IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 3, Pagina 210

 

 

LA BANCA PER LO SVILUPPO
DEL MEDITERRANEO*
 
Uno strumento per la mobilitazione di risorse, per l’assistenza a favore delle piccole e medie imprese e per la realizzazione di infrastrutture
 
 
Introduzione.
 
La realizzazione di un “Piano Marshall per il Mediterraneo” finalizzato e condizionato a sostenere il processo di transizione democratica dei paesi della sponda meridionale ed orientale del bacino rappresenta una sfida in cui l’Europa si deve sentire impegnata in prima linea, nell’interesse proprio e di tali paesi: questo in un contesto in cui emergono sulla scena nuovi attori dotati di risorse economiche rilevanti e capacità di intervento altrettanto efficienti (vedi la Cina, la Russia ed i paesi dell’area del Golfo), sempre più interessati a stabilire rapporti preferenziali con il mondo arabo, nonché paesi come la Turchia proiettati ad assumere progressivamente un ruolo di guida politica nei confronti dei paesi protagonisti delle rivolte della primavera araba e dei Territori palestinesi.
Una nuova architettura dei rapporti tra Unione europea e paesi arabi, con l’obiettivo di arrivare alla creazione di una vera e propria comunità euro-mediterranea, così come delineata nell’Appello lanciato dal CIME, presuppone tuttavia, oltre che un rafforzamento politico dell’Unione europea ed il perseguimento di un maggior grado di integrazione economica e politica a livello intra-regionale mediterraneo, un rinnovamento delle modalità di intervento in questi paesi e degli strumenti a disposizione.
La crisi finanziaria mondiale in atto e gli scontri sociali, spesso drammatici, registrati a livello locale sulla via della ricerca della libertà e della democrazia hanno determinato l’aggravamento di una situazione economica peraltro già molto precaria, con rallentamento del tasso di sviluppo, riduzione delle esportazioni e minor afflusso di rimesse dagli emigrati, ma soprattutto diminuzione accentuata degli investimenti diretti dall’estero.
Per avviare un processo virtuoso di sviluppo della regione sono in via prioritaria necessari interventi a sostegno dell’iniziativa privata ed in particolare delle piccole e medie imprese, nonché la realizzazione di un massiccio piano di investimenti nei settori delle energie rinnovabili, dell’acqua, dello sviluppo urbano e delle reti infrastrutturali, in grado queste ultime di migliorare gli sbocchi con l’Europa, ma soprattutto di favorire l’integrazione tra i paesi della regione, oggi scarsamente sviluppata.
In questo quadro va tuttavia rilevata a livello locale la presenza di sistemi bancari carenti e di mercati finanziari scarsamente sviluppati, spesso poco efficienti per assicurare una allocazione di risorse ottimale verso i settori e le priorità indicate.
Si avverte quindi la necessità di disporre di uno strumento finanziario specifico, una Banca sul modello della Banca europea per gli investimenti o della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che sia in grado di canalizzare verso l’area del Mediterraneo le risorse necessarie per avviare un processo di sviluppo durevole e sostenibile.
Tale istituzione dovrebbe essere portatrice, oltre che di mezzi finanziari in quantità e forme adeguate, di expertise da condividere con risorse manageriali individuate a livello locale, in modo da creare le condizioni per far crescere i sistemi bancari e finanziari dei vari paesi.
Si tratta di un’idea non nuova, più volte già avanzata in passato sotto varie forme, che tuttavia non ha finora trovato concreta realizzazione.
In proposito va rilevato come, guardando al passato, importanti cambiamenti epocali succedutisi sulla scena mondiale si siano accompagnati alla nascita di grandi banche di sviluppo internazionale che hanno avuto il ruolo di supportare la crescita, contribuendo spesso a colmare i guasti lasciati da guerre e scontri sociali oppure a rimediare situazioni pregresse di povertà ed arretratezza economica.
E’ il caso della Banca mondiale, una delle creazioni della Conferenza di Bretton Woods, la cui attenzione si è inizialmente focalizzata sulla ricostruzione e lo sviluppo di Europa e Giappone usciti dalla seconda guerra mondiale, per concentrarsi poi esclusivamente sui paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina.
La stessa BEI è stata costituita nel 1958 dal Trattato di Roma per contribuire al raggiungimento degli obiettivi della Comunità, investendo in progetti a favore delle regioni più svantaggiate, per rafforzare la competitività delle industrie e delle piccole e medie imprese, per la realizzazione di reti infrastrutturali, la tutela dell’ambiente naturale ed urbano, il miglioramento dei servizi sanitari, dell’istruzione e dell’innovazione tecnologica.
Particolarmente significativa infine è l’esperienza della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), nata nel 1991 con lo scopo di favorire nei paesi dell’Est la transizione verso la democrazia e promuovere negli stessi paesi l’iniziativa privata, il principio della democrazia multipartitica ed il pluralismo.
 
Il quadro macro-economico dell’area mediterranea e gli effetti della crisi in atto.
 
