IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 114

 

 

IL RUOLO DEL PARLAMENTO EUROPEO NELLA COSTRUZIONE DELL’UNITÀ POLITICA EUROPEA*
 
 
L’assetto istituzionale della Comunità dopo l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo è entrato in una nuova fase. Mentre prima del 10 giugno la CEE aveva inequivocabilmente un carattere confederale — era cioè una struttura di coordinamento tra Stati che mantenevano intatta la loro sovranità — l’elezione del Parlamento, come non hanno mancato di notare con allarme i nemici di qualsiasi evoluzione della Comunità in senso sovrannazionale, ha introdotto nel suo meccanismo un elemento federale, costituito appunto dalla rappresentanza parlamentare del popolo europeo.
Nella Comunità coesistono quindi due principi contrastanti, che ne rendono l’assetto intrinsecamente instabile. Mentre da un lato il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri pretendono di continuare a gestire gli affari europei con i metodi tradizionali della diplomazia, dall’altro l’esistenza di un organo che è l’espressione a livello europeo di quella sovranità popolare dalla quale gli stessi governi nazionali traggono la loro legittimità pone in termini inequivocabili l’esigenza del controllo dell’operato dell’esecutivo da parte del popolo europeo attraverso la sua rappresentanza parlamentare.
Con ciò è posto il problema di chi deve governare la Comunità, e in che modo, cioè della forma che assumeranno i rapporti del Parlamento europeo con il Consiglio europeo da un lato e con la Commissione dall’altro.
Il Consiglio europeo ha giocato, nell’ultima difficile fase del processo di integrazione europea, un ruolo essenziale. Senza di esso non si sarebbe giunti alla stessa elezione del Parlamento, né al varo dello SME. Né è da ritenere che anche nei prossimi anni esso non debba continuare ad avere una funzione importante. Ma, dopo l’elezione del 10 giugno, la sua totale mancanza di collegamenti istituzionali e di responsabilità nei confronti della rappresentanza popolare appare come un’intollerabile sfida ai principi fondamentali della democrazia. Spetta al Parlamento rivendicare l’inalienabile diritto del popolo europeo di non essere governato con metodi autocratici da un organo che pretende di collocarsi nella posizione di princeps legibus solutus.
La Commissione, da parte sua, è stata confinata dall’estensione dello spazio occupato dal Consiglio europeo ad una funzione subalterna di mediazione e di esecuzione tecnica, ed ha parzialmente abdicato al ruolo politico di iniziativa che pure le è attribuito dai Trattati. Anche questa situazione sembra destinata a mutare. La Commissione, che non è espressione dei governi nazionali, è, nel quadro istituzionale della Comunità, il naturale alleato del Parlamento, di fronte al quale del resto è direttamente responsabile attraverso il meccanismo del voto di censura. Il rafforzamento dei suoi legami con il Parlamento eletto ed il suo collegamento — attraverso di esso — con l’opinione pubblica europea possono progressivamente trasformarla in un vero e proprio governo, dotato della forza necessaria per far prevalere i suoi orientamenti su quelli del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri. Sotto questo profilo il Parlamento giocherà un’importante partita in occasione del prossimo rinnovo della Commissione. Esso possiede, attraverso la minaccia del voto di censura, i mezzi giuridici per influire in modo determinante sulla sua composizione e per farne quindi la propria espressione democratica. Si tratta di vedere se esso sarà in grado di esprimere la maggioranza necessaria per farne un