Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 123
L’UNITÀ EUROPEA E L’EMANCIPAZIONE
DEL TERZO MONDO*
Vorrei proporre, come militante federalista, una riflessione sulla connessione fra la lotta per l’unità europea e quella per la creazione di un nuovo ordine economico mondiale, che costituisce oggi il quadro più generale nel quale vengono collocate le prospettive di emancipazione del Terzo mondo.
La prima constatazione che vorrei fare, a questo proposito, è che ormai il problema dello sviluppo ha una dimensione mondiale. Si parla, giustamente, della necessità di creare un nuovo ordine economico internazionale. Ebbene, se questo è l’obiettivo, occorre anche ammettere che è necessaria una organizzazione politica al di sopra degli Stati nazionali, se vogliamo veramente sottoporre al controllo di un governo democratico quei problemi mondiali che ormai superano largamente il quadro nazionale. L’umanità sta prendendo coscienza che il mondo è uno solo, che il destino di ogni uomo dipende sempre più strettamente da quello che gli altri uomini fanno.
Consideriamo il problema dell’energia. Esiste un drammatico problema energetico non tanto perché manca energia nei paesi avanzati. Questo è un problema che ancora può essere risolto con le attuali risorse. Vi è un problema energetico molto serio perché si deve consentire al Terzo mondo di industrializzarsi e in questa prospettiva è evidente che le attuali risorse energetiche dell’umanità sono assolutamente insufficienti. Bisogna dunque prendere atto che qualsiasi problema della vita sociale e civile coinvolge tanto le società industriali avanzate quanto il Terzo mondo. Ecco perché si pone il problema di una nuova organizzazione politica per l’umanità.
Vi sono segni evidenti che testimoniano l’attualità di questa prospettiva mondialistica. Un giornale importante come Le Monde, insieme ad una ventina di altri quotidiani, ha iniziato una serie di pagine mensili intitolate «Un seul monde», in cui intervengono giornalisti africani, asiatici, dell’America latina, oltre che ovviamente dell’Europa, per discutere il problema della mondializzazione dello sviluppo economico e della costruzione di un nuovo ordine internazionale. La questione è matura per passare dal terreno culturale a quello politico.
È necessario pertanto avviare il dibattito sulle istituzioni politiche che possono consentire il governo democratico dell’economia mondiale, perché un conto è escogitare soluzioni a livello tecnico, un conto è indicare le istituzioni politiche necessarie per la realizzazione delle politiche proposte. Sul terreno delle semplici soluzioni tecniche ormai si sono fatti notevoli passi avanti. In sede ONU, nel seno del Club di Roma, dell’OCDE e di altre agenzie internazionali si sono spesso indicate prospettive serie e che potrebbero divenire già operative. Ma mancano le istituzioni politiche — il mezzo — per realizzare questi progetti. Così il dibattito mondiale si conclude in un nulla di fatto. È su questa lacuna del pensiero politico ed economico che occorre dunque riflettere.
In secondo luogo, vorrei far notare che una volta che si pone come obiettivo politico, per ragioni di giustizia internazionale, la creazione di un nuovo ordine economico mondiale, implicitamente si riconosce il fallimento delle strategie nazionali dello sviluppo. Le cosiddette «vie nazionali» che sono state tentate in Africa, in America latina, ecc. sono ormai tutte fallite: ciò è stato già riconosciuto negli anni ‘60 nelle prime conferenze UNCTAD quando si è posto il problema di programmare lo sviluppo al di sopra del quadro nazionale, regolamentando il mercato delle materie prime, controllando le multinazionali, ecc.
Da queste considerazioni, si può trarre come corollario che tutto un vecchio modo di pensare, molto di moda nel passato, che fa coincidere la lotta per l’indipendenza nazionale con quella antiimperialistica è falso. La via nazionale allo sviluppo non porta alla effettiva emancipazione economica e politica. Tutte queste teorie accettano di fatto il quadro mondiale di potere così come si è venuto a configurare con la fine della seconda guerra mondiale. Insieme al quadro nazionale dello sviluppo si accetta la divisione del mondo in due blocchi egemonici. Ma è proprio questo l’ordine mondiale che viene oggi contestato dal Terzo mondo. La costruzione di un nuovo ordine economico mondiale è impossibile senza l’avvio di un equilibrio multipolare. Il mondo sta ormai prendendo coscienza del fatto che la Cina e l’Europa sono due poli alternativi che stanno affacciandosi sulla scena mondiale e che solo in questo modo si può superare il quadro immobilistico e conservatore del vecchio ordine. Per questo vi è molta simpatia nei paesi sottosviluppati sia nei confronti della Cina, sia nei confronti dell’Europa. Essi rappresentano i poli emergenti di un nuovo ordine economico e politico multipolare, destinato a soppiantare il vecchio sistema bipolare che ha favorito l’emarginazione dei paesi più poveri. In effetti, con la guerra fredda si sono concentrate tutte le risorse umane ed economiche nel folle confronto politico, ideologico e militare fra le due superpotenze. Il Terzo mondo oggi vuole più indipendenza e quindi guarda con attenzione alla nuova situazione di potere che sta profilandosi sulla scena internazionale.
