITALIA
Nel 1943 Rodolfo Morandi lesse il Manifesto di Ventotene ed altri scritti federalisti di Altiero Spinelli, ed ebbe con lui a questo proposito uno scambio di lettere. In tali scritti Spinelli aveva analizzato la crisi dei rapporti europei scoppiata con la prima guerra mondiale, e sfociata nella seconda. Come è noto egli aveva riferito la crisi allo status di anarchia internazionale che soppiantò nel nostro secolo il vecchio equilibrio europeo. Nell’indagare le cause di questa anarchia, egli mise in luce il carattere dello Stato nazionale contemporaneo, che ha mantenuto la vecchia sovranità assoluta, ma l’ha estesa a quasi tutti i rapporti economici e sociali trasformando le divergenze di interessi economici e sociali in conflitti interstatali ed internazionali. Mostrata la causa del deterioramento dei rapporti internazionali ed indicata l’alternativa federalista, Spinelli, per aprire la discussione con i socialisti, aveva scritto che il marxismo non poteva affrontare questa crisi se non prendeva in esame, accanto ai comportamenti sociali, anche il comportamento nazionale, che sostiene lo Stato nazionale e non può essere considerato come un semplice riflesso dei dati sociali perché è ormai comune tanto alle destre quanto alle sinistre, tanto ai capitalisti quanto ai proletari.
Ma Morandi, tranquillo nell’idea dello Stato come «soprastruttura», non capì nulla. Spinelli aveva cercato di fargli capire che, senza un ripensamento degli schemi marxisti tradizionali, si sarebbe avuto un «ennesimo fallimento del movimento socialista».[1] Ma Morandi si limitò ad opporre a questa previsione la sua affermazione di fede «sono più che mai classista», «sono più che mai collettivista». Nella sua risposta non c’è nessuna considerazione sui rapporti internazionali, e c’è la solita mania di ridurre qualsiasi questione a quella dello Stato socialista o dello Stato liberale, mania che non tiene conto del fatto che uno Stato può avere problemi liberali e problemi socialisti, ma ne ha sempre molti altri, dai quali dipende spesso l’assetto relativamente liberale, o relativamente socialista. Cosa impensabile per Morandi, che pensava i problemi dello Stato contemporaneo in questi termini: «Non sono niente affatto disposto a concederti che collettivismo significhi statalismo e burocratizzazione, perché coll’economia collettiva usciamo proprio dalla fase dello Stato chiuso e andiamo verso una nuova struttura della vita civile… verso forme federate, e perché la burocrazia, lungi dal soddisfare le esigenze di una economia collettiva, è piuttosto la forma caratteristica di organizzazione dello Stato liberale».[2]
Naturalmente i fatti «concessero» a Spinelli ciò che Morandi non voleva concedergli. La Russia, per far funzionare la sua economia collettivistica, mantenne e sviluppò la sua oppressiva macchina burocratica conservando la forma di «Stato chiuso», e invece di realizzare «forme federate» con gli Stati che cascarono sotto la sua influenza, li sottopose ad un trattamento imperialistico brutale ed allo sfruttamento economico. I socialisti italiani, dal canto loro, subirono effettivamente un «ennesimo fallimento», e persero la grande occasione del dopoguerra.
Può avere un certo interesse riprendere oggi, al lume di queste polemiche di quindici anni fa, l’esame delle posizioni dei socialisti italiani. Molta acqua è passata sotto i ponti, e molte illusioni sono cadute. Nessun socialista, salvo Vecchietti ed i suoi amici, conserva ormai le illusioni collettivistiche allo stato brado. Tuttavia nessuno fra loro ha idee più chiare di quelle di Morandi sullo Stato contemporaneo e sui rapporti internazionali, e perciò essi ignorano il carattere del «campo» nel quale svolgono la loro azione politica. Per questa ignoranza essi sono ancora fermi di fronte all’ostacolo che li travolse nel 1914. Nel 1914 la «patria», vale a dire l’«Italia» per gli italiani, la «Germania» per i tedeschi e così via, si impose ai socialisti come il valore supremo. La discriminante «italiano» o «tedesco» scavalcò perciò le discriminanti «capitalista» e «proletario», piegando i socialisti alla ragion di Stato delle singole nazioni che fu pudicamente chiamata «socialismo in un paese», ed è oggi chiamata, altrettanto pudicamente, «via nazionale del socialismo». Ciò avvenne esplicitamente in Francia ed in Germania; con minore chiarezza, ma con gli stessi risultati, in Italia.
