Anno II, 1960, Numero 4, Pagina 219
IL FALLIMENTO DELL’INCONTRO AL VERTICE
Dopo Camp David molti sperarono in un successo dell’incontro al vertice. Il viaggio di Kruscev in America aveva in realtà dimostrato che la posizione della coesistenza pacifica aveva preso il sopravvento su quella della guerra fredda in Russia ed in America; ed aveva dimostrato inoltre che Kruscev ed Eisenhower contavano di poter controllare la nuova situazione politica che la distensione avrebbe creato sia nei loro paesi che nelle rispettive zone di influenza. Senza questa sicurezza e questa fiducia né Kruscev sarebbe andato in America, né Eisenhower l’avrebbe ricevuto, perché ciò comportò una mezza rivoluzione psicologica. Il viaggio presentò infatti agli americani il massimo rappresentante del comunismo come un uomo più amante della pace che della rivoluzione mondiale, e fece circolare in Russia, con l’avallo dello stesso Kruscev, l’immagine del capo della massima potenza capitalistica come quella di un buon diavolo, desideroso soprattutto di mantenere la pace. Una specie di mondo alla rovescia. Kruscev osò imporre queste idee che favorivano senz’altro la coesistenza pacifica, ed ostacolavano invece i sostenitori della guerra fredda, cui veniva a mancare la giustificazione della loro intransigenza. Ma l’incontro è fallito. Evidentemente qualche anello della politica della distensione è saltato. Si tratta di vedere quale.
Per individuarlo bisogna esaminare ciò che è accaduto nel periodo di tempo intercorso tra Camp David e le burrascose giornate di Parigi, cioè nel periodo nel quale la politica della distensione è rimasta bene in vista sulla scena politica, ed ha spinto tutti coloro che volevano sostenerla od osteggiarla a muoversi. Ciò che è accaduto nel blocco orientale nelle sue grandi linee è noto. Sappiamo che la Cina si oppose alla politica della distensione e rispolverò a questo scopo la vecchia tesi sulla inevitabilità della guerra tra il capitalismo ed il comunismo. I satelliti europei della Russia restarono invece calmi, e seguirono fedelmente la politica di Kruscev. Il diverso atteggiamento della Cina e dei satelliti europei è comprensibile. Senza considerare la questione di Formosa e quella dell’ammissione all’O.N.U., basta tener presente che il gruppo dirigente cinese può imporre i sacrifici necessari per progredire nell’industrializzazione forzata del paese con il ritmo attuale solo con una fortissima concentrazione del potere politico, ed ha perciò bisogno di far paura ai cinesi in tutti i modi, e quindi, anche con la minaccia del nemico esterno, con lo spauracchio del mondo «capitalista» in funzione di spaventapasseri. I dirigenti degli Stati satelliti dell’Est europeo traggono invece giovamento dalla coesistenza pacifica, che permette loro per ora di stare al potere senza fare troppo paura ai loro sudditi, i quali non possono che essere soddisfatti se ci si allontana definitivamente dallo squallore e dagli incubi dello stalinismo.
Anche ciò che è accaduto nel blocco occidentale è noto. Mentre la Gran Bretagna, la cui posizione internazionale aveva preso risalto con le iniziative di Mac Millan, premeva fortemente perché il processo distensivo avanzasse senza intoppi ed era disposta a seri compromessi con la Russia; e mentre l’Italia ed i paesi minori si limitarono ad attendere gli eventi o a parlarne senza preoccupare nessuno, la Francia e la Germania reagirono negativamente, ricattarono gli americani, e resero così difficile uno schieramento unitario degli occidentali che fu poi ottenuto, come sempre in quei carrozzoni che sono le alleanze fra Stati sovrani, sulle posizioni dei più restii.