In questa prospettiva, l’Europa — gli stessi dirigenti cinesi lo affermano — può svolgere un ruolo decisivo. L’Europa ormai ha compiuto la sua industrializzazione, a differenza della Cina che è solo ai suoi primi passi, e ha un potenziale enorme di risorse culturali e tecnologiche. L’Europa può divenire (lo è già sotto certi aspetti) un centro propulsivo importante dell’economia mondiale e deve, per sopravvivere, cooperare con il Terzo mondo, perché è povera di materie prime. Essa è uno spazio aperto ed ha una vocazione universalistica. Per questo può contribuire a far assumere dagli USA e dall’URSS un atteggiamento più favorevole verso il Terzo mondo. Si può dunque affermare che Europa e Cina sono due fattori positivi in evoluzione che possono modificare la situazione internazionale. Esse possono divenire i centri propulsori di una nuova politica internazionale che favorisca l’inserimento del Terzo mondo e dei paesi non allineati nel quadro mondiale, a pari dignità con i paesi avanzati.
Ma al di là di queste considerazioni sugli equilibri mondiali che in ogni caso sono una realtà di cui bisogna prendere atto, vorrei ricordare che vi è un legame molto più profondo tra strategia della lotta per l’Europa ed emancipazione del Terzo mondo: questo legame è il federalismo.
È stata una scoperta recente, anche per noi federalisti, il fatto che al di fuori dell’Europa, nel Terzo mondo, esiste un federalismo e sono esistiti dei Partiti e dei Movimenti federalistici, in particolare nel quadro dei movimenti di liberazione dell’Africa, ma anche in America Latina. Per ragioni di tempo, mi limito ad attirare la vostra attenzione sull’Africa. Le lotte africane di emancipazione dal colonialismo sono state anche lotte per la realizzazione del federalismo, nel senso che gli ideali unitari erano ben presenti ai leaders africani che hanno guidato i movimenti per l’indipendenza. E vi sono — lo ricordo perché ho provato una certa emozione nello scoprire questi documenti — testimonianze molto lucide ed appassionate sulla necessità di unificare l’Africa. I tentativi fatti da Senghor per creare la Federazione del Malì sono già noti. Meno noto è invece l’impegno di Nkrumah che ha scritto anche un libro, il cui titolo «L’Africa deve unirsi» riassume sinteticamente il suo fondamentale impegno politico successivo alla decolonizzazione del Ghana; impegno a cui è rimasto esemplarmente fedele per tutta la sua vita. Vi sono inoltre saggi eccellenti di Nyerere, l’attuale presidente della Tanzania, per richiamare l’attenzione dei suoi compatrioti africani sul fatto che non vi può essere indipendenza e sviluppo economico dell’Africa senza unità africana. Occorre cominciare — sostiene Nyerere — a battersi per costruire la federazione africana, perché l’Africa, se resta divisa in tanti staterelli, come lo è attualmente, sarà dominata dalle superpotenze, vi sarà una «seconda spartizione dell’Africa». La responsabilità del neoimperialismo è anche degli africani. Non vi è alcuna possibilità di sviluppo, sostiene saggiamente Nyerere, per i piccoli Stati africani perché ormai, nel XX secolo, lo sviluppo economico deve essere concepito su scala continentale.
