Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 129
CORREZIONE DEGLI SQUILIBRI REGIONALI
IN UN AMBITO EUROPEO*
L’integrazione europea, fattore di sviluppo.
A vent’anni dalla sua costituzione la Comunità economica europea ha compiuto molta strada. Alcune integrazioni economico-finanziarie che vent’anni fa sembravano utopia oggi sono realizzate. L’aumento degli scambi che ne è derivato, di gran lunga superiore a quello verificatosi in altre aree, ha favorito il benessere di tutti e con esso la democrazia.
Sul piano politico ed internazionale, la singola fragilità degli Stati nazionali sta progressivamente lasciando il posto ad un più determinato discorso corale, indispensabile a far sentire la propria voce nel momento in cui la politica internazionale si sta trasformando da rapporti tra Stati a rapporti tra «aree».
Sotto l’aspetto sociale, anche se permangono notevoli differenze, i cittadini dei nove paesi che formano la Comunità si somigliano di più, sono un po’ più europei e un po’ meno tedeschi francesi o italiani.
Oggi però, con il prossimo ingresso nella Comunità di tre paesi arretrati, se misurati con il metro CEE, ulteriori sviluppi nel processo di integrazione, e quindi di progresso generalizzato, potranno essere realizzati solo se verrà colmato il divario che esiste tra zone ricche e zone povere della Comunità.
I cittadini poveri, elettori al pari di quelli ricchi, ben difficilmente accetteranno di essere tenuti ai margini del benessere e reagiranno, o in modo politico, provocando lo scollamento della Comunità, o in modo sociale, innescando processi destabilizzanti.
Poiché l’integrazione fin qui realizzata si è risolta in favore di tutti i paesi della Comunità, l’eliminazione delle cause che all’interno dei singoli Stati possono distruggerla non è più un solo problema nazionale ma un problema di interesse comunitario.
Origini del dualismo Nord-Sud.
Per quanto riguarda l’Italia in particolare, le origini del dualismo economico tra Nord e Sud vanno poste ben oltre il 1861 quando, con l’unificazione, veniva tolta all’economia meridionale la protezione offerta dalle barriere doganali. All’atto dell’unificazione il valore per ha. della produzione agricola a prezzi 1961, era di 75.000 lire in Lombardia, 53.000 in Toscana, 26.000 in Sicilia e 7.000 in Sardegna. È opinione diffusa che il mancato adeguamento economico del Sud al Nord sia dipeso essenzialmente dalle caratteristiche fisiche del terreno e dalla sua posizione eccentrica rispetto alle aree economiche «centrali», localizzate al di là delle Alpi, in cui si andava innescando un rapido processo di sviluppo industriale che si sarebbe diffuso poi nelle vicine regioni dell’Italia settentrionale, Piemonte, Liguria e Lombardia.
Probabilmente, più che il crollo delle barriere doganali, fu determinante per l’approfondimento del divario il 1887 quando il protezionismo di cui godevano le industrie settentrionali fu esteso al settore agricolo con il dazio sul grano. La brusca rottura delle relazioni commerciali con la Francia che ne derivò, se da un lato favorì la produzione nazionale di frumento, dall’altro determinò il crollo nelle esportazioni dei prodotti agricoli specializzati di tutte le piccole aziende agricole meridionali ed il loro tracollo.
È in quegli anni che ha inizio il forte fenomeno migratorio verso l’estero che raggiunse il suo acme nel primo decennio del secolo.
Successivamente, la necessità di rafforzare e difendere quella che era ormai l’industria nazionale localizzata al Nord, le risorse impiegate prevalentemente in guerre e spedizioni coloniali e le distruzioni che ne seguirono, l’alleanza di fatto sotto il regime fascista tra industria del nord e latifondo nel Sud, una assurda politica di espansione demografica, congiunta a provvedimenti di restrizione sulle migrazioni interne, e la crisi economica del ‘29/‘34, hanno approfondito nei primi 50 anni del nostro secolo il divario sociale, oltre che economico, tra Nord e Sud.
Agli inizi degli anni ‘50, appena terminata la ricostruzione, si apriva per l’economia italiana un periodo di espansione e trasformazione senza precedenti. Ma le due aree in cui ormai era storicamente diviso il paese, il Centro-Nord ed il Mezzogiorno, avevano esigenze diverse. Il Nord doveva sfruttare le potenzialità di espansione offerte dalla precedente accumulazione e dalla favorevole congiuntura, il Sud, al contrario, doveva procedere ad un’accumulazione che era incompiuta e insufficiente.