Il livello si sviluppo raggiunto dai singoli paesi della sponda meridionale del Mediterraneo è variegato ed anche gli effetti che la crisi potrà avere su tale sviluppo saranno diversi da paese a paese, a seconda ad esempio che si tratti di paesi esportatori o importatori di idrocarburi, più o meno aperti all’esterno, dotati di livelli di infrastrutture e di governance economica più o meno elevati.
Inoltre, in questo momento è particolarmente difficile prevedere quale potrà essere l’impatto sull’economia della guerra civile in Libia, o dei pesanti disordini politici e sociali in Tunisia, Egitto e Siria.
Focalizzando l’attenzione sui livelli di reddito pro-capite emerge un differenziale tuttora consistente tra i paesi della zona euro e quelli della sponda sud, che si è andato tra l’altro riducendo in misura molto marginale a partire dal 1990, contrariamente alla riduzione registrata nello stesso periodo tra i paesi della zona euro e quelli dell’Europa dell’Est o della Turchia.
Sulla base di dati al 2008, ad esempio, il reddito medio di un cittadino della zona euro calcolato a parità di potere d’acquisto è 7,9 volte quello di un cittadino del Marocco, 7,4 quello di un siriano, 6,1 quello di un egiziano. Tale rapporto scende a 4,2 per l’Algeria , a 2,0 per la Libia, a 1,2 per Israele; i dati dell’Algeria e della Libia risentono ovviamente dei redditi ricavati dall’esportazione di risorse naturali e possono essere meno significativi degli altri.
Un altro aspetto interessante riguarda le proiezioni demografiche: l’Unione europea a 27 si stima che avrà nel 2050 più o meno lo stesso numero di abitanti del 2009 (500 milioni), mentre la popolazione della riva sud del Mediterraneo sarà moltiplicata per 1,5 (320 milioni nel 2050). Il dinamismo demografico di questi paesi rappresenta un’opportunità per l’Europa, sia in termini di sviluppo della domanda dei propri prodotti, sia come valvola di compensazione alla diminuzione della popolazione attiva al proprio interno.
Infine, i paesi del Mediterraneo, nonostante la crisi abbia considerevolmente destabilizzato le loro economie, in una prospettiva di medio termine hanno un potenziale di crescita superiore a quello dell’Europa: avendo come orizzonte temporale il 2030, i più importanti organismi internazionali prevedono per tali paesi un tasso di crescita tra il 3 ed il 4% annuo, a fronte di un tasso inferiore al 2% per l’Europa.
Anche guardando ad un orizzonte più breve, secondo stime recenti della Banca mondiale, nel 2011 Medio Oriente e Nord Africa dovrebbero crescere del 3,6%, ben al di sotto del 5% previsto ancora pochi mesi fa, ma comunque ad un tasso mediamente superiore o in linea rispetto a quello dei paesi europei.
Il fatto che questi paesi stiano reagendo abbastanza bene alla crisi, grazie anche ad una integrazione finanziaria limitata a livello sia regionale sia mondiale, non significa tuttavia che essi non abbiano subìto chocrilevanti a seguito della crisi.
Il rallentamento del tasso di crescita ha avuto e sta avendo un impatto pesante sulla creazione di nuovi posti di lavoro e sul tasso di disoccupazione: non dimentichiamo al riguardo che, come rilevato dal FMI nel rapporto consegnato ai Capi di Stato e di governo del G8 riuniti a Deauville nel maggio 2011, occorrerà creare dai 50 ai 75 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni, per evitare nuove rivolte in paesi dove la disoccupazione giovanile raggiunge tassi del 30%.
Le misure di sostegno all’economia prese dagli Stati stanno poi avendo pesanti effetti sui bilanci pubblici.
Lo choc reale della crisi si è tra l’altro inserito in un contesto economico già reso particolarmente fragile dall’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dei prodotti petroliferi del 2007-2008, situazione ripetutasi nel 2010 per i prodotti alimentari di base. Deficit esterno e deficit di bilancio si sono dilatati con conseguenze molto forti sulle popolazioni e sul clima sociale.
Strutturalmente, guardando all’insieme dei soli paesi mediterranei che rientrano nell’area di attività della FEMIP (Facility for Euro-Mediterranean Investment and Partnership, vedi oltre), questi presentavano in passato una bilancia dei pagamenti in sostanziale pareggio, con peraltro un pesante disavanzo commerciale controbilanciato dalle entrate del turismo, dalle rimesse degli emigrati e dagli investimenti diretti esteri (IDE). Nell’ultimo decennio le entrate da IDE sono state mediamente all’incirca uguali alle entrate da turismo e rimesse degli emigrati.
La crisi ha tuttavia modificato sensibilmente le grandezze in questione. In particolare, ha originato un notevole peggioramento della bilancia commerciale, in merito alla quale i paesi dell’area corrono il rischio di rimanere intrappolati in una morsa costituita, da un lato, dall’aumento della domanda interna — si tenga presente che siamo in presenza di un bacino di oltre 200 milioni di consumatori — e, dall’altro, dalla pesante diminuzione di quella esterna. Nel 2009, ad esempio, le esportazioni di beni sono diminuite del 30%, le importazioni soltanto del 18,6% ed il deficitcommerciale ha raggiunto il livello di 22 miliardi di dollari. La situazione è relativamente migliorata nel 2010, quando le esportazioni hanno registrato un incremento del 18%, per ritornare sui livelli precedenti nel corso del 2011.
Relativamente contenuta è stata la diminuzione delle entrate dal turismo (-5%), le rimesse degli emigrati hanno registrato una contrazione di circa 2 miliardi di dollari, ma l’effetto più devastante si è verificato sugli IDE, diminuiti di oltre il 30% all’anno tanto nel 2009 quanto nel 2010, passando da 30 miliardi di dollari nel 2008 a circa 16 nel 2010. Tra i paesi con il flusso netto più elevato di IDE vanno segnalati Libano e Giordania, mentre Israele ha visto un deflusso netto di investimenti nel 2010 ed altrettanto si prevede nel 2011. Un dato interessante che merita di essere evidenziato è inoltre il peso degli investimenti provenienti dai paesi emergenti, in particolare la Cina, prossimo al 30%, pur continuando l’Europa ad essere il principale apportatore di progetti di investimento con una quota del 40%, mentre è di circa il 20% la quota dei paesi del Golfo.
Lo scoppio della “primavera araba” ha ovviamente contribuito ad aggravare la situazione economica in particolare di alcuni paesi; la Tunisia ad esempio, che aveva previsto per il 2011 una crescita del 5,5%, ora valuta che possa essere prossima allo zero. E proprio la Tunisia, insieme all’Egitto, ha avanzato consistenti richieste di aiuti agli organismi internazionali per far fronte alle esigenze più urgenti: 25 miliardi di dollari in cinque anni la prima; 10-12 miliardi di dollari entro la metà del 2012 il secondo.
Ed anche i primi interventi sono stati annunciati: dalla Banca mondiale (4,5 miliardi all’Egitto e 1,5 alla Tunisia in 2 anni); dagli Stati Uniti (due miliardi all’Egitto, uno dei quali di debito cancellato); dalla BEI (un miliardo supplementare nel prossimo biennio) e dalla BERS (2,5 miliardi all’anno nei prossimi anni).
La comunità internazionale quindi si sta muovendo; ma alle richieste che provengono dai paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, pur tenuto conto delle difficoltà del momento, l’Europa dovrebbe guardare con un’ottica non soltanto di breve termine, ponendosi l’obiettivo di raggiungere un livello di integrazione economica sempre più elevato con questa regione, fondato sulla libera circolazione delle merci e dei servizi, condizionando ovviamente sempre il proprio intervento ad una piena affermazione dei principi di libertà e democrazia.
Già oggi, non dobbiamo dimenticare che oltre il 40% dell’interscambio commerciale di questi paesi avviene con l’Unione, sebbene siano da registrare differenze importanti tra il Maghreb — dove l’interscambio con l’UE raggiunge quasi i due terzi del totale — ed il Vicino Oriente dove Stati Uniti, paesi del Golfo e paesi asiatici hanno anch’essi un peso rilevante. Il dato assume un rilievo del tutto particolare se lo si raffronta al peso molto inferiore dell’interscambio intra-regionale, prossimo al 10%.
La vicinanza geografica con questi paesi, il loro ritmo di crescita economica, il progressivo aumento della domanda interna, la ricerca di forza lavoro a basso costo e l’esigenza di contenimento dei costi energetici e di trasporto sono tutti fattori che in prospettiva spingeranno in favore di una sempre maggiore integrazione euro-mediterranea.
Lo sviluppo dei paesi del Mediterraneo non risponde soltanto ad un obiettivo politico e culturale, o ad un dovere di ordine morale che i paesi sviluppati avrebbero nei loro confronti. Si tratta soprattutto di un’esigenza economica, tanto per i paesi della riva sud che per quelli della riva nord. Il finanziamento dello sviluppo non deve essere considerato una forma di aiuto, ma una forma di investimento destinata a produrre ritorni positivi nel futuro: elevare la ricchezza dei paesi del Mediterraneo, in una prospettiva di lungo termine, contribuisce ad elevare la ricchezza dei paesi dell’Europa.
 
Fondi e strumenti disponibili per il finanziamento dello sviluppo nel Mediterraneo.
 