Ma vi è di più. Questi leaders africani rimproverano indirettamente gli europei che, per insipienza o follia, dopo la seconda guerra mondiale non hanno saputo darsi l’unità. Nel momento in cui i popoli africani conquistavano l’indipendenza, prendevano anche coscienza del cattivo esempio dell’Europa, che restava divisa e subiva l’imperialismo delle superpotenze. In effetti, i leaders anticolonialisti africani indicano sempre, nei loro scritti, come modello esemplare, la fondazione degli Stati Uniti d’America. Essi additano ai giovani africani la via che hanno percorso gli Stati Uniti d’America, o comunque quei popoli che hanno saputo trovare la via dell’unità e dell’indipendenza, superando i mali della divisione. L’Europa del Mercato comune, invece, non ha saputo far altro che praticare politiche mercantilistiche verso le sue ex-colonie, fomentandone cosi la discordia e perpetuandone la povertà.
L’unità è la chiave dell’emancipazione africana. Ki-Zerbo, il primo storico africano le cui opere sono state di recente tradotte, quando discute del problema dello sviluppo economico dell’Africa conclude con queste parole: «Diamoci l’unità e faremo decollare l’Africa». Per questo propone di iniziare con federazioni regionali là dove è possibile, per arrivare nel futuro all’unità africana. Solo in questo modo l’Africa parlerà da pari a pari con gli altri continenti, cosi come oggi fanno la Cina, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Senza l’unità, l’Africa non sarà indipendente e continuerà a subire il neo-colonialismo.
Queste considerazioni di Ki-Zerbo mi sembrano importanti. Esiste una tradizione federalistica non soltanto in Europa: esiste un federalismo africano. Fino ad ora il federalismo africano non ha avuto successo. Ci sono stati molti tentativi per giungere a federazioni regionali, ma poi ha vinto sempre la soluzione nazionale. È tragico constatare come questi capi di Stato illuminati alla fine siano costretti ad accettare le rivalità tribali, le risse corporative e le divisioni nazionali come inevitabili. Ma il fatto decisivo è che il federalismo africano non è affatto morto. Il ricordo delle lotte per l’unità è quanto mai vivo nella cultura africana. Vi è dunque un legame obiettivo fra la lotta che noi europei conduciamo per unificare il nostro continente su una base federale e le lotte per l’emancipazione del Terzo mondo. Ciò che ci accomuna è il superamento del nazionalismo, come cultura della divisione politica del genere umano.
Vediamo ora di fare il punto sulla realizzazione del federalismo in Europa e sulle prospettive di cooperazione fra Europa e Terzo mondo. Noi europei siamo giunti ad una svolta decisiva. Ormai abbiamo un parlamento europeo eletto. Dobbiamo solo consolidare l’unione politica fra i paesi della Comunità. Dopo il voto popolare l’unità europea poggia su basi solidissime. È difficile, se non impossibile, revocare il diritto di voto agli europei. Il processo iniziato sembra dunque irreversibile. La lotta politica iniziata a livello europeo non può che rafforzare l’unità. Ecco perché abbiamo molte possibilità di avanzare verso la federazione europea.
In Europa si affermerà dunque una nuova cultura: quella dell’organizzazione democratica del potere al di sopra delle nazioni. I paesi africani allora potranno non guardare più soltanto all’esempio degli Stati Uniti d’America, che rappresentano comunque un modello imperfetto perché non sono sorti come risposta alla crisi dello Stato nazionale. Grazie all’esempio europeo, si può avere la ragionevole speranza che i movimenti federalistici nel Terzo mondo riacquistino nuove energie vitali e con essi, nella nuova prospettiva di unità e di emancipazione, potranno prendere il sopravvento tutte le forze genuinamente progressiste, perché non vi è più lotta politica progressista nel nostro secolo se non viene concepita in un quadro continentale e in una prospettiva mondiale. È in questo senso, penso, che si debba interpretare l’affermazione di Sacharov, secondo il quale l’unità europea dovrà «diventare passaggio obbligato e modello per un processo evolutivo che si estenderà a tutto il mondo».