Il Mezzogiorno si basava su di un’economia prevalentemente rurale e per di più povera, gli occupati in agricoltura rappresentavano il 57% dell’occupazione totale, ed i tassi d’attività della popolazione, 42,2%, erano già allora più bassi di quelli del Centro-Nord, 50,1%. Le industrie, scarse e localizzate prevalentemente nei centri urbani, risentivano del generale clima «rurale» della compagine sociale, e non erano in grado di procedere ad un autonomo processo di sviluppo che avrebbe quindi dovuto basarsi su apporti provenienti dall’esterno dell’area.
L’intervento straordinario dello Stato.
In quegli anni fu affrontato in modo corretto e nuovo il problema del meridione, per la prima volta il Sud fu visto non più come una realtà da assistere in modo generico, ma come una zona complementare al Centro-Nord, in cui avrebbe dovuto essere localizzata una parte consistente della prevedibile crescita industriale, se si voleva evitare il consolidarsi del divario tra le due zone del paese, e forse la impossibilità, successivamente, di eliminarlo.
Si decise pertanto di affrontare il problema con un intervento pubblico straordinario, addizionale a quello svolto dall’amministrazione ordinaria, la cui azione si sarebbe dovuta svolgere coordinatamente in più campi, e dotato di propri strumenti finanziari che, se razionalmente distribuiti, sarebbero stati capaci di attrarre l’iniziativa privata.
Il braccio operativo di questa politica fu l’istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno che introduceva, almeno nelle intenzioni, nell’ordinamento amministrativo italiano un rilevante fattore di dinamismo.
È importante sottolineare come la Cassa avrebbe dovuto essere, tra l’altro, uno strumento per l’ottenimento dei prestiti internazionali; la costituzione infatti di un elemento autonomo, modellato sulla Tennessee Valley Authority, avrebbe facilitato il finanziamento da parte della BIRS di un programma di investimenti pubblici nel Mezzogiorno, coprendo il fabbisogno addizionale d’importazioni determinato dall’esecuzione dei programmi.
Luci ed ombre.
A trenta anni di distanza, con il 31 dicembre 1980, scade la legge per l’intervento straordinario dello Stato nel Meridione e, con essa, la Cassa per il Mezzogiorno.
In questo periodo il Mezzogiorno ha realizzato indubbi progressi, passando da un’economia agricola ad una in fase di decollo. Il divario con la restante parte del Paese non si è colmato, ma non si è nemmeno ampliato, anzi si è ridotto.
Il tasso medio di accumulazione registrato nel Mezzogiorno nel periodo 1970-1977 è il più elevato tra quelli riscontrabili in Europa e nella stessa Germania, 26,9% contro 23,0%. La produzione agricola è cresciuta nel periodo 1951-1978 ad un saggio medio del 2,25%, che è considerato nel lungo periodo tra i più alti che può raggiungere l’agricoltura.
L’industria, anche se nel complesso contribuisce poco nella formazione del reddito meridionale, «tira» e si sviluppa ad un tasso piuttosto sostenuto, 3%, doppio di quello medio nazionale. Il consumo di energia elettrica ad uso industriale, indice indiretto di produttività estremamente significativo data la carenza delle rilevazioni dirette, è cresciuto nel periodo 1970-1977, al netto dei consumi della industria chimica e siderurgica, ad un ritmo molto più elevato che nel resto del paese, 9,6% contro il 4% dell’Italia ed il 2,5% del Nord. Nel 1970 il Sud pesava in termini di consumi elettrici industriali il 13,5%, oggi è al 19,4%.
Nel periodo 1951-1963 gli investimenti nel Sud in beni reali hanno superato l’ammontare del risparmio interno maggiorato dei trasferimenti netti in conto capitale. Si è quindi verificato un disavanzo finanziario netto pari all’1,6% del reddito disponibile. Al contrario, negli anni dal 1961-1972 il settore privato è stato in grado di conseguire una formazione netta di risparmio finanziario pari a 3.633 miliardi. Ciò significa che, mentre nel primo periodo la notevole domanda di investimenti e lo stato d’arretratezza del Sud rendevano necessarie massicce iniezioni di finanziamenti dall’esterno, nel secondo periodo l’innalzamento degli standard medi di vita ha reso disponibile una notevole eccedenza finanziaria.