Il finanziamento dello sviluppo del Mediterraneo è stato finora assicurato da tre tipologie di operatori: l’Unione europea, le istituzioni finanziarie internazionali ed i singoli Stati.
Il “Rapporto sul finanziamento del co-sviluppo nel Mediterraneo”, predisposto dalla Commissione Milhaud, di cui si dirà in seguito, ha per la prima volta cercato di fare un quadro accurato ed esaustivo dei flussi di fondi destinati allo scopo. La Commissione, su incarico ricevuto dal presidente della Repubblica Francese nell’ambito delle iniziative dell’Unione per il Mediterraneo (UpM), ha esteso la sua analisi a tutti i paesi dell’UpM, comprendendo tra di essi i quattro paesi della sponda adriatica (Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Montenegro), la Turchia e la Libia (benché quest’ultima non sia membro dell’UpM, ma vi partecipi come osservatore e benefici dei fondi comunitari della Politica europea di vicinato).
Il Rapporto stima in 20 miliardi di euro circa l’ammontare di fondi pubblici affluiti complessivamente nel 2009 ai 16 Paesi mediterranei non membri dell’UE, sotto forma sia di finanziamenti sia di doni. Tra i paesi destinatari della quota maggiore di fondi sono da segnalare la l’Unione europea e la BEI insieme hanno contribuito per quasi il 40 Turchia (27%), l’Egitto (13%) e il Marocco (12%). Dal lato dei finanziatori % degli aiuti totali (7,2 miliardi di euro), la Banca mondiale per il 20%.
Guardando ai fondi pro-capite affluiti nella regione si nota una netta concentrazione verso i paesi della costa adriatica (264 euro per abitante) contro 59 euro per abitante a favore dei restanti paesi dell’area: tra questi ultimi soltanto i Territori della Palestina (459 euro per abitante), il Libano (267 per abitante) e la Giordania (196 euro per abitante) hanno ricevuto fondi consistenti, ma si tratta di paesi dove gli aiuti hanno assunto connotazioni di carattere umanitario.
Il finanziamento appare quindi decisamente più concentrato verso i paesi della costa adriatica rispetto agli altri, nonostante questi ultimi siano meno ricchi dei primi.
Il Rapporto Milhaud mette inoltre in evidenza due altri importanti aspetti dell’intervento finanziario: uno è la mancanza di coordinamento tra i donatori/prestatori di fondi, l’altro è la bassa percentuale di fondi destinata al settore privato: nel complesso soltanto una quota tra il 20 e il 30%; la quota della Banca mondiale è del 21%, mentre sale al 40% quella della BEI.
L’Unione europea aveva destinato nel 2009 per aiuti ai paesi della zona mediterranea 2,2 miliardi di euro, corrispondenti all’incirca all’1,7% del proprio budget, di cui 1,3 miliardi ai paesi della costa adriatica più la Turchia ed 1 miliardo ai paesi della riva sud del Mediterraneo (si tenga presente che questi ultimi hanno un numero di abitanti 2,5 volte maggiore).
 Lo strumento finanziario principale attraverso cui l’Unione interviene nei paesi della sponda meridionale è l’ENPI (European Neighbourhood and Partnership Instrument), strumento di attuazione della Politica europea di vicinato (PEV). Le linee direttrici di tale politica, riviste di recente (vedi COM (2011) 303, citata nella bibliografia), sono la costruzione della democrazia, la promozione della cooperazione e del dialogo con la società civile, la promozione di uno sviluppo economico e sociale sostenibile ed inclusivo, nonché lo sviluppo di politiche di mobilità e promozione di contatti tra individui. In occasione della revisione l’ENPI è stato, tra l’altro, opportunamente dotato di risorse aggiuntive per 1,24 miliardi di euro da distribuire su tre anni, che si andranno ad aggiungere ai 5,7 miliardi già previsti per il triennio 2011-2013.
Altro canale disponibile, aggiuntivo rispetto a quello precedente, è laNeighbourhood Investment Facility (NIF)che, con una dotazione di gran lunga inferiore di risorse (700 milioni di euro per il periodo 2007-2013), attraverso l’effetto di leva contribuisce tuttavia al finanziamento di un numero elevato di progetti di opere infrastrutturali (energia, ambiente, trasporti).
Nei confronti dei paesi della costa adriatica e della Turchia l’Unione interviene invece attraverso lo strumento dell’aiuto di pre-adesione, riservato ai paesi candidati o potenziali candidati all’ingresso nell’Unione stessa. Tra i membri dell’UpM sono candidati la Croazia e la Turchia, sono potenziali candidati l’Albania, la Bosnia-Erzegovina e il Montenegro. I fondi sono destinati prioritariamente a: rafforzamento delle istituzioni, cooperazione transfrontaliera, sviluppo regionale (trasporti, ambiente, informatizzazione), formazione e lotta contro la povertà, sviluppo rurale.
Tra le istituzioni finanziarie internazionali che intervengono nella zona le più importanti sono, oltre alla BEI e alla Banca mondiale, la Banca africana di sviluppo e la BERS (al momento solo nei paesi della costa adriatica).
La BEI che, con finanziamenti per 5 miliardi di euro erogati nel 2009, è di gran lunga la prima fonte di finanziamento per i paesi del Mediterraneo, interviene attraverso la FEMIP nei paesi della sponda sud e direttamente in quelli della costa adriatica, con prestiti in parte con garanzia UE e in parte senza garanzia. Tra i paesi destinatari della maggior quantità di fondi la Turchia, il Marocco e la Croazia.
Anche il gruppo Banca mondiale è un investitore molto importante (4 miliardi di euro nel 2009): interviene in tutti i Paesi della zona, eccezion fatta per Israele, con una gamma differenziata di strumenti: la BIRD — International Bank for Development and Reconstruction, l’IDA — International Development Association, l’IFC — International Finance Corporation e la MIGA — Multilateral Investment Guarantee Agency. Turchia ed Egitto ricevono più della metà dei finanziamenti accordati.
La Banca Africana di Sviluppo (AfDB) nel 2009 ha destinato ai paesi dell’Africa mediterranea poco meno di 1 miliardo di euro, concentrando il proprio intervento in tre paesi: Tunisia, Marocco, Egitto.
Da segnalare inoltre tra gli attori importanti nella zona la Banca islamica di sviluppo (IDB), che ha come oggetto statutario lo sviluppo economico e umano dei paesi membri dell’Organizzazione della conferenza islamica (OCI) e delle comunità islamiche nei paesi non membri, nonché il Fondo arabo di sviluppo economico e socialeche svolge un ruolo di coordinatore dei fondi di sviluppo della regione del Golfo: anche questi due operatori negli anni più recenti hanno canalizzato nell’area circa 1 miliardo di euro all’anno.
Passando infine agli aiuti pubblici allo sviluppo regionale concessi dagli Stati si rileva ancora una volta una notevole concentrazione dei paesi destinatari (Marocco, Turchia e Territori Palestinesi raccolgono oltre il 50% degli aiuti) e dei paesi concedenti; in particolare emerge con evidenza il ruolo finora svolto nella regione da due Paesi: gli Stati Uniti e la Francia, seguiti a distanza da Spagna, Germania e Giappone.
Tradizionalmente la Francia è sempre stato il primo paese contributore di aiuti alla zona mediterranea, è stato tuttavia sorpassato dagli Stati Uniti negli ultimi anni: per avere un’idea dell’impegno di risorse profuso si pensi che la Francia da sola nel 2008 (ultimo dato disponibile) ha speso in aiuti per i paesi del Mediterraneo 960 milioni di euro e gli Stati Uniti 1,2 miliardi; gli Stati Uniti hanno concentrato l’83% del loro intervento in tre paesi (Egitto, Giordania e Territori Palestinesi), mentre la Francia ha distribuito maggiormente i suoi aiuti tra i vari paesi della sponda sud.
La Francia dispone, tra l’altro, di una ampia ed efficiente strumentazione per gestire gli aiuti: l’Agence Française de Développement(AFD) con una propria controllata — PROPARCO — preposta al finanziamento del settore privato nei paesi in via di sviluppo; la Facilité d’Investissement et de Soutien en Méditerranée (FISE), per intervenire nel capitale delle PMI e delle banche; ARIZ, uno strumento di assicurazione rischi per facilitare l’accesso al credito da parte delle PMI soprattutto in Africa.
 
