Anno XXI, 1979, Numero 2, Pagina 159
Non si può affrontare la questione dello S.M.E. e del suo sviluppo sino al minimo indispensabile di programmazione europea senza tener presente l’evoluzione dell’economia nel quadro mondiale e soprattutto il suo aspetto più grave: la tendenza verso un sempre maggior disordine nel settore monetario e in quello delle materie prime. Alla base di questa tendenza sta l’indebolimento della leadership americana, che si è manifestata verso la fine degli anni Sessanta; e la conseguente incapacità degli U.S.A. di assicurare la convertibilità del dollaro con l’oro, e la stabilità monetaria occidentale. Questa, a sua volta, ha provocato la più radicale fluttuazione dei cambi della storia (nemmeno dopo la crisi del 1929 le monete chiave di allora, la sterlina e il dollaro, rinunciarono completamente alla parità aurea). Si tratta di un fatto di grande portata che non dovrebbe essere lasciato senza risposte teoriche e pratiche perché un mercato mondiale con eque ragioni di scambio è impensabile senza un sistema monetario internazionale adeguato.
In ogni caso, la fluttuazione generalizzata, la tensione sul mercato delle materie prime e, più in generale, nei rapporti economici tra paesi industrializzati e Terzo mondo hanno generato nuove forme di protezionismo che potrebbero diventare irreversibili in mancanza di provvedimenti tempestivi. Va notato che a ciò ha fatto seguito l’accentuazione degli squilibri fra paesi ricchi e paesi poveri. Chi ha poche risorse e poco potere contrattuale è destinato ad indietreggiare in un mondo in cui prevale la politica del «fare da sé». Abbiamo così avuto a livello mondiale il Quarto mondo, e a livello europeo l’Europa a due velocità.
I paesi più deboli della Comunità, come l’Italia e il Regno Unito, hanno perso in breve tempo tutti i vantaggi conseguiti nel periodo di stabilità economica e monetaria con l’integrazione europea e la liberalizzazione degli scambi. Va ricordato a questo riguardo che il reddito pro-capite italiano, che nel 1961 era il 52% di quello tedesco, è salito al 63% nel 1968, ed è caduto al 42% nel 1976. D’altra parte, i salari italiani, che erano nel 1961 pari al 65,4% di quelli tedeschi, ed erano saliti a ben l’82,7% nel 1968, sono poi ricaduti al 57,9% nel 1976. È evidente pertanto che la stabilità monetaria, anche in assenza di politiche comuni, ha favorito la riduzione degli squilibri, mentre la fluttuazione, a causa delle sue conseguenze sulla politica economica, li sta di nuovo aggravando. Questo fatto non dovrebbe stupire perché la stabilità monetaria equivale in effetti ad un grado sia pur minimo di programmazione economica.
Bisogna ora osservare che in Europa questa evoluzione si presenta con aspetti specifici perché non è in gioco soltanto l’accentuazione degli squilibri, ma addirittura la disgregazione del Mercato comune, e perciò anche il fallimento del tentativo di unire l’Europa. E va da sé che ciò impedirebbe per sempre di eliminare gli squilibri, e condannerebbe l’Europa ad uno stato permanente di subordinazione globale. Non sono solo i federalisti a dirlo. Il Cancelliere Schmidt ha affermato che senza la stabilità monetaria il Mercato comune si ridurrebbe entro cinque anni ad una «pura finzione».
Queste osservazioni mostrano che per superare la crisi non basta modificare qualche aspetto della politica economica del proprio paese, ma occorre una vera e propria inversione di tendenza mondiale, che deve essere però perseguita anche sul piano politico perché non è possibile senza un effettivo cambiamento della situazione mondiale di potere. La cosa è evidente per gli sviluppi del dialogo Nord-Sud. La politica dei blocchi ha emarginato il Terzo mondo, e la distensione fondata esclusivamente sulla convergenza degli interessi delle superpotenze è servita in effetti, almeno in parte, a mascherare nuove forme di dominio. Per questa ragione non si può avanzare verso un nuovo ordine economico mondiale senza il contributo dell’Europa. Solo se si supera il vecchio assetto bipolare — messo ormai in crisi dalla Cina — e si rafforza il ruolo dei paesi non allineati allo scopo di garantire l’indipendenza idei paesi del Terzo mondo con pochi mezzi militari, è possibile lo sviluppo pacifico delle forze nuove dell’emancipazione e del progresso.
L’unità europea è dunque necessaria per un nuovo corso degli affari mondiali. Ma l’unità europea non è possibile fino a che prevalgono politiche economiche divergenti nei paesi della Comunità; e ciò che va tenuto presente è che la divergenza, prima di essere una scelta, è il sottoprodotto inevitabile della contraddizione tra l’insufficiente sviluppo delle istituzioni della Comunità (che non consente la convergenza delle politiche economiche) e lo sviluppo avanzato dell’integrazione (che rende inefficace e/o fuorviante il controllo dell’economia a livello nazionale). In Europa il problema non è dunque solo politico, ma politico-istituzionale. Bisogna pertanto identificare il minimo politico-istituzionale necessario per assicurare la convergenza delle economie dei paesi membri della Comunità.
Secondo i federalisti, e non solo secondo i federalisti, questo livello minimo è costituito da:
1) la moneta europea (la politica economica europea indispensabile per la convergenza delle politiche nazionali è impossibile, a medio e a lungo termine, con nove sovranità monetarie nazionali);
2) un bilancio comunitario adeguato, senza del quale le politiche comunitarie risulterebbero sempre inefficaci. Il rapporto del gruppo di studio presieduto da McDougall ha stabilito che sarebbe necessario un bilancio non inferiore al 2,5% del prodotto lordo europeo. A conclusioni simili è giunta anche la Commissione della C.E.E. che ha riconosciuto che il bilancio attuale (pari allo 0,8% del prodotto europeo) è insufficiente sia per il controllo della situazione economica a breve termine, sia per una redistribuzione delle risorse adeguata alle situazioni economiche dei paesi membri;
3) un sistema di governo della Comunità efficace, e collegato alle scelte degli elettori mediante il Parlamento eletto direttamente. I poteri attuali del Parlamento europeo (di bilancio, di censura e di indirizzo politico) sono inadeguati ma tuttavia sufficienti sia per battersi per la loro estensione, sia per avviare il processo di unione economico-monetaria.
Rispetto a questi obiettivi lo S.M.E. costituisce di fatto (ma le scelte si fanno sempre nei confronti delle situazioni di fatto) un punto di partenza obbligato. Vale, a questo riguardo, la seguente considerazione. Il problema concreto sta nel dirigere forze europee maggioritarie verso la realizzazione graduale di questi obiettivi. Orbene, con lo S.M.E., che impegna forze maggioritarie in Germania, Belgio, Olanda — e forze che possono diventare maggioritarie nel corso della lotta in Francia e nel Regno Unito — il compito è possibile. Senza lo S.M.E., invece, non sarebbe nemmeno possibile promuovere una inversione di tendenza, con conseguenze che potrebbero diventare presto fatali.