Malgrado gli innegabili progressi che si sono realizzati, anche se parziali e non sufficienti, non va dimenticato che in 25 anni sono emigrate 4,5 milioni di persone, che il Sud ha pagato in termini di sviluppo, e per la seconda volta in cento anni, le conseguenze di una scelta obbligata per l’Italia; l’inserimento in un mercato internazionale e la liberalizzazione degli scambi derivanti dall’adesione alla Comunità economica europea, anche questa all’origine frutto dell’intesa tra industria tedesca e agricoltura francese.
L’adesione ad un sistema internazionale ed il conseguente incremento degli scambi che ne è derivato, se da un lato si è rilevata positiva per il «sistema Italia», consentendole di rafforzare ed integrare il suo apparato produttivo con le aree più progredite europee, dall’altra, in assenza di un potere politico centrale sovranazionale in grado di operare trasferimenti per correggere gli squilibri zonali generati da quel processo di sviluppo accelerato, è stata pagata dal Sud.
Infatti, malgrado un tutto sommato forte impegno meridionalista dello Stato, che ha effettuato massicci trasferimenti di risorse al fine di promuovere una serie di interventi di politica economica e sociale volti al riequilibrio dell’area meridionale, i risultati non sono stati proporzionali all’impegno profuso e lo squilibrio, anche se mitigato, non è stato colmato stante l’inadeguatezza dello sforzo profuso, spesso al limite della compatibilità del sistema nazionale, rispetto all’obiettivo la cui dimensione richiede una concentrazione di risorse più ingenti di quelle attivabili da un singolo Stato nazionale.
La Cassa per il Mezzogiorno.
Gli interventi per il sostegno ed il rilancio dell’economia meridionale si sono articolati sostanzialmente in tre momenti: 1) un momento infrastrutturale, con cui si sono realizzate quelle opere pubbliche e sociali indispensabili per rimuovere le cause strutturali del sottosviluppo; 2) un momento industriale, realizzato soprattutto attraverso la concessione di crediti agevolati, che avrebbe dovuto determinare l’autosostentamento del Sud attraverso il riassorbimento della forza lavoro occupata nella costruzione delle infrastrutture e nei settori eccedentari, agricolo soprattutto; 3) i due momenti, infrastrutturale ed industriale, sono stati saldati assieme da un terzo momento, «assistenziale», con cui lo Stato, attraverso la redistribuzione geografica dei redditi, ha assicurato un certo potere d’acquisto alla popolazione meridionale, in attesa che gli apporti congiunti dei primi due momenti assicurassero una autonoma formazione di reddito.
Per quanto riguarda in particolare la Cassa per il Mezzogiorno, essa ha gestito prevalentemente la fase infrastrutturale anche se, a partire dal 1957, le sono state assegnate competenze nel settore industriale, limitate però principalmente alla costituzione e promozione delle aree d’industrializzazione. Sostanzialmente terminata la fase infrastrutturale, la Cassa ha avuto qualche difficoltà a trovare nuovi campi d’intervento, visto che il momento industriale era prevalentemente gestito o dagli Istituti di credito speciale, alcuni creati appositamente, tramite il meccanismo del credito agevolato, o con l’intervento diretto dello Stato attraverso le imprese a capitale pubblico. Si è ritrovata pertanto a gestire prevalentemente una parte del momento assistenziale con il finanziamento di lavori infrastrutturali, non sempre necessari, ma che comunque contribuivano a mantenere un certo grado di occupazione. Un tentativo di ricercare nuovi campi d’attività, effettuato con i «progetti speciali» nei primi anni ‘70, si è praticamente bloccato sia per il rallentato ritmo di crescita dell’economia internazionale e nazionale, che ha ridotto le risorse disponibili rispetto a quelle degli anni ‘60, e sia per un progressivo irrigidimento delle capacità operative della Cassa sempre più oberata da compiti amministrativi e di gestione. L’80% dell’attività della Cassa è tuttora volto alla gestione di circa 50 mila opere già completate e di altre 38 mila in via di completamento, la cui competenza spetterebbe alle regioni, che non sono in grado di assumerla.
I limiti dello sviluppo.