Le carenze del sistema di finanziamento degli investimenti nei paesi del Mediterraneo.
 
Il contesto economico e finanziario descritto rivela l’esistenza di un fabbisogno di risorse aggiuntivo per sopperire alle situazioni di reale arretratezza in cui ancora versano molti paesi dell’area e creare le condizioni in grado di innescare un processo di sviluppo economico sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico.
I paesi della zona mediterranea hanno bisogno di accrescere l’accumulazione di capitale fisico e, per fare questo, devono aumentare il risparmio interno ed attrarre risorse dall’esterno: il fabbisogno strutturale di risparmio è, tra l’altro, aggravato dalla crisi che ha limitato i mezzi di finanziamento disponibili.
Il risparmio interno lordo in rapporto al PIL in questi paesi è al momento mediamente nell’ordine del 20%, livello del tutto insufficiente a coprire la formazione di capitale fisso necessaria ad innescare un processo di sviluppo sostenuto, molto distante dai livelli (30-35%) raggiunti dai paesi dell’Asia che stanno sperimentando tassi di crescita molto elevati.
Gli IDE hanno dimostrato finora di non essere sufficienti a colmare il gap e soprattutto sono risultati molto volatili. Essi producono un’accelerazione della crescita principalmente attraverso meccanismi di trasferimento di tecnologia, i quali per mettersi in moto necessitano di un quadro istituzionale e regolamentare stabile, oltre che di un grado di integrazione regionale elevato e producono maggiori effetti sulla crescita laddove c’è uno sforzo di risparmio ed investimento interno importante: in assenza di queste condizioni, gli effetti moltiplicativi degli IDE sulla crescita sono limitati. Non a caso, nei paesi del Mediterraneo, con l’eccezione della Turchia, gli IDE anziché finanziare il settore industriale si sono finora orientati prevalentemente verso il turismo e l’immobiliare, attività molto redditizie nel breve termine, ma che non aumentano il potenziale di crescita nel lungo termine.
Le rimesse degli emigrati raggiungono un ammontare addirittura superiore al totale degli aiuti pubblici ricevuti e costituiscono una fonte integrativa di reddito molto importante per le popolazioni locali; tuttavia, soltanto una parte di queste risorse viene risparmiata e trasformata in investimenti per le imprese, complici il basso tasso di bancarizzazione e le inefficienze del sistema di intermediazione a livello locale.
La strutturale insufficienza di fondi e le difficoltà a mobilizzare le fonti di finanziamento disponibili verso investimenti di medio-lungotermine rappresentano un punto cruciale del sistema di finanziamento degli investimenti nei paesi del Mediterraneo, caratterizzato da evidenti carenze dei sistemi bancari e dal modesto spessore dei mercati finanziari locali.
Nella maggior parte dei paesi del Mediterraneo le banche dispongono di una abbondante liquidità, tuttavia il credito bancario finanzia in modo insufficiente l’economia ed è troppo poco orientato verso le PMI, le quali trovano difficile finanziarsi soprattutto a medio-lungo termine.
Il rapporto tra crediti bancari al settore privato e PIL nella media supera di poco il 50%, mentre nei paesi sviluppati supera di regola il 100% (raggiunge il 105/110% in paesi come l’Italia, la Francia, e la Germania, si attesta attorno al 200% in Spagna, Regno Unito e Stati Uniti): una parte consistente dei finanziamenti è assorbita dal settore pubblico, tra le imprese la quota maggioritaria è destinata a quelle di grandi dimensioni.
Le banche hanno una forte avversione al rischio, prestano quindi poco, a tassi elevati, per scadenze brevi e tendono a chiedere garanzie reali e personali eccessive (sistematicamente superiori al 100% del prestito), che le imprese, soprattutto le piccole, spesso non sono in grado di fornire. Dal lato delle imprese, peraltro, va segnalata la scarsa trasparenza dei bilanci, la presenza frequente di doppie contabilità, l’insufficiente adeguamento agli standard internazionali dei principi e dei controlli contabili.
Il livello di capitalizzazione delle banche, a prima vista, appare in linea con quello delle banche dei paesi più sviluppati, tuttavia riflette una situazione di bassa propensione agli impieghi; qualora esse volessero incrementare la loro attività di finanziamento soprattutto nei confronti delle PMI necessiterebbero di ingenti iniezioni di capitale.
Per completare il quadro del sistema bancario locale, è da rilevare il peso importante che il settore bancario pubblico ha tuttora in alcuni paesi, e sono proprio le banche del settore pubblico che presentano i più elevati livelli di sofferenze, essendo in queste banche la concessione del credito più condizionata da motivazioni di carattere politico e poco attenta alle esigenze delle imprese.
Alle inefficienze del sistema bancario si accompagna in genere uno sviluppo molto limitato dei mercati finanziari: l’assenza, con l’eccezione forse di Turchia, Israele e Giordania, di mercati borsistici sufficientemente liquidi e profondi (in termini di numero di società quotate e concentrazione della capitalizzazione) costituisce un ulteriore handicap per le imprese alla ricerca di fondi permanenti.
Allo stesso modo, sono poco sviluppati o quasi inesistenti i mercati obbligazionari soprattutto al servizio delle imprese; nella maggioranza dei paesi il mercato obbligazionario infatti è sostanzialmente un mercato di obbligazioni pubbliche (caso tipico è la Turchia).
Da rilevare infine uno sviluppo modesto di fondi di private equity specializzati nell’investimento sia nelle PMI sia nelle infrastrutture (con l’eccezione a quest’ultimo proposito del Fondo Inframed): in effetti negli anni più recenti sono nati nella zona del Mediterraneo parecchi fondi del genere che per dimensione e vocazione investono prevalentemente in progetti immobiliari o nel settore del turismo, escludendo a priori le PMI e le infrastrutture.
Alla luce delle considerazioni esposte si ritiene necessario e fondato su solide motivazioni il lancio di un nuovo organismo finanziario che possa contribuire a catalizzare gli sforzi e creare le condizioni per favorire lo sviluppo del bacino del Mediterraneo.
 
I precedenti della proposta di creazione di una Banca per lo sviluppo del Mediterraneo.
 