La Francia è costretta alla grandeur dalla necessità di puntellare in qualche modo il suo debole potere politico. Naturalmente, per tener lo sguardo all’altezza delle grandi potenze, essa deve camminare sui trampoli, e da tale aereo punto di vista essa vorrebbe trasformare il castello di carte del suo complicato gioco diplomatico in una valanga che s’accresca scorrendo. Questo castello di carte, che punta sul direttorio a tre nell’ambito della NATO per valersi della rappresentanza, e del peso, di tutta l’Europa occidentale,[1] e sulla presenza effettiva tra i Quattro Grandi, con la vana speranza di rafforzare t’una cosa con l’altra, regge sulla carta dell’armamento nucleare e dell’ingresso nel Club atomico. A toglier questa carta il castello crollerebbe, e per non sfilarla De Gaulle deve continuare le esplosioni nucleari sino a passare dalla ridicola bomba A ad una seria bomba H, e deve inoltre cercare — come sembra stia facendo per quanto ciò appaia strano dopo la rinunzia inglese — di ottenere qualche risultato nel campo dei missili balistici intercontinentali. In teoria è vero che ormai non si è una grande potenza senza il possesso autonomo di un deterrent nucleare, e De Gaulle, che non sa pensare la Francia se non alla maniera di Luigi XIV, insegue certamente questo miraggio. Data la forza reale della Francia tali propositi non lo porteranno certamente molto lontano, ma intanto lo spingono a non accettare la sospensione delle esplosioni sperimentali, e a ritardare la distensione, almeno sino allo scoppio della bomba H francese.
La Germania occidentale punta i piedi per motivi meno teatrali. Essa non sa a quale titolo esiste come Stato. Per miracolosa che sia, l’espansione economica non basta per giustificare l’esistenza del potere politico tedesco occidentale che, senza qualche scopo ben definito, si ridurrebbe alla troppo semplice funzione di custode dei beni delle pance piene tedesche. Per questa ragione, i tedeschi sbandierano la riunificazione nazionale, anche se quasi nessuno la desidera seriamente. I tedeschi occidentali sono attualmente i cittadini di un mezzo Stato tedesco — mezzo visto che il mondo pensa ancora che l’unica forma legittima di Stato sia quella mononazionale — e proprio perché se la passano bene, pensano che non stia bene occuparsi solo dei propri affari e, in mancanza di altri fiori da mettere all’occhiello, fingono di avere una anima nazionale. In questo modo strano, e persino contro voglia, i tedeschi stanno ridiventando nazionalisti, e su questa base la vita politica tedesca si va nutrendo ancora di problemi nazionalistici come quelli della frontiera Oder-Neisse, di Berlino capitale, e della riunificazione. Così Adenauer, che personalmente non solo non desidera la riunificazione ma persino la teme, ha dovuto parlarne sempre più; e nell’imminenza dell’incontro al vertice ha dovuto mostrarsi intransigente sul problema di Berlino e del riconoscimento di Pankow.
Si deve alla schizofrenia politica trionfante se, tra gli Occidentali, l’indignazione per le rivendicazioni nazionali tedesche è stata modesta, e se la riunificazione tedesca sembra un obbiettivo desiderabile anche a coloro che dicono di voler combattere il nazionalismo tedesco.[2] Dopo tutto quello che è accaduto in questo secolo, non si capisce perché l’Occidente dovrebbe riconoscere nel berlinesi i campioni della libertà democratica, e rischiare la guerra calda, o perlomeno adattarsi alla guerra fredda, perché i tedeschi possano continuare a considerare Berlino come la vera capitale della Germania. Di questo in verità si tratta, e non di altro, perché se la vera preoccupazione di Bonn, e di coloro che accettano il suo punto di vista, fosse quella della difesa della democrazia, non si capirebbe a qual titolo l’Occidente dovrebbe correre rischi così grossi per la libertà dei berlinesi mentre accetta senza patemi d’animo la schiavitù degli ungheresi, dei rumeni, dei cecoslovacchi e via dicendo. Ma Ungheria, Rumenia, Cecoslovacchia non sono divise, e la Germania sì. E’ questo che fa ritenere anormale a tutti la situazione di Berlino. Per pensare diversamente occorrerebbe escogitare per i tedeschi occidentali, e quindi per gli europei, una soluzione diversa da quella nazionale, e questo è troppo. I politici del nostro tempo possono annacquare tutto: la libertà individuale, il regime democratico, la giustizia sociale, il rispetto della persona umana, ma non sono affatto disposti ad annacquare il nazionalismo, e continuano a pensare graniticamente che costituiscano una patria solo gli uomini che possono insieme inventare e tramandare la stessa favola nazionale e non invece quelli che, associandosi, potrebbero risolvere pacificamente, liberamente e vantaggiosamente i loro problemi politici e sociali. Apparentemente l’umanità sembra divisa soltanto fra democratici e comunisti (salvo le frattaglie fasciste); ma né gli uni né gli altri sanno mettere la giustizia sociale, o la libertà politica, avanti al dogma nazionale: nulla di strano dunque se Adenauer, spalleggiato da Willy Brandt, ha gonfiato il petto ed ha gridato: «Berlino (ovest) è sacra!».
