Anno I, 1959, Numero 2, Pagina 76
ADENAUER E IL FUTURO TEDESCO
Molti hanno giudicato scandaloso il modo tenuto da Adenauer nel conservare il potere, e l’hanno condannato come autoritario ed antidemocratico. A nostro parere non è questo l’aspetto inquietante della soluzione del contrasto Adenauer-Erhard. Dove c’è politica ci sono uomini politici, e gli uomini politici sono, in qualunque regime, quelli che desiderano acquistare e mantenere il potere. Da questo punto di vista Adenauer non si differenzia affatto da un Roosevelt. A nostro parere l’aspetto inquietante del fatto sta invece nei motivi che hanno indotto Adenauer a riprendere un potere che aveva già ceduto, e nell’uso che egli può farne nel poco tempo che gli resta. Per esaminare l’una e l’altra cosa dovremo prendere le mosse da lontano.
Pochi tengono conto del fatto che la Germania occidentale ha ricostruito la sua situazione statale, economica e sociale sulla base di una forza non tedesca. Chi esalta il «miracolo tedesco», lo riduce ai soli aspetti economici, e lo spiega soltanto con la «economia sociale di mercato» di Erhard si inganna, e dimentica l’essenziale. Il «miracolo» non è soltanto economico. La parola ha avuto fortuna perché è apparsa «miracolosa» l’inversione completa della tendenza dei comportamenti tedeschi, in primo luogo di quelli politici. All’instabilità politica del primo dopoguerra tedesco si è contrapposta la stabilità di questo dopoguerra; e gli occidentali, liberati da un incubo, hanno gridato al miracolo. Tuttavia la stabilità di una politica non sta nell’ideazione e nell’esecuzione di un programma di governo, ma nelle basi di potere che danno la possibilità di eseguirlo, e talvolta lo rendono addirittura necessario. Se si tiene conto di questo aspetto più profondo della vita degli Stati, si comprende facilmente che la stabilità tedesca ha avuto basi non tedesche.
In realtà la repubblica federale, le scelte fondamentali per avviare la politica tedesca, le relazioni politiche ed economiche internazionali per svilupparla e i limiti entro i quali è stato mantenuto il liberismo economico[1] non sono derivati da nessuna profonda corrente politica tedesca, ma dal modo radicale con il quale la Germania è stata sconfitta, dalla politica postbellica americana e dal controllo di Adenauer, l’uomo che capì quali forze internazionali si potevano usare e che cosa si doveva fare per ridare una vita decorosa ai tedeschi. Ciò equivale a dire che la politica tedesca è dipesa dalla forza politica americana, dal vuoto politico tedesco e dall’interprete tedesco della forza[2] americana e del vuoto tedesco, Adenauer, che Schumacher combatté chiamandolo «agente degli americani». Naturalmente, questa situazione rende problematico il futuro tedesco, ed attuale l’interrogativo sulla possibilità della Germania di trovare entro il suo quadro una stabile base politica.
Orbene Adenauer, accettando la candidatura presidenziale dovette costatare che non poteva controllare la successione al governo, né controllare il governo dalla Presidenza della Repubblica, e vide invece che si era sviluppata una base tedesca per la politica di Erhard. Che cosa è, o meglio che cosa sarebbe, la Germania di Erhard? Si tratta in sostanza di una Germania che ha messo in primo piano gli aspetti economici, e pertanto vede, della complessità della politica, solo ciò che si può vedere da un punto di vista economico. Questo punto di vista mette in luce ciò che v’è di forte in Germania, e tiene in ombra ciò che vi è di debole. Per tale ragione questa Germania si sente forte, e non riesce a tener conto dei fattori internazionali e del quadro internazionale ai quali deve la stabilità di oggi.