Una prima proposta di creazione di una Banca per lo sviluppo del Vicino Oriente, sostenuta dagli Stati Uniti, risale agli anni ‘90 e prevedeva il finanziamento di infrastrutture in Palestina, Israele, Giordania ed Egitto, associando tali paesi agli Stati Uniti nel capitale della Banca. Tale progetto non superò peraltro la fase di studio preliminare.
Inoltre il Consiglio dell’Unione Europea si è occupato della materia in due occasioni, nel 2002 (vedi le Conclusioni del Consiglio ECOFIN, 14 marzo 2002, DOC 7229/02) e nel 2006 (vedi la Comunicazione della Commissione europea al Consiglio, Revisione della FEMIP ed opzioni per il futuro: COM(2006)592, 17 ottobre 2006).
Nel 2002, in particolare, veniva creata in seno alla BEI la FEMIP, Facility for Euro-Mediterranean Investment and Partnership. Nella stessa occasione il Consiglio prevedeva peraltro che “dopo la valutazione del funzionamento della Facility” sarebbe stato opportuno “procedere alla creazione di una società a partecipazione maggioritaria della BEI, destinata ai Paesi partnerdel bacino mediterraneo”.
Di questo si occupò la Commissione nell’ottobre del 2006. Lo schema proposto dalla Commissione prevedeva che la BEI apportasse il portafoglio crediti e le attività della FEMIP ad una nuova banca euro-mediterranea, nella quale la BEI avrebbe avuto una quota del 60% ed il restante capitale sarebbe stato suddiviso tra l’Unione europea (10%), gli Stati membri (15%) ed i paesi partner del Mediterraneo (15%). La creazione di una società ad hoc rispetto alla semplice Facility avrebbe avuto il vantaggio appunto di consentire l’associazione dei paesi del Mediterraneo all’azionariato ed al processo decisionale.
La proposta della Commissione non ebbe tuttavia seguito a causa delle difficoltà soprattutto politiche per la realizzazione: l’assunzione di una partecipazione da parte della BEI in cambio dell’apporto della FEMIP avrebbe infatti in quel momento comportato la modifica dello statuto della BEI stessa da realizzare mediante modifica del Trattato CE, ad opera di una conferenza intergovernativa, con necessità di successiva ratifica da parte di tutti gli Stati membri.
Tale difficoltà è oggi superata dal Trattato di Lisbona che autorizza, tra l’altro, la BEI a creare società e ciò rende senza dubbio più agevole la realizzazione del progetto.
E’ da segnalare inoltre che a favore della creazione di una Banca per lo sviluppo dedicata al Mediterraneo si è pronunciata in più occasioni, con risoluzioni adottate il 24 novembre 2007 a Malta ed il 14 novembre 2008 a Monaco, l’Assemblea parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo (AP-UpM), l’organismo che raggruppa membri del Parlamento europeo, dei parlamenti dei 27 Stati membri dell’UE e di altri 16 paesi dell’area del Mediterraneo (inclusa la Mauritania).
Una delle commissioni, quella economica, istituita in seno all’AP, nel novembre 2009 ha a tal fine deciso di istituire un gruppo di lavoro tecnico incaricato di approfondire ulteriormente la trasformazione della FEMIP in banca. Coordinatore di questo gruppo è stato nominato per l’Italia, insieme al rappresentante della Tunisia, l’on. Sergio D’Antoni.
Nel frattempo, nei primi mesi del 2010 una apposita Commissione di esperti finanziari internazionali presieduta da M. Charles Milhaud, ex presidente del direttorio della Caisse Centrale des Caisses d’Epargne, su specifica richiesta del presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, ha predisposto un “Rapporto sul finanziamento del co-sviluppo nel Mediterraneo” nel quale la trasformazione della FEMIP in Banca e l’apertura del suo capitale ai paesi del Mediterraneo e ad altri investitori viene indicata come la via più efficiente per dotare l’area in tempi ragionevoli di uno strumento specialistico di finanziamento.
Tale Rapporto costituisce, allo stato, lo studio più esauriente ed approfondito sull’argomento ed è stato, tra l’altro, presentato ed illustrato dallo stesso Charles Milhaud alla VII sessione plenaria dell’AP-UpM che ha tenuto i suoi lavori a il 3-4 marzo 2011 sotto la presidenza di turno del parlamento Italiano.
Da quanto sopra emerge quindi come l’idea oggetto della presente relazione sia ormai un’idea matura, per la quale alla luce anche del processo innescato dalla “Primavera araba” si renda necessario passare alla fase realizzativa.
L’organizzazione di una Conferenza finanziaria, così come prevista nell’Appello del CIME, con la partecipazione di operatori finanziari ed investitori istituzionali internazionali, pubblici e privati, potrebbe essere l’occasione per fare il punto della situazione ed avere un quadro delle risorse mobilizzabili a favore dei paesi dell’area, a cominciare da quelli più bisognosi, attualmente nel pieno della transizione verso la democrazia.
 
Il modello FEMIP: Facility for Euro-Mediterranean Investment and Partnership.
 
FEMIP è la struttura attraverso la quale la BEI interviene, con un’ampia gamma di servizi, nei paesi della sponda sud del Mediterraneo (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Territori Palestinesi, Tunisia) per sostenerne lo sviluppo economico e sociale e favorire l’integrazione regionale. Operativa dal 2002, è un soggetto chiave della partnership finanziaria tra Europa e Mediterraneo, che ha investito nell’area oltre 12 miliardi di euro tra ottobre 2002 e dicembre 2010, riuscendo a mobilizzare ulteriori 30 miliardi di euro di risorse ad opera di istituzioni finanziarie internazionali e del settore privato.
In linea con la Politica europea di vicinato e l’Unione per il Mediterraneo, FEMIP persegue l’obiettivo di favorire la modernizzazione e l’apertura delle economie dei paesi partner, attraverso investimenti volti a rafforzare il settore privato, e le PMI in particolare, nonché a creare l’ambiente favorevole allo sviluppo economico, migliorando le infrastrutturedi base nel campo dell’energia, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’ambiente e del capitale umano e sociale.
FEMIP sostiene, tra l’altro, con il proprio intervento i progetti prioritari dell’UpM: il disinquinamento del Mediterraneo (approvvigionamento idrico, trattamento delle acque reflue), il piano solare mediterraneo (energie rinnovabili), la costruzione di autostrade marittime (piattaforme logistiche) e terrestri, lo sviluppo urbano.
Le modalità attraverso cui la FEMIP interviene sono: la concessione di linee di credito (a medio-lungo termine, di importo inferiore a 20/25 milioni di euro) a partner finanziari locali, i quali a loro volta finanziano le PMI loro clienti; la concessione di prestiti individuali (a medio-lungo termine, di importo superiore a 25 milioni di euro) a soggetti privati e pubblici per la realizzazione di infrastrutture; gli interventi di private equity per favorire la creazione o il rafforzamento della base di capitale di imprese produttive locali specialmente se in joint venture con imprese europee (attraverso interventi diretti nel capitale delle imprese, in fondi di investimento, in istituzioni finanziarie di microcredito); la concessione di garanzie, per stimolare il mercato dei capitali locale e mobilizzare risorse finanziarie aggiuntive; l’assistenza tecnica ai propri partner finanziari e clienti.
L’assistenza tecnica è uno strumento chiave per migliorare la qualità dell’attività di finanziamento (preparazione, implementazione e supervisione dei progetti) ed il suo impatto sullo sviluppo economico. A tal fine FEMIP si avvale anche di un Trust Fund, alimentato con contributi a fondo perduto da parte di 15 paesi UE e della Commissione, il cui obiettivo principale è lo sviluppo del settore privato nei paesi partnerdel Mediterraneo. Nell’ambito di tale finalità esso ha anche assunto partecipazioni in tre fondi di private equity della regione, di cui uno — il Middle East Venture Capital Fund — rappresenta il primo esempio di fondo della specie basato sui Territori palestinesi.
Il FEMIP Trust Fund ha, tra l’altro, finanziato lo Studio di fattibilità per la creazione del Centro di sviluppo Euro-Mediterraneo per le micro, piccole e medie imprese, approvato dai ministri delle Finanze dei paesi euro-mediterranei in occasione della riunione ministeriale congiunta della FEMIP e dell’ECOFIN dedicata all’UpM, tenutasi a Bruxelles nel maggio 2010. Il centro Euro-Med, con sede a Milano, è un’iniziativa che nasce con il sostegno della Commissione europea e della BEI, in collegamento con il segretariato dell’UpM in Barcellona e in collaborazione con la Camera di commercio di Milano.
Alla luce delle finalità perseguite, delle modalità operative e dei positivi risultati raggiunti FEMIP può essere un valido modello a cui ispirarsi o da cui partire per creare la Banca per lo sviluppo del Mediterraneo.
 