Questo stato mentale (e la correlativa obbedienza ai valori nazionali come supremi) riguarda Lombardi, cioè colui che formula con minore oscurità la linea politica della «alternativa democratica». Questa alternativa non dovrebbe essere né «frontista» né «centrista», e Lombardi dice e non dice che per realizzarsi questa alternativa dovrebbe : a) trasferire quasi completamente i voti comunisti al P.S.I., b) spezzare in due la democrazia cristiana. In ogni altro caso infatti non si può dare un governo socialista che possa andare al governo da solo, o con i rimasugli di sinistra della democrazia cristiana ed i piccoli gruppi radicale e repubblicano (metà più uno, o quasi, dei voti del paese). Questa eventualità mette dunque in causa l’intero sistema politico italiano, in una parola l’Italia e la sua posizione del mondo; e richiede, per uscire dalle nebbie dei sogni, che siano discusse le possibilità del campo d’azione Italia di tollerare, e di portare ad una pacifica soluzione socialista, un tale terremoto. Ma i socialisti non mettono in discussione l’Italia: anche per essi l’Italia è un tabù.
La stessa critica va rivolta a Basso, cioè a colui che ha pur capito che la «alternativa democratica» non comporta soltanto il rovesciamento dell’attuale equilibrio italiano, ma addirittura quello dell’equilibrio permanente sul quale si è sempre retto lo Stato italiano. In questo Stato «non è mai esistita una reale alternativa al Governo dei ceti privilegiati». Basso, sviluppando temi analoghi ai nostri (si legga ad esempio su «Tempo Presente» del gennaio del 1958 l’analisi del partito democristiano fatta da Giulio Guderzo), ha identificato sotto questo aspetto la democrazia cristiana con tutte le combinazioni di governo che ebbe l’Italia: «Con la destra storica o con la sinistra di Depretis, con Crispi o con Giolitti, con il fascismo come con la D.C., sono cambiati profondamente i metodi di governo, ma non è mai mutato questo fondamentale indirizzo politico: si è sempre avuto, sostanzialmente, un partito unico di governo, risultante da una coalizione di privilegiati, talvolta più ristretta, talaltra più larga, che non ha mai ammesso la possibilità di una reale alternativa».[3]
L’Italia aveva certamente maggiori possibilità di manovra all’esterno sinché non si impose a tutto il mondo la forza prevalente degli U.S.A. e dell’U.R.S.S., ed altrettanto certamente maggiori possibilità di sviluppo all’interno quando la base tecnica della progresso della produzione non comportava, come comporta ora, dimensioni continentali. Eppure Basso che costata che allora non c’era una alternativa al «partito unico di governo», la vorrebbe ora, e non si chiede se le reiterate sconfitte del socialismo italiano nell’ultimo cinquantennio non siano dovute al fatto che esso si batte in un campo — l’Italia, cioè l’equilibrio politico e sociale italiano — permanentemente favorevole alla conservazione e permanentemente sfavorevole al movimento. Per rispondere a questa domanda Basso dovrebbe discutere non soltanto i partiti italiani ma l’Italia stessa, e questa «audacia» gli manca.
Questa situazione dura dal 1914 e continuerà sino a quando i socialisti non si sveglieranno dal sonno dogmatico nazionale. Il fatto che gli uomini nati nel territorio italiano debbano organizzare tutta la loro vita politica ed economica entro tale quadro — questo infine è il significato politico attuale della parola «Italia» — non viene inteso, nemmeno dai socialisti, come una fase transitoria del processo storico, ma diventa l’unica cosa da considerare eterna nel perpetuo moto del nostro mondo. I socialisti non si avvedono che in tal modo, invece di promuovere l’emancipazione del proletariato, servono al pari degli altri partiti il feticcio mentale più stupido del nostro tempo: l’idea che lo Stato nazionale sia un Dio in terra.
Mario Albertini
[1] Altiero Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1951.
[3] Bisognerebbe aggiungere che tali gruppi privilegiati compresero sempre tanto elementi padronali quanto elementi proletari, fatto che smentisce l’idea che la discriminante decisiva sia stata quella di «classe». Per i passi di Basso vedi sull’Avanti la sua relazione al Congresso di Napoli.