Questa Germania accetta, e teorizza con Erhard, il controllo nazionale del mercato tedesco, ma non accetta che a malincuore il controllo europeo persino nella sua attuale modestissima realizzazione (C.E.C.A., Euratom, M.E.C.) e tenta, con Erhard, di distruggerlo. Vuole sviluppare senza intralci le sue possibilità economiche nel quadro mondiale e, per l’unilateralità di una visione politica fondata solo sugli aspetti economici, pensa che il liberismo internazionale sia la politica adatta a tale sviluppo.[3] Evidentemente, per perseguire questa politica che ha come punto di appoggio il potere tedesco e come spazio il mondo, bisognerebbe far rinascere un sentimento di fiducia esclusiva dei tedeschi in se stessi, e dar qualche corpo al fantasma di un mondo ideale nel quale sia possibile il mantenimento di relazioni economiche non distorte da alcuna esigenza di potenza o di sicurezza. Il «nazionalismo buono», con la sua idilliaca concezione dell’umanità come famiglia di nazioni nella quale il più forte è soltanto il più buono, è l’unica ideologia che può fornire questa coscienza. Questa nuova direzione nazionalistica dovrebbe rafforzare il punto di appoggio tedesco, e cercare di tenere aperti i canali tedeschi con tutto il mondo.[4] La meta della politica tedesca diverrebbe perciò la riunificazione, e gradualmente l’intero sistema delle relazioni internazionali della Germania sarebbe subordinato a questo criterio ed a questo obiettivo. Tuttavia questa politica non comporterebbe la distensione con la Russia fatta d’amore e d’accordo da tutti gli Stati europei, come molti credono con la stessa cecità con la quale durante la guerra pensavano al piano Morgenthau di distruzione della Germania, ma significherebbe la Germania sola tra l’America e la Russia. In tale situazione, la Germania dovrebbe di nuovo affrontare compiti politici tremendi, e non potrebbe certo limitarsi a fare il buon mercante di un mondo tranquillo. A quel punto il nazionalismo sarebbe la forza prevalente, ma il «nazionalismo buono» non basterebbe più. Il mondo si accorgerebbe che Erhard non è un mago, ma un apprendista stregone.
Adenauer, che ha dovuto sempre frenare l’ingenuo liberismo di Erhard, e che non si fa illusioni sul futuro di una Germania nazionale,[5] ha certamente intravisto questo possibile futuro tedesco. Il suo contrasto con Erhard fu in realtà quello tra la Germania che conosciamo, ed una nuova Germania; non c’è dunque da stupirsi se egli ha preferito restare al governo sia pure in un modo che poteva essere interpretato, da osservatori superficiali, come esclusivamente dettato da personale ambizione di potere. Tuttavia bisogna chiedersi che uso può fare Adenauer del potere nel poco tempo che gli resta. La risposta a questa domanda è contenuta nelle vicende stesse che lo hanno costretto a restare al governo. Egli ha preso questa decisione, resa ardua dal fatto che veniva dopo l’accettazione della candidatura presidenziale, perché ha constatato, come abbiamo detto, che non c’era né un successore né una base per continuare la sua politica. Egli potrà dunque ormai usare il governo come un freno, non come uno stimolo, mentre il nuovo incalza. La cosa è significativa. Adenauer è stato giudicato sia da chi lo ha sostenuto sia da chi lo ha combattuto un uomo di Stato eccezionale. La maggioranza dei tedeschi lo ha seguito per molto tempo con una fiducia pari a quella goduta da ben pochi governanti. Eppure egli non lascia una eredità politica.
Il carattere politico di Adenauer spiega questa stranezza. Egli è un grande uomo di governo, non un fondatore di nuove correnti politiche. Per questa ragione ha buona coscienza dei fini e scarsa coscienza dei mezzi, è capace di cavar fuori da un equilibrio di forze esistenti (mezzi) la direzione (fini) più saggia possibile, ma non sa preparare equilibri nuovi, che nascono sempre lontano dal governo. Consapevole dei fini, ha scelto l’unità europea e non la ricostruzione nazionale tedesca ma, unilaterale quanto ai mezzi, si è limitato a governare e non si è posto il problema dei mezzi adatti al fine. In sostanza egli ha trovato un potere tedesco, e lo ha usato senza rendersi conto che egli finiva col subordinare i suoi fini alla tendenza evolutiva di questo potere. Così Adenauer è stato praticamente federalista quando la congiuntura poteva portare agli Stati Uniti d’Europa (C.E.D., C.E.P.), «funzionalista» quando le immediate possibilità «sovrannazionali» cascarono (M.E.C., Euratom), ed è ora per l’intesa franco-tedesca a qualunque costo col nazionalista De Gaulle perché non esistono altre possibilità immediate. E’ vero che questa sequenza di fatti presenta una forte coerenza se il fine dell’unità europea viene considerato dal solo punto di vista delle immediate possibilità di governo (un contrasto franco-tedesco impedirebbe qualunque politica di unità europea); ma è anche vero che una intesa franco-tedesca basata sul nazionalismo (insolvente) francese e su una situazione di potere tedesca che si sta sgretolando non ha né futuro, né possibilità di darci, presto o tardi, l’unità federale dell’Europa.