Quale Banca per lo sviluppo del Mediterraneo.
 
La Banca per lo sviluppo del Mediterraneo di cui si prefigura la costituzione dovrebbe essere una istituzione finanziaria dotata di una elevata solidità, preposta ad operare in modo specifico nella zona UpM, capace di coalizzare l’attenzione e la fiducia degli investitori verso questa regione e contribuire allo sviluppo del settore privato, alla dotazione di infrastrutture e all’attivazione dei mercati finanziari locali.
Condizione indispensabile, tuttavia, affinché l’iniziativa possa avere successo e dare risposte adeguate alle carenze del sistema di finanziamento della regione è la stabilità monetaria e del quadro macroeconomico, fronte sul quale passi in avanti notevoli sono stati compiuti, anche se è ancora vivo il ricordo di tassi d’inflazione a due cifre e pesanti deficit di bilancio. Altra condizione necessaria è la messa in opera di un quadro istituzionale e di un modello di governance economicafavorevoli all’iniziativa privata.
In tale quadro la Banca dovrebbe essere uno strumento complementare nell’offerta di servizi poco o male assicurati da altre istituzioni e non costituire un doppione di istituzioni esistenti; in particolare, dovrebbe svolgere nei confronti di queste un ruolo di federatore e di coordinamento, come previsto dal Rapporto Camdessus (EIB’s External Mandate 2007-2013 Mid-term Review, Report and Recommendations of the Steering Committee of Wise Persons, febbraio 2010).
Infine, essa dovrebbe svolgere un ruolo sussidiario nei confronti del settore privato e non sostituirsi a questo, bensì intervenire in suo appoggio offrendo tipologie di finanziamento e strumenti non disponibili sui mercati locali.
L’investimento in questa iniziativa potrebbe avere un effetto di leva considerevole sul finanziamento e lo sviluppo delle imprese e sbloccare il finanziamento di numerosi progetti, contribuendo a creare maggiori opportunità anche per le industrie europee.
Inoltre, associando direttamente al capitale della Banca i paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo e facendo ricorso in misura rilevante per la direzione e gestione dell’attività a personale e quadri di tali paesi, si favorirebbe la diffusione dell’expertise e il trasferimento del know how, conformemente ai principi del co-sviluppo.
 
Modalità di costituzione: societarizzare la FEMIP.
 