La fase industriale, pur contribuendo in modo determinante allo sviluppo del Mezzogiorno, così da avvicinare i ritmi di crescita di quest’area a quelli nazionali, ha rivelato pur tuttavia dei limiti nell’esplicare tutti i suoi effetti in termini di occupazione e di reddito, non consentendo l’affrancamento dell’economia meridionale dal momento assistenziale. I limiti sono da riscontrarsi essenzialmente, anche se con la recente legge 183 si è ovviato ad alcuni di questi: 1) nell’assenza di una strategia globale di sviluppo a livello nazionale e regionale; 2) nella mancanza di coordinamento degli interventi straordinari nel Mezzogiorno, tra loro stessi e con i programmi ordinari delle Amministrazioni centrali; 3) nell’inefficienza degli incentivi all’industrializzazione, limitati al finanziamento dei soli costi d’impianto, ed alla concessione di analoghe agevolazioni alle imprese ubicate nelle regioni più sviluppate; 4) nell’impiego tutto sommato limitato di risorse, anche se spesso al limite della sopportabilità: 20 miliardi di dollari in 20 anni, pari all’1% del reddito nazionale prodotto nel periodo; 5) nella scelta dei settori produttivi, ad alta intensità di capitale e basso grado di occupazione e di indotto, determinata dall’esigenza, a partire dalla seconda metà degli anni ‘60, di reagire all’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto sostituendo capitale a lavoro. Il fenomeno è stato accentuato dalle forme di incentivazione previste per il Sud, esclusivamente finanziarie e proporzionali all’entità dell’investimento, che hanno generato forme di intervento ad alta intensità di capitale su cui era possibile lucrare le più alte incentivazioni.
Un ulteriore limite, non inferiore ai precedenti, e che non sempre viene valutato nel giusto peso, sta soprattutto nell’inquadramento dello sviluppo in un’ottica prettamente nazionale senza molta considerazione per il quadro internazionale, ed europeo in particolare, in cui ormai l’economia nazionale era inserita, e ciò malgrado che tali industrie manifestamente puntassero ad un mercato internazionale per il collocamento dei loro prodotti.
Ne sono derivate difficoltà nella ricerca dei mercati di sbocco, che hanno provocato, con la ridotta utilizzazione degli impianti, l’antieconomicità degli stessi e la conseguente necessità di continuare il momento assistenziale per il mantenimento dell’occupazione e dei livelli di reddito e, fenomeno più grave, una battuta d’arresto in quel processo di avvicinamento dell’autosostentamento del meridione la cui premessa era costituita dal momento infrastrutturale.
Il Meridione problema europeo.
Il momento assistenziale protrattosi nel tempo, e la politica di welfare state che lo sottintendeva, è stato reso possibile dalla crescita opulenta registrata dalle economie occidentali ed italiana negli anni ‘60, e dal convincimento che bastasse agire dal lato della domanda per provocare uno sviluppo più sostenuto e diversamente strutturato della produzione. Negli anni ‘70 le condizioni sono mutate e questo tipo di politica non è più possibile, sia perché il diminuito ritmo di crescita rende più conflittuale il problema della redistribuzione dei redditi, e sia perché il processo evolutivo verificatosi nella società ha fatto sorgere istanze di autonomia e partecipazione che non consentono più di ridurre gli interventi al solo campo economico. Si tratta quindi per il nostro Mezzogiorno di innescare un processo di sviluppo basato su postulati diversi.
Prima di tutto una visione sovranazionale: il Mezzogiorno ormai non può più essere considerato un problema italiano, ma un problema europeo. In questo senso non va sottovalutato il fatto che il potere d’acquisto artificialmente mantenuto con il momento assistenziale viene utilizzato anche a favore dei prodotti europei. A ciò si aggiunga che, nel frattempo, una nuova sensibilità comunitaria sta ponendo come centrale il problema di una vera politica regionale che si prefigga come obiettivo il riallineamento delle regioni che compongono la Comunità attraverso la distribuzione delle risorse e la trasformazione delle strutture.