In questo modo, e per queste ragioni, venne fuori dopo Camp David il «così o niente» di De Gaulle e di Adenauer. L’America è forte, ma il dogma nazionale è più forte di lei. Essa non può usare la frusta quando i suoi a mezzo satelliti e a mezzo alleati tirano fuori le sacre esigenze nazionali. Così Eisenhower, per presentare a Parigi un fronte occidentale compatto, ha dovuto accettare il «così o niente» dei francesi e dei tedeschi. Questo fu il principio della fine perché in tal modo la conferenza al vertice non poteva più dare alcun risultato.
E’ indubbio che gli unici risultati possibili della conferenza, salvo il sabotaggio franco-tedesco, sarebbero stati: a) un solenne impegno delle grandi potenze ad astenersi dalle esplosioni sperimentali di ordigni nucleari, b) un compromesso sulla questione di Berlino, che per molti segni sembrava acquisito a Camp David, e senza del quale del resto il breve idillio Kruscev-Eisenhower non si spiega. Non si sarebbe trattato di un topolino: ciò avrebbe infatti permesso di rendere più difficile l’ambizione delle medie potenze di giungere ad un proprio armamento nucleare, risultato di grande importanza tenuto conto del fatto che tra queste potenze c’è la Cina, ed avrebbe permesso inoltre di tenere in movimento la situazione diplomatica dell’Europa, lasciando aperte le speranze — ad ognuno le sue — di far meglio in futuro.
Ma, molto prima dell’apertura della conferenza, si seppe che questi risultati erano impossibili per l’intransigenza di De Gaulle e di Adenauer. In sostanza la conferenza non aveva più nulla da offrire al mondo, salvo il solo fatto del suo svolgimento formale. Ciò non bastava però per assicurare il processo della distensione, e poteva anzi ostacolarlo. Per battere i sostenitori della guerra fredda non basta infatti accettare la distensione ed adottare il criterio della coesistenza pacifica, ma bisogna anche dimostrare con i fatti che questa politica risolve gradualmente i maggiori problemi del mondo. Una conferenza al vertice senza risultati poteva diffondere proprio l’idea che la distensione non dà risultati, e tradursi così in un successo degli intransigenti ed in uno scacco per i moderatori. Per queste ragioni si può affermare che Kruscev impedendo lo svolgimento della conferenza ha agito saggiamente. In tal modo egli ha dato una soddisfazione formale agli oltranzisti, in quel momento forti; ma sostanzialmente ha evitato che la sua politica distensiva subisse una bocciatura solenne, ed ha conservato così la possibilità di continuarla. Con quel cacio sui maccheroni che fu lo U - 2 egli poté far discorsi duri e dar parole in pasto all’ira spuntando le armi di coloro che avrebbero potuto approfittare del fallimento della conferenza per far pendere la bilancia dalla parte della guerra fredda, ma contemporaneamente non irrigidì l’ultimatum su Berlino, non fece la pace separata con Pankow, si mise con pazienza a raggruppare di nuovo nella sua parte del mondo i fautori della distensione, e riuscì persino ad isolare nettamente di fronte al mondo intero i cinesi sulla posizione oltranzista.