L’uso che Adenauer può fare del potere è ormai chiuso da queste contraddizioni. Europeista convinto, egli ha di fatto ricostruito lo Stato nazionale tedesco, ed ha perciò sprigionato una forza nazionale tedesca che lo sente ormai come un ostacolo da travolgere per sottrarre la Germania al controllo europeo e per darle piena libertà di manovra; mentre ha nel contempo spento la corrente europeo-tedesca degli anni 1948-54 perché si è identificato con l’europeismo, ma lo ha lasciato degradare sino al livello più basso, sino a legarlo alla posizione nazionaliste di De Gaulle, all’«Europa delle Patrie». Adenauer rappresenta ormai il prolungamento ostinato di tendenze battute e superate, e non potrà né ottenere risultati positivi, né durare a lungo.
Mario Albertini
[1] I fatti sono noti. Vorremmo solo ricordare che lo stesso Erhard, nel suo Benessere per tutti (traduzione italiana, Garzanti, Milano, 1957), parla della lotta sostenuta nel 1948 per porre le basi dell’economia di mercato, asserisce che «il vasto pubblico non ebbe mai piena coscienza del retroscena» di questi fatti, e continua «per mia fortuna il generale Clay, la personalità certamente più autorevole dell’Alta Commissione, mi sostenne e avallò le mie ordinanze». Le sottolineature, che mettono in evidenza il carattere americano e non tedesco della lotta sostenutà per affermare il liberismo, sono dello stesso Erhard. In sostanza Erhard, per imporre il liberismo tedesco, dovette guadagnarsi il consenso americano piuttosto che quello tedesco.
[2] Carlo Schmid disse che i poteri tedeschi dei vincitori occidentali non si fondavano sulla capitolazione senza condizioni, ma sul tacito riconoscimento del popolo in seguito alla disfatta del 1945 (Erhard condivide questa interpretazione: cfr. Ludwig Erhard, La Germania ritorna sul mercato mondiale, traduzione italiana, Garzanti, Milano, 1954, p. 48). Di ogni cosa si può dire ciò che si vuole, quindi si può anche dire che i poteri tedeschi dei vincitori occidentali derivavano dal consenso tedesco. Resta tuttavia il fatto che i tedeschi riconobbero che altri (in particolare gli americani) dovevano prendere in mano il loro destino. Si tratta dunque di un «vuoto» tedesco, quali che siano le interpretazioni nazionalistiche del fatto.
[3] Il liberismo è ormai una ideologia, e non più uno schema concettuale descrittivo della attuale realtà capitalistica che, come tutti sanno, non è affatto composta dai tanti venditori e dai tanti compratori che farebbero del prezzo l’arbitro del mercato. Erhard, come tutti i sostenitori dell’intervento-conforme, ha compreso parzialmente la situazione, e pertanto teorizza l’intervento del governo nazionale per realizzare e mantenere il mercato liberistico nazionale. Ma si illude (o vuole illudersi) che sia possibile avere un mercato liberistico internazionale (ad un livello dove non esiste un governo) senza porsi la questione del controllo politico capace di realizzarlo e di mantenerlo. Come è noto Lionel Robbins, nel suo Le cause economiche della guerra (cfr. anche Economic Planning and International Order), ha giustamente definito utopistica questa posizione riferendola ai manchesteriani. Naturalmente questa posizione, quando viene presa oggi da un dottrinario dell’intervento conforme a livello nazionale, non è più nemmeno una utopia, ma semplicemente o una stupida contraddizione, o un palese imbroglio.
[4] Già nel 1954 Erhard scriveva (cfr. il citato La Germania ritorna sul mercato mondiale, p. 239): «L’attuale situazione del nostro commercio con il blocco orientale è uno degli elementi determinanti del perturbamento strutturale degli scambi della Germania con l’estero. Noi crediamo che, nonostante le tendenze autarchiche dell’Oriente europeo, gli scambi con quei paesi costituiscano ancora una riserva che può essere utilizzata con sostanziale vantaggio per la stabilità della nostra bilancia dei pagamenti e per l’espansione del volume delle esportazioni tedesche».
[5] Adenauer non ha pensato l’unità europea come una collaborazione di Stati, un diversivo, un falso scopo o un ideale lontano, ma come un mezzo politico attuale per evitare la rinascita del nazionalismo tedesco. Per questa ragione sostenne a fondo la C.E.D., che avrebbe eliminato per sempre dalla scena politica l’esercito nazionale tedesco; ed accettò a malincuore la U.E.O., che fu soltanto una manovra diplomatica e propagandistica per ricostruirlo. In conversazioni private (a Londra mentre si preparava l’U.E.O) con Spaak ed altri statisti egli disse francamente di temere il ritorno della sovranità militare tedesca, fonte tradizionale di nazionalismo e di militarismo. Queste affermazioni furono raccolte e pubblicate, a sua insaputa, da un giornalista di «Der Spiegel». In seguito egli le confermò.