L’ingresso nella Comunità di tre nuovi Paesi «sottosviluppati», se misurati con il metro dell’Europa occidentale, trasforma la Comunità da una regione sviluppata, con qualche sacca di sottosviluppo, in una regione in cui il 35% della popolazione risiede in zone arretrate. In tale contesto il rapporto tra Europa e Mezzogiorno cambia, il Meridione non si presenta più come un problema a se stante, ma quale parte di un problema più generale che richiede la formulazione di una politica generale da parte della Comunità, con l’accentramento in un unico centro coordinatore di tutti i fondi comunitari che possano essere utilizzati al fine del riequilibrio zonale, il loro potenziamento, e la creazione di strumenti nuovi quali ad esempio un fondo per la disoccupazione ed un fondo per la fiscalizzazione degli oneri sociali.
L’europeizzazione del problema meridionale è resa più impellente dall’entrata in vigore del Sistema monetario europeo che ripropone il problema di una convergenza «reale» delle economie, accanto a quella monetaria, se non si vuole provocare il progressivo «sfasciamento» della Comunità. Infatti, un processo automatico di aggiustamento degli squilibri nei pagamenti esterni, in presenza di un progressivo irrigidimento del cambio, trasforma i problemi di bilancia dei pagamenti in problemi «regionali», acuendo le difficoltà di sviluppo delle aree deficitarie e provoca, a lungo andare, la tendenza di queste aree a proteggersi, isolandosi dal contesto economico in cui sono inserite, se non intervengono trasferimenti netti di risorse dalle aree più favorite. In questo contesto il Mezzogiorno rappresenta un test fondamentale per verificare le capacità dell’Europa di procedere ad una vera integrazione economica e politica, avviando a soluzione i problemi che si apriranno con l’ingresso nella Comunità di Grecia, Spagna e Portogallo.
C’è da tener presente che, in base alle risultanze del rapporto Mac Dougall, un’effettiva convergenza delle economie ed un riequilibrio zonale della Comunità sarebbe possibile con uno sforzo finanziario tutto sommato modesto consistente nell’aumento dallo 0,79% al 2,5% dell’incidenza del bilancio comunitario sul PNL dei Paesi comunitari.
Una seconda condizione per il riequilibrio del Mezzogiorno è l’inserimento del processo di sviluppo nel quadro della specializzazione internazionale del lavoro, il che significa il riconoscimento del Sud quale parte integrante dell’Europa, ed il conseguente rifiuto di una logica tendente a trasferire nel Sud le attività produttive «mature» più tradizionali, conformemente al processo in corso a livello internazionale, poiché, date le condizioni del mercato ed il costo del lavoro, il Mezzogiorno sarebbe saltato a favore di altre aree senza che sia possibile innescare il processo di autosostentamento.
Le potenzialità per innescare uno sviluppo accelerato ci sono, ed in una prospettiva europea il Mezzogiorno può rivelarsi una opportunità ed una risorsa anche nell’ottica dei gruppi industriali che si muovono in ambito internazionale. Infatti, anche questi gruppi non possono fare a meno di ricercare complementarietà tra le situazioni delle aree forti e quelle delle aree deboli.
Oggi la ricerca di tale complementarietà avviene spesso al di fuori dei confini europei, esponendosi spesso a rischi politici, economici e sociali molto elevati, mentre potrebbe essere ricercata nel Mezzogiorno d’Italia che offre condizioni particolarmente favorevoli: una vasta rete di infrastrutture e servizi per la produzione di livello elevato; un mercato di sbocco per la produzione composto da 20 milioni di persone con un buon livello di spesa e di qualificazione della domanda; una forza di lavoro potenziale composta da 8 milioni di attivi; le leggi, i regolamenti, i collegamenti, i comportamenti della Comunità, offre cioè una serie di garanzie difficilmente riscontrabili a migliaia di chilometri dall’Europa.
Europeizzazione degli strumenti di intervento.
In un quadro europeo di sviluppo del Mezzogiorno, problema che era stato posto al centro dell’impegno comunitario già dal trattato di Roma, gli strumenti d’intervento devono essere europei, in quanto solo una comunità sovranazionale può assicurare una mobilitazione di risorse e capacità tecnico-amministrative in grado di risolvere i problemi di riequilibrio per zone così vaste.
D’altra parte però è difficilmente ipotizzabile un massiccio impegno aggiuntivo della Comunità europea oltre a quello attuale (nel biennio 1979-80 l’Italia dovrebbe avere un saldo attivo nei confronti della Comunità di 1.840 miliardi di lire), senza che questa richieda di controllare in una certa misura la destinazione e la corretta utilizzazione dei fondi, e quindi dei sacrifici, che gli Stati più prosperi dovranno richiedere, non senza difficoltà, ai loro cittadini.