Un lavoro politico eguale in Occidente non è stato fatto. Gli avvenimenti ante e post-distensione dimostrano perciò che gli ostacoli più gravi si trovano in Occidente. La Cina non poteva infatti né impedire che la Conferenza ottenesse dei risultati, né poté sfruttarne il fallimento. La Francia e la Germania furono invece in grado di sabotarne i risultati possibili, e rendono ora difficile l’elaborazione di una qualsiasi politica dell’Occidente. La Francia e la Germania sono dunque gli anelli che non tengono nella politica distensiva dell’Occidente, e lo costringono ad un nullismo politico internazionale che ci fa passare da una disfatta all’altra. Si pone quindi con urgenza il problema del che fare per isolare e battere gli oltranzisti francesi e tedeschi. Il problema è difficile perché il potere politico sovrano francese, per mantenersi, tende fatalmente verso la grandeur; e quello tedesco occidentale verso il nazionalismo. Non si tratta soltanto di buona o cattiva volontà di uomini e di partiti, ma del fatto che non ci sono altri modi di acquisto e di mantenimento del potere politico nella Francia sovrana e nella mezza Germania sovrana. A questo punto il discorso dovrebbe risultare chiaro, ma gli stessi leaders politici francesi, tedeschi, italiani che dicono di volere la distensione lo rifiuteranno con realistica fermezza. L’ostacolo occidentale della distensione sta in realtà nel fatto che il regime degli Stati nazionali sovrani europei — dire Francia e Germania significa dire Europa occidentale — impedisce l’accesso al potere di coloro che vorrebbero fare la politica della coesistenza pacifica, li mantiene all’opposizione perpetua, e li induce allo sterile gioco del neutralismo, che non ha alcuna influenza sul corso delle cose.
Gli avvenimenti hanno dimostrato che la posta della distensione è enorme. Si può con la distensione isolare la Cina, i cui dirigenti sono gli hitleriani dell’ora presente visto che accusano i russi di aver troppa paura della guerra atomica. La coesistenza pacifica può ostacolare il loro sogno forsennato, attenuare il loro potere, rafforzare in tal modo la posizione dell’India, ed indirizzare così verso il modello indiano invece che verso quello cinese le immense masse afro-asiatiche. Ma De Gaulle, pur di fare la sua bomba H, aumenta le chances della Cina di fare altrettanto e Adenauer, per giocare la moneta falsa di Berlino «vera capitale tedesca», e per non riconoscere Pankow, blocca stupidamente tutto il processo della distensione. Bisognerebbe dunque scalzare presto i due campioni. Ma per scalzarli bisognerebbe toglier di mezzo ciò che li tien su: il potere politico sovrano francese e il potere politico sovrano mezzo tedesco. E questo è troppo: i nostri campioni della distensione non sono disposti a pagare questo prezzo, non vogliono gli Stati Uniti d’Europa! Viva l’Italia! Viva la Francia! Viva la Germania!
Mario Albertini
[1] L’europeismo di De Gaulle, che fa così felici gli europeisti di Germania e d’Italia, si riduce a questo. Aldo Garosci, su «Il Mondo» del 14 giugno 1960, ha esattamente illustrato la portata dell’europeismo di De Gaulle, che il 31 maggio ha detto: «Le Alpi, il Reno, i Pirenei, la Manica non dovranno più dividere i paesi dell’Europa occidentale, ma al contrario unirli, spingerli a creare un grande insieme, che faccia di questa Europa occidentale un solo blocco politico, militare, economico e culturale», ha affermato che «lo scopo finale è la creazione di una grande Federazione Europa», ma ha soggiunto «la Francia già si applica alla creazione di tale blocco». Evidentemente la portata della parola federazione è spiegata dall’uso della parola blocco, che è l’antitesi della federazione. Resta il fatto che «La Francia si adopera…».
[2] Così ad esempio Riccardo Lombardi (cfr. sull’Avanti! Del 26 giugno 1960 l’articolo Il fallimento di Parigi) che, dopo una analisi intelligente della situazione, afferma la necessità di «dilatare la zona di disimpegno, fino a comprendervi l’intero territorio tedesco, non precludendo così la prospettiva per quanto lontana di una riunificazione che ci ostiniamo a considerare indispensabile (anche se naturalmente non sia questa condizione sufficiente) per strozzare nelle fasce ogni insorgenza di spirito nazista che si avvalga dell’arma potente del sentimento nazionale». Si tratta davvero di una ostinazione: Lombardi vuole indebolire il nazionalismo tedesco ridandogli fiato, come l’avrebbe indubbiamente nel caso di una riunificazione e di una neutralizzazione. E’ vero che una mezza Germania alimenta il nazionalismo, ma è vero anche che una Germania intera e neutralizzata ne alimenterebbe uno maggiore. Fino a dove arriva, del resto, una «Germania intera»?