Anno II, 1960, Numero 3, Pagina 164
PENSATECI UN’ORA
Come è noto, il ministro Duncan Sandys ha recentemente reso pubblica la rinunzia della Gran Bretagna ad occuparsi di missili balistici. Il fatto deve essere valutato sul piano militare e su quello politico. Dal punto di vista militare ci pare che lo abbia analizzato con rigore Armando Silvestri.[1] Egli ha messo in evidenza la situazione aeronautica degli Stati europei alla fine della seconda guerra mondiale, situazione che vide gli inglesi in posizioni di forza, ed i francesi in posizioni notevoli nel settore tecnico. La Francia, nonostante l’arditezza delle sue concezioni tecniche e qualche effimero successo, scomparve quasi subito dal campo; la Gran Bretagna invece ebbe successi notevoli che le permisero all’inizio di tener testa anche militarmente alla Russia ed agli U.S.A. Ma negli ultimi anni ciò non fu più possibile: i caccia inglesi furono surclassati da quelli russi ed americani, e gli stessi Vulcan e Victor, gli aviogetti subsonici da bombardamento del deterrent atomico inglese, sono da tempo superati da quelli supersonici in prova o costruzione americani e russi.
Per questa ragione il governo britannico decise due anni fa di trascurare gli studi relativi ai caccia ed ai bombardieri, e di concentrare i propri sforzi sui missili balistici. Si trattava di lasciar cadere il non assolutamente necessario per concentrare gli sforzi sui mezzi essenziali allo scopo di mantenere l’autonomia difensiva. La recente notizia è pertanto più grave di quanto possa sembrare a prima vista, e significa in realtà, come mette esattamente in luce Silvestri, che anche la Gran Bretagna è da annoverarsi ormai tra le nazioni che non sono «in grado di perseguire programmi scientifici e tecnici di così notevole ampiezza, di così grande portata, e soprattutto di così grave peso organizzativo ed economico, quali le realizzazioni missilistiche, ed in subordine le aeronautiche impongono». La Gran Bretagna, continua Silvestri, «ha gettato la spugna», in altri termini ha perso l’indipendenza militare. Questa situazione, secondo l’autore che citiamo, è destinata ad aggravarsi nel futuro perché il progresso scientifico e tecnico aumenta e non diminuisce la quantità dei mezzi necessari per organizzare una difesa autonoma, e quindi accentua la disparità tra Stati grandi e Stati medi o piccoli, e particolarmente, per quanto riguarda la Gran Bretagna, perché la disponibilità autonoma delle testate atomiche, senza la disponibilità autonoma del mezzo per lanciarle, perde di senso. Per questa ragione ci si può chiedere «per quanto durerà ancora lo sforzo della Gran Bretagna per mantenersi nel club atomico»; ed in definitiva si deve concludere che: «il peso economico del vertiginoso progresso scientifico e tecnico ha, per ora nel settore aeronautico-missilistico, schiacciato l’Inghilterra, ultimo campione d’Europa, di questa Europa divisa e, per questo, impotente».
Questa è la portata militare del fatto. Resta da chiedersi quale sia la sua portata politica, e per rispondere a questa domanda bisogna fare un discorso di carattere generale, che non riguarda hic et nunc la Gran Bretagna, ma riguarda tutti gli Stati che si trovano in una situazione di questo genere. Cominciamo col chiederci che cosa significa la perdita della indipendenza militare. Significa, evidentemente, la perdita della libertà d’azione nella politica internazionale, e quindi la perdita della stessa indipendenza. In ultima analisi ciò comporta che il destino di una popolazione — quella dello Stato che ha perso l’indipendenza militare — verrà deciso dalla volontà degli Stati che conservano tale indipendenza.
A questo punto il discorso, logicamente semplicissimo, diventa praticamente molto difficile, ed in Italia, stante i reati di vilipendio, quasi illegale, ma onestà vuole che sia continuato sino alle sue conseguenze estreme in modo che si sappia con chiarezza chi porta la responsabilità di questa situazione, e che cosa dovrebbero fare gli uomini di buona volontà per mutarla. Se i fatti sono così gravi o si arriva a queste conseguenze, o ci si rassegna al mestiere dei Padri Zappata. Vediamo dunque in breve queste conseguenze: a) lo Stato che ha perso l’indipendenza militare perde l’indipendenza politica, b) pertanto cessa di essere vero che il suo esercito serve per difendere i cittadini, e diventa vero invece che questo esercito servirà soltanto a difendere il potere dei capi contro i cittadini, o a fornire carne da cannone all’alleato più potente, c) in tale situazione i poteri fondamentali dello Stato divengono politicamente illegittimi. I cittadini pagano le imposte in primo luogo per la difesa della patria, prestano a tal fine il servizio militare, e devono sacrificare la loro stessa esistenza se il governo lo decide, ma queste prestazioni e questi sacrifici sono inutili, e vengono richiesti senza contropartita, se lo Stato che li pretende non può difendere il suo territorio ed assicurare ai cittadini l’indipendenza politica, d) per questa ragione tale Stato, divenuto debole e falso, degrada i valori della convivenza sociale, e causa lo scetticismo morale e l’indifferenza politica.