Sarebbe pertanto auspicabile la creazione di un vasto organismo finanziario europeo, volto al riequilibrio dell’intera Comunità, in cui far convergere, oltre alle risorse comunitarie e nazionali, anche le esperienze delle maggiori imprese ed organismi pubblici nazionali, tutti alle prese con gli stessi problemi di sviluppo regionale.
In tale ambito la Cassa per il Mezzogiorno, alleggerita dei pesanti compiti gestionali attuali, può ritrovare una funzione fondamentale, e configurarsi come l’agenzia tecnica nazionale per la elaborazione di progetti globali volti al riequilibrio del territorio, e quale organo di attivazione degli strumenti di intervento sia comunitari che nazionali, assicurandone cosi il coordinamento e la coerenza.
Sotto questo aspetto la Cassa potrebbe fornire un contributo di primaria importanza, tenuto conto che si tratta forse del più specializzato organismo di pianificazione territoriale a livello comunitario, e della somma di esperienze e capacità professionali che in esso si accentrano.
L’adeguato utilizzo delle capacità tecniche della Cassa, e delle sue capacità progettuali, è una condizione cruciale per risolvere i problemi di sviluppo del Mezzogiorno, soprattutto occupazionali, in quanto gli stessi sono strettamente connessi alla risoluzione della «questione urbana» che tende ad essere il nodo centrale del rilancio meridionale e dello stesso processo di industrializzazione.
Il problema dello sviluppo del Sud non risiede soltanto nell’entità delle risorse che vi vengono destinate, quanto piuttosto nell’identificazione delle politiche d’intervento. Nel ‘78 le importazioni nette del Mezzogiorno hanno quasi raggiunto il 20% del prodotto del Mezzogiorno ed il 6% del prodotto del Centro-Nord. Si tratta di quote molto più alte di quelle comunemente indicate come cruciali, che i paesi più ricchi dovrebbero assicurare ai più poveri per sostenerne lo sviluppo.
Ora è indubbio che l’unico settore in grado di assicurare l’autonomo sviluppo di una zona con 20 milioni di abitanti è quello industriale. D’altra parte però, nei paesi industriali avanzati e nelle nuove condizioni di tecnologia, il settore industriale non è più in grado di assicurare la piena occupazione. Tentativi di restaurarla, iniettando nel sistema risorse per indurre le imprese ad investire di più, provocano inflazione senza evitare la disoccupazione.
Nelle regioni industriali forti, la piena occupazione e l’aumento della produttività viene ormai assicurata dal terziario in continuo sviluppo sia dalla parte del consumo che da quella della produzione. Nelle zone industriali deboli tale politica di terziarizzazione non è però possibile, e se si forza la situazione aumentando il terziario del settore consumo si devono aumentare i trasferimenti, ovvero l’assistenza.
D’altra parte nel Sud l’unificazione sociale con il resto del paese è stata molto più rapida dell’adeguamento della base produttiva. Ne è derivato un elevato livello medio di scolarizzazione, e di conseguenti aspettative, che ha generato l’abbandono delle campagne e l’urbanizzazione della popolazione in città che non sono in grado di offrire tutti i posti di lavoro terziari richiesti.
Pertanto, la risoluzione del problema occupazionale sta nell’avvio di un processo di sviluppo che sia in grado di creare un adeguato assorbimento di occupazione in un terziario non assistito. A tale scopo un contributo fondamentale potrebbe venire appunto dalla riqualificazione urbana e funzionale delle aree urbane, sia in relazione alle esigenze di vita civile della popolazione, e sia, in una prospettiva più ampia, per rilanciare un processo di industrializzazione basato sulla media e piccola tecnologia che trova il suo habitat naturale nel contesto urbano. Si raggiungerebbe in tal modo una dimensione critica di domanda per attività terziarie e servizi specializzati, difficilmente ipotizzabili in un ambiente degradato, la cui disponibilità è a sua volta essenziale per innescare un’ulteriore fase di sviluppo industriale.
* Si tratta del documento di lavoro predisposto da Alfonso Jozzo e Roberto Bianchini per il convegno organizzato dal MFE il 7 marzo 1980 a Napoli sul tema: «Riequilibrio del Mezzogiorno, intervento della CEE, ruolo della Cassa per il Mezzogiorno».