La Banca potrebbe essere costituita ex-novo oppure essere frutto di una riorganizzazione dell’esistente.
La costituzione ex-novo tuttavia sarebbe più costosa in termini di capitale da apportare e spese di avviamento da sostenere, aspetto particolarmente importante in un momento di crisi come quello attuale; inoltre richiederebbe tempi lunghi prima del raggiungimento di livelli di operatività soddisfacenti.
La soluzione più semplice, efficace e meno costosa, come suggerito dalla Commissione Milhaud, sarebbe invece quella di raggruppare in una società dedicata l’attività svolta nel Mediterraneo dalla BEI. Più precisamente, la BEI potrebbe conferire in tale società le strutture e le funzionalità che al suo interno sono attualmente preposte ad intervenire nei nove paesi della zona FEMIP; l’operatività della nuova Banca potrebbe poi essere estesa alla Libia, alla Mauritania (attuale membro dell’UpM) ed eventualmente ai paesi dell’area dei Balcani di cui non fosse previsto l’ingresso nell’UE.
La BEI potrebbe continuare a detenere sul proprio bilancio i finanziamenti e gli altri attivi in essere verso questi paesi, in quanto assorbirebbero capitale ed il loro apporto quindi comporterebbe di dover dotare la nuova società di un capitale più elevato, il che aumenterebbe il peso della BEI stessa nel capitale e renderebbe più onerosa l’assunzione di quote significative da parte degli altri investitori interessati.
La BEI, quindi, non interverrebbe più direttamente nella regione FEMIP, ma soltanto attraverso la nuova Banca, mentre potrebbe continuare a svolgere direttamente la propria attività nei confronti dei paesi dei Balcani e della Turchia, in via di adesione all’Unione europea in un futuro più o meno prossimo.
Per radicarsi nella regione e meglio cogliere i bisogni delle popolazioni la Banca dovrebbe aprire uffici e assumere personale in ciascuno dei paesi beneficiari dei suoi interventi.
Sarebbe opportuno, inoltre, come già indicato dalla Commissione Camdessus, peraltro con riferimento all’intera attività estera della BEI, che la Commissione europea delegasse alla nuova Banca la gestione di parte almeno dei fondi comunitari destinati a questi paesi, al fine di consentire alla Banca di affiancare all’attività di finanziamento propria della banca di sviluppo anche l’attività di assistenza tecnica, formazione e intervento in progetti di interesse generale, non direttamente finalizzati al conseguimento di un profitto.
Sulla proposta di societarizzare la FEMIP si sono, tra l’altro, già espressi a favore il Parlamento europeo con due risoluzioni (15 marzo 2007 e 19 febbraio 2009) e la Camera dei deputati Italiana con un atto di indirizzo del 12 maggio 2010.
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la realizzazione della proposta, fatta propria dallo stesso Presidente della BEI, Philippe Maystadt, richiederebbe l’approvazione unanime del Consiglio dei governatori della BEI, mentre in precedenza avrebbe comportato la modifica del Trattato.
Negli ultimi mesi, sotto la spinta degli eventi, si è peraltro fatta avanti l’idea di utilizzare per intervenire nella regione mediterranea la BERS — la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la quale su richiesta dei leader del G8 riuniti a Deauville ha avviato la procedura per il cambiamento dello statuto al fine di estendere la propria area di intervento operativo ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa; essa sarebbe in grado di investire nell’area 2,5 miliardi di euro all’anno senza chiedere risorse agli azionisti e senza diminuire la propria capacità di intervento nei paesi dell’Europa orientale, attualmente pari a 9-10 miliardi di euro all’anno.
La BERS, tuttavia, ha un azionariato molto variegato, composto di 61 Paesi oltre all’Unione europea e alla BEI: di questi, 29 sono anche beneficiari dell’intervento finanziario, e sono i paesi dell’Europa centro-orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale verso cui è stata finora incentrata l’attività della Banca, anche se è previsto che tra breve essa cessi di intervenire nei Balcani e in Europa centrale, avendo questi paesi sostanzialmente completato il processo di transizione verso l’economia di mercato.
Alla luce dell’evoluzione descritta e sotto la pressione della grave crisi economica, due paesi della sponda sud del Mediterraneo, Egitto e Marocco, che già erano membri della BERS, hanno ora chiesto di essere ammessi a beneficiare dei suoi interventi, mentre altri due paesi, Tunisia e Giordania, hanno di recente richiesto di aderire al capitale ed essere contemporaneamente inclusi tra i beneficiari.
Se in momenti di emergenza democratica e crisi economica, grave come quella attuale, l’intervento della BERS, così come quello di altre banche di sviluppo e di tutti gli altri investitori, è sicuramente necessario e benvenuto, va tuttavia rilevato che una banca come la BERS, con il suo azionariato, la sua vocazione, la sua notazione di banca tipicamente europea od internazionale, non arriverebbe ad essere percepita dai paesi del Mediterraneo come una banca loro, dedicata in via specifica ai loro interessi, come invece potrebbe essere la banca di cui in questa sede si prefigura la costituzione, e parimenti non potrebbe essere dall’Europa considerata uno strumento funzionale ad una politica di sviluppo e di integrazione di un’area vitale per lo sviluppo dell’Europa stessa.
Per quanto riguardaisettori e linee di intervento, due sono i settori che nell’area mancano dei finanziamenti necessari: le PMI, a seguito in primo luogo dell’effetto di spiazzamento che esse subiscono ad opera degli Stati e degli enti pubblici, e le infrastrutture, per effetto essenzialmente dell’ampiezza dei bisogni.
Le aree di attività o mestieri, di cui la nuova istituzione finanziaria dovrebbe farsi carico sono pertanto i seguenti: il finanziamento a lungo termine dell’economia; il ricorso attivo allo strumento della garanzia; il sostegno e l’animazione dei mercati finanziari; l’assistenza tecnica e il trasferimento di ingegneria finanziaria alle banche locali; lo sviluppo di fondi di investimento innovativi.
Per quanto riguarda il fabbisogno di capitale, la Banca per lo sviluppo del Mediterraneo dovrebbe necessariamente puntare ad avere, come del resto tutte le principali istituzioni finanziarie multilaterali, un rating AAA, essendo questa la condizione indispensabile per avere accesso al mercato alle condizioni migliori pagate dagli operatori di standing più elevato e poter quindi praticare alla propria clientela un costo del denaro più contenuto.
L’ottenimento del rating AAA dovrebbe quindi essere il principio guida da tenere presente per determinare, alla luce dei criteri di valutazione comunemente adottati dalle rating agencies, la dotazione di capitale necessaria alla Banca per sviluppare una operatività annua di un certo rilievo, tenuto conto anche del tempo medio di rientro dei finanziamenti concessi.
Va ricordato che dopo la crisi finanziaria del 2008 le rating agencies hanno notevolmente appesantito le loro metodologie di valutazione delle istituzioni finanziarie.
I fattori cui le rating agencies prestano maggiore attenzione sono la distribuzione degli attivi tra crediti a Stati sovrani e crediti a privati, la concentrazione e diversificazione geografica dei rischi, l’affidabilità degli azionisti. In particolare, i paesi che dovrebbero rientrare nell’area di operatività della Banca sono considerati tra i più rischiosi (secondo Standard & Poors, in una scala da 1 a 10 sono inseriti in classe 8, con l’eccezione di Israele inserito in classe 4) e la rischiosità degli Stati condiziona anche quella dei privati.
Ora, considerata l’esposizione elevata al settore privato attraverso banche locali e la diversificazione geografica limitata (a differenza, ad esempio, della Banca mondiale, la quale per definizione opera in tutto il mondo), la Banca di cui si propone la creazione rispetto ad altre banche di sviluppo e rispetto alla BERS in particolare (che al riguardo funge da benchmark) dovrebbe caratterizzarsi per un livello di capitalizzazione e di liquidità relativamente maggiore ed una possibilità di ricorso al debito più contenuta.
La misura del capitale iniziale della Banca (da sottoscrivere e da versare) potrebbe essere stabilita guardando alla struttura di bilancio ed ai parametri finanziari, da un lato, della BERS e, dall’altro, della AfDB — la Banca africana di sviluppo, entrambe dotate di rating AAA, sebbene con caratteristiche di azionariato, area geografica e settori di intervento diversi.
I parametri cui fare riferimento sono sostanzialmente i seguenti: il gearing ratio, totale impieghi (prestiti, partecipazioni, garanzie) / capitale sottoscritto + riserve, in tutte le banche di sviluppo è uguale a 1; il rapporto capitale versato/capitale sottoscritto inizialmente dovrebbe essere prossimo al 30-40%, era il 30% quello della BERS al momento della costituzione; il rapporto NRBC (narrow risk-bearing capacity) / totale impieghi dovrebbe collocarsi tra il 70 e l’80% (la NRBC è il capitale utilizzabile in senso stretto e corrisponde al capitale versato + gli accantonamenti + le riserve); il rapporto LRBC (large risk-bearing capacity)/totale impieghi dovrebbe collocarsi tra il 140 e il 180% (la LRBC è il capitale utilizzabile in senso lato e corrisponde alla NRBC + il capitale callable da azionisti con rating AAA); il rapporto indebitamento/fondi propri, calcolato includendo nei fondi propri il capitale versato, le riserve e il capitale callable dagli azionisti AAA, pur in mancanza di indicazioni puntuali, potrebbe arrivare al 60-70%; così come il rapporto di liquidità, attività liquide/indebitamento, dovrebbe essere particolarmente elevato (70-80%), fino a coprire servizio del debito ed esborsi previsti su prestiti per 1-2 anni.
Per dotare la Banca di una struttura di capitale solida, il capitale iniziale sottoscritto potrebbe quindi essere dell’ordine di 15 miliardi di Euro, da versare per il 40%: tale ammontare consentirebbe di concedere fin dai primi anni di attività nuovi finanziamenti dell’ordine di 2 miliardi di euro all’anno, con durate tra 5 e 7,5 anni, vale a dire un volume di attività del tutto rispettabile e tale da dare un contributo significativo allo sviluppo dell’area.
Infine, fondamentale per la valutazione delle società di rating sarebbe la struttura della compagine azionaria. In particolare, come detto, le società di rating oltre che al capitale versato guardano anche al capitale richiamabile da soci aventi un rating AAA: sarebbe pertanto opportuno che almeno un 60% del capitale fosse sottoscritto da soci AAA.
La BEI potrebbe assumere una quota del 30-35%, considerato che essa ha appunto un rating AAA, oltre alla necessaria esperienza tecnica e finanziaria per gestire la Banca e i legami istituzionali con l’Unione europea. Altri soci di standing elevato potrebbero essere l’Unione europea stessa, la BERS, gli Stati europei che oggi sono datori di fondi ai paesi dell’area FEMIP e alcune istituzioni finanziarie pubbliche (es. Caisse des Dépôts, Cassa depositi e prestiti, KfW) che dispongono di un rating AAA.
La compagine sociale dovrebbe inoltre essere aperta ai paesi del sud e dell’est del Mediterraneo, che avrebbero così modo di sentire più vicina la nuova istituzione, ad altri paesi interessati allo sviluppo economico dell’area (es. i paesi del Golfo, la Cina, l’India) e ad altre banche di sviluppo (es. la Banca africana di sviluppo, la Banca islamica di sviluppo).
 
Modalità di finanziamento: emissione di sukuk bonds?
 