Per passare dal generico al concreto, dobbiamo ora osservare che la Gran Bretagna comincia solo ora a segnare il passo, mentre gli Stati del continente sono stati sconfitti nella ultima guerra, e non sono più da allora delle potenze militari autonome. Questi fatti inglesi possono dunque rammentarci le faccende di casa nostra, che stanno così: a) l’Italia, che non ha indipendenza militare e non costituisce un quadro sufficientemente ampio per lo sviluppo e la concentrazione dei mezzi economici, è, come Stato sovrano, una cosa debole e falsa al punto che, se conserverà la sovranità assoluta per uno o due decenni, porterà gli italiani alla rovina,[2] b) pertanto i parlamentari, i governanti, i dirigenti dei partiti e così via mentono spudoratamente quando affermano di fare la politica estera italiana per la pace e la sicurezza degli italiani, la politica economica italiana per il benessere e la giustizia sociale degli italiani e via dicendo. In realtà costoro mantengono in tal modo la sovranità assoluta dello Stato (ed i loro personali poteri), e sono perciò corresponsabili, con i loro colleghi degli altri Stati europei, della divisione dell’Europa, cioè della rovina di tutti gli europei, ivi compresi gli italiani. In effetti l’Europa non è divisa, come dicono gli sciocchi, dalla «storia», che nei suoi aspetti religiosi, culturali, scientifici e sociali è più unitaria in Europa che in India, in Cina, nell’U.R.S.S. e persino, entro certi limiti, nella stessa America del Nord, ma dagli Stati sovrani, e quindi in concreto da coloro che li governano o vorrebbero governarli, c) non c’è un alibi italiano rispetto a queste colpe: la classe politica italiana non sarebbe colpevole se affermasse che gestisce soltanto per «stato di necessità» la politica estera, militare, economica e sociale italiana e se avesse e manifestasse ufficialmente l’intenzione di essere sempre pronta a convocare in qualunque momento l’Assemblea Costituente Europea, d) e non c’è l’alibi europeo della cosiddetta politica di integrazione europea.[3] Le Comunità europee esistono, ma la divisione e l’impotenza dell’Europa restano, e rimarranno sinché gli europei non avranno una vera rappresentanza politica. Del resto è assolutamente pazzesco (di fatto semplicemente falso) il proposito degli «europeisti» di fare l’unità europea, e di conservare una politica estera, militare, economica e sociale francese, italiana, tedesca.
Noi vorremmo pertanto invitare tutti gli «europeisti», vale a dire la quasi totalità della classe politica e dell’opinione pubblica, ad una meditazione di un’ora su queste due banali osservazioni: a) senza un potere politico eletto da tutti gli europei e responsabile verso tutti gli europei, in altri termini senza uno Stato federale, non ci può essere una politica estera, militare, economica e sociale europea, b) nella civiltà democratica c’è una sola procedura legittima ed efficace per fondare uno Stato, quella costituente. Fare l’Europa significa dunque convocare una Assemblea Costituente Europea. Se non si giunge a questo punto, dopo aver costatato che l’Europa divisa è destinata a morire, si resta dei Padri Zappata. Orbene, quasi tutti i politici nazionali, una volta o l’altra, hanno affermato che l’Europa se resta divisa muore, ma hanno continuato imperterriti ad occuparsi esclusivamente di politica nazionale, e non hanno mai fatto la meditazione di un’ora a cui noi vorremmo invitarli.
Probabilmente il nostro invito non sarà raccolto dai soddisfatti, da coloro che hanno oggi un pezzo di potere e credono di poterlo conservare per l’eternità perché la fiacchezza della lotta politica attuale dà loro sonni tranquilli e li induce alla pigrizia mentale. Ma la calma attuale è basata soltanto sul vuoto politico, ed è perciò in realtà la calma che precede la tempesta. E il giorno della tempesta sarà duro per chi avrà fatto grosso il ventre, e pesante il cervello.
Mario Albertini
[1] Cfr. sul «Corriere della Sera» del 19 aprile 1960 l’articolo Perché l’Inghilterra rinunzia a costruire missili balistici, e su quello del 29 aprile 1960 l’articolo La «pentola» contro il radar ed il raggio che brucia i missili.
[2] Ad es. Luigi Einaudi ha scritto: «La necessità di unificare l’Europa è evidente… [senza l’unione europea] esisterà ancora un territorio italiano, non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica». (Lo scritto è datato 1 marzo 1954. Cfr. Luigi Einaudi, Lo Scrittoio del Presidente, Einaudi, Torino, 1956, p. 89). Molta gente ha scritto e capito queste cose. Sfortunatamente quasi nessuno ha pensato che, se le cose stanno cosi, bisognerebbe fare qualche cosa; o perlomeno non avallare, con la propria opera o il proprio nome, il mantenimento della sovranità assoluta degli Stati nazionali.
[3] A costo di dirlo tutti i numeri, ripetiamo che tra coloro che sfruttano questo alibi stanno ormai anche i socialisti del P.S.I. Una delegazione composta da Lombardi, Cattani e Zagari ha partecipato, il 7 e l’8 maggio scorsi, alla IV Conferenza dei partiti socialisti degli Stati membri delle Comunità europee di Strasburgo. Come risulta dai resoconti di Vincenzo Piga e dall’articolo I nostri impegni europei di Paolo Vittorelli (cfr. gli Avanti! Dell’8, 9 e 10 maggio) la delegazione socialista, e segnatamente Riccardo Lombardi, hanno affermato che in questo momento «si gioca la grande partita da cui dipende se si avrà l’Europa dei cartelli e dei monopoli, o l’Europa dei lavoratori». Con quali carte i socialisti vogliano giocare questa partita lo si è visto: hanno discusso il problema delle elezioni europee dirette, ed hanno accettato il criterio secondo il quale non si deve dare nessun potere ai rappresentanti eletti dai cittadini europei. In sostanza i socialisti vogliono pianificare l’economia europea senza un parlamento europeo, e quindi senza leggi europee; senza un governo europeo, e quindi senza una politica europea; e pigliando inoltre in giro i cittadini e i lavoratori europei, che dovrebbero essere chiamati alle urne per eleggere un parlamento che non avrà alcun potere, e non potrà perciò tradurre i loro voti in decisioni politiche.