Ma l’unità europea non rappresenterà soltanto un modello culturale. Se gli europei si uniranno effettivamente, dandosi una unione monetaria ed un governo efficace, si potrà fare molto di più per emancipare il Terzo mondo. Si parla oggi, e noi federalisti concordiamo con queste proposte, di un Piano Marshall europeo verso il Terzo mondo. È giusto porre il problema in questi termini. Bisogna pensare ad una svolta importante nella politica degli aiuti verso il Terzo mondo. Non possiamo continuare con le elemosine del passato. Bisogna realizzare veri e propri progetti di sviluppo a lunghissimo periodo, che rendano complementare lo sviluppo dell’economia europea con quello dei paesi del Terzo mondo. Questa complementarietà non è solo possibile, ma necessaria. Vi è una domanda potenziale enorme nei paesi sottosviluppati che può essere attivata con aiuti finanziari, con interessi reciproci sui due fronti. È evidente che con la domanda proveniente dal Terzo mondo possiamo mettere in moto le nostre industrie, in particolare quelle per la fornitura di beni strumentali, ora sottoimpiegate. Ma in questo modo consentiamo al Terzo mondo di saltare, almeno parzialmente, la fase della industrializzazione pesante che finora, con la strategia delle vie nazionali allo sviluppo, ha costituito sempre una via obbligata, anche se ha comportato enormi sacrifici a causa dell’accumulazione forzata. Gli africani, ad esempio, possono benissimo sfruttare, per le loro esigenze di sviluppo, parte delle industrie pesanti europee che oggi sono in crisi perché tutti i paesi avanzati sono ormai avviati verso un nuovo modello di sviluppo, fondato sulle tecnologie d’avanguardia.
Bisogna realizzare quindi un Piano Marshall europeo per lo sviluppo del Terzo mondo. Ma in questa prospettiva si devono anche rivedere gli accordi di Lomé. È evidente che gli accordi di Lomé sono insufficienti non soltanto sotto l’aspetto quantitativo: il Fondo europeo per lo sviluppo è assolutamente inadeguato per finanziare un piano di vaste proporzioni. Bisogna rivedere gli accordi di Lomé anche perché l’Europa deve favorire la formazione di federazioni regionali, proprio sull’esempio di ciò che l’America ha fatto con il Piano Marshall. Gli Stati Uniti non hanno solo aiutato gli europei finanziariamente a ricostruire le loro economie; essi hanno incoraggiato anche la loro unità politica ed economica. Bisogna dunque che l’Europa favorisca la formazione di federazioni regionali nel Terzo mondo, perché soltanto così si potrà programmare lo sviluppo su una base continentale. Gli aiuti a pioggia su centinaia di paesi finiscono inevitabilmente per non produrre frutti. In un quadro continentale, al contrario, è a portata di mano una completa indipendenza non soltanto economica ma anche politica. La conquista formale della sovranità nazionale ha in verità coperto la dipendenza di fatto da qualche grande potenza, con conseguenze nefaste anche per la sopravvivenza della democrazia e della libertà in questi fragili e giovanissimi Stati. Il Terzo mondo diventerà veramente indipendente se saprà mettersi sulla via dei raggruppamenti federali regionali.
Se si tengono presenti queste indicazioni, possiamo anche constatare quanto siano meschine le proposte che oggi vengono quasi universalmente accettate come unica politica per aiutare il Terzo mondo. Il recente dibattito al Parlamento italiano sulla fame nel mondo ha rappresentato un buon esempio di questo modo superficiale ed inadeguato di affrontare il problema. L’Italia non è quel polo che negli equilibri mondiali attuali può mutare gli insoddisfacenti rapporti fra paesi avanzati e sottosviluppati. Sarebbe stato molto più onesto, per l’Italia, riconoscere questa verità ed eventualmente dare un maggior contributo al Fondo europeo di sviluppo, invitando gli altri paesi europei a fare altrettanto, nel tentativo di rafforzare la politica europea di cooperazione. L’Italia per conto suo non ha la capacità di far giungere a buon fine questi pur miseri aiuti. Si può fin da ora fare la facile profezia che essi finiranno per essere sperperati.
Bisogna dunque che i paesi europei concentrino i loro sforzi e realizzino effettivamente un grande piano mondiale di sviluppo che può, a partire dalla complementarietà che esiste fra Europa ed Africa, cominciare a cambiare il destino del mondo e mettere l’umanità sulla via della federazione mondiale. Noi federalisti non dimentichiamo che questo è l’obiettivo finale della nostra lotta. Per questo è importante prendere coscienza che vi è un legame tra la lotta per l’unità europea e quella per l’emancipazione del Terzo mondo. L’avvio di nuclei federali costituisce un passo importante verso la stabilità internazionale, la distensione e la pace. Non ci facciamo illusioni sulle difficoltà e sui tempi di questo impegno politico. Ma sappiamo che, giorno dopo giorno, battendoci per l’unità europea e per sconfiggere le divisioni nazionali fra gli uomini, stiamo anche aprendo la via all’emancipazione dei popoli più poveri e diseredati.
* Intervento di Guido Montani al convegno «L’Europa e il nuovo ordine internazionale» organizzato dal CIFE a Roma il 5-7 ottobre 1979.