La Banca dovrebbe finanziarsi attraverso l’emissione di prestiti, soprattutto a medio lungo termine, sia sui mercati domestici sia su quelli internazionali. Poiché la sua operatività sarebbe prevalentemente espressa nelle valute dei vari paesi, essa dovrebbe sviluppare al suo interno una eccellente capacità di gestione delle varie tipologie di rischio ed in particolare del rischio di cambio.
L’emissione di prestiti obbligazionari su varie durate da parte di un emittente di primario standing non dovrebbe essere vista in concorrenza con le emissioni degli Stati sovrani locali, ma al contrario dovrebbe servire ad abituare gli investitori locali alle scadenze lunghe e quindi a creare condizioni favorevoli allo sviluppo dei mercati locali, a vantaggio quindi delle emissioni stesse del settore pubblico e di quello privato, come l’esperienza della BERS in alcuni paesi dell’est Europa insegna.
Considerata tuttavia la debolezza iniziale dei mercati finanziari locali, fonte di provvista importante per la Banca sarebbero i mercati internazionali, vale a dire gli investitori istituzionali ed i fondi sovrani.
La Banca potrebbe a tal fine sperimentare anche il ricorso a forme di finanziamento proprie degli usi e delle consuetudini dei paesi in cui si troverebbe ad operare ed a quelli cui si dovrebbe rivolgere per la provvista: ci riferiamo all’ampia gamma di strumenti della finanza islamica.
Tra questi potrebbero trovare spazio anche i sukuk bonds, tipologia di titoli emessi secondo i dettami della legge coranica (la Shariah), la quale prevede il divieto della Riba (interesse); titoli, quindi che hanno come sottostante beni reali e la cui remunerazione è costituita dai cash flow generati da tali beni.
Si tratta di un mercato in rapida ascesa: le emissioni ammontavano a 11 miliardi di dollari nel 2005, hanno superato i 51 miliardi di dollari nel 2010. A comprare questi titoli sono non soltanto investitori mussulmani, ma anche occidentali; principali emittenti sono stati finora la Malesia e i sei paesi membri del Gulf Cooperation Council (GCC); tuttavia, si sono affacciati a questo mercato, per ora sporadicamente, anche soggetti occidentali.
Nel 2007 fu la regione tedesca Sassonia-Anhalt ad effettuare un’emissione di sukuk bonds da 100 milioni di euro; nel 2009 anche la Banca mondiale, tramite la International Finance Corporation (IFC) ha emesso i suoi primi bonds della specie per 100 milioni di dollari ed è al momento intenzionata a ripetere l’esperienza.
 
Non solo credito, ma equity: l’esempio del Fondo InfraMed.
 
Lo sviluppo economico dell’area mediterranea necessita non solo di credito a breve, ma di credito a lungo termine e di equity. Alle origini della crisi finanziaria del 2007-2008, di cui oggi stiamo sopportando le conseguenze in termini di crisi economica, vi è stato certamente anche l’eccesso di credito non sempre finalizzato a sostenere gli investimenti, ma spesso in maniera eccessiva i consumi ed a volte anche la speculazione: di queste forme di credito nella maggior parte dei paesi cosiddetti sviluppati hanno beneficiato un po’ tutti i settori, fino allo scoppio delle “bolle” artificialmente create ed al conseguente precipitare dell’economia in una situazione di depressione. Occorre fare tesoro di questo insegnamento e non ripetere gli errori del passato.
Alla concessione del credito va abbinato l’intervento dei fondi di investimento, sia quelli specializzati ad intervenire nel capitale delle imprese per rafforzarne la struttura patrimoniale (fondi di private equity) sia quelli dedicati al finanziamento delle infrastrutture (infrastructure funds).
Gli investimenti in infrastrutture, in particolare, che costituiscono la leva principale in grado di innescare ed alimentare lo sviluppo, sono per loro natura caratterizzati da tempi di ritorno solitamente lunghi, a fronte però di livelli di rischio relativamente più contenuti rispetto ad esempio ai fondi di private equity e necessitano quindi di finanziatori con una visione di lungo periodo.
Un esempio di strumento appropriato a tal fine è InfraMed, il fondo di investimento di lungo termine in progetti infrastrutturali, creato nel 2010 su iniziativa della Caisse des Dépôts et Consignations(Francia), della Cassa depositi e prestiti (Italia), della EFG Hermes (Egitto), della Caisse de Dépôt et Gestion(Marocco) e della BEI. Questi cinque investitori hanno assicurato al fondo un apporto iniziale di 385 milioni di euro e si sono proposti di raccogliere ulteriori risorse da investitori di lungo termine fino a raggiungere una dotazione complessiva di un miliardo di euro.
InfraMed fa parte delle iniziative sorte nell’ambito dell’UpM e rappresenta al momento il maggiore veicolo di investimento dedicato alle infrastrutture nell’area del Mediterraneo. Il fondo si propone di concentrare i propri interventi nei seguenti settori: infrastrutturazione urbana, trasporti, telecomunicazioni, energia e ambiente. Rispetto ad altri equity infrastructure funds, InfraMed intende inoltre privilegiare i progetti greenfield, con una particolare attenzione allo sviluppo sostenibile.
Un primo intervento del fondo sarà proprio nel Piano solare mediterraneo, il progetto faro dell’UpM, che mira a sviluppare una capacità di produzione di energie rinnovabili per una potenza installata totale di 20 GW entro il 2020, di cui 5 GW da riesportare in Europa, attraverso nuove interconnessioni elettriche, quale ad esempio quella prevista tra Sicilia e Tunisia (progetto ELMED).
Si tratta, evidentemente, di un’ulteriore iniziativa in grado di recare benefici ad entrambe le sponde del Mediterraneo, che potrebbe svolgere un ruolo complementare a quello della Banca e arricchire il set di strumenti disponibili per favorire lo sviluppo e l’integrazione economica dell’area.
 
 
Documentazione utilizzata
 
Commission sur le financement du co-développement en Méditerranée (Commission présidée par M. Charles Milhaud), Rapport au Président de la République, maggio 2010.
Report and Recommendations of the Steering Committee of “Wise Persons” chaired by Michel Camdessus, European Investment Bank’s External Mandate 2007-2013, Mid term review, febbraio 2010.
Istituto Affari Internazionali, Bilancio e prospettive della cooperazione euro-mediterranea, A cura di Roberto Aliboni e Silvia Colombo, giugno 2010.
FEMISE — Forum Euro-Méditerranéen des Instituts de Sciences Economiques (Ahmed Galal et Jean-Louis Reiffers coordinateurs du FEMISE), Crise et voie de sortie de crise dans les pays partenaires méditerranéens de la FEMIP, novembre 2010.
Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Med Executives Briefings, Investimenti diretti esteri e piccole e medie imprese nel Maghreb: quali opportunità?, Milano, Palazzo Clerici, 1° dicembre 2010.
Milano Med Forum 2010, Atti del Forum Economico e Finanziario per il Mediterraneo, 12-13 luglio 2010.
Comunicazione congiunta della Commissione Europea e dell’Alto Rappresentante dell’Unione per la Politica Estera e di Sicurezza, A partnership for democracy and shared prosperity with the Southern Mediterranean — Brussels, 8.4.2011 COM (2011) 200.


* Si tratta del testo della relazione svolta a Cagliari da Bruno Mazzola nell’ambito della riunione dell’Ufficio del Dibattito dell’8-9 ottobre 2011.

 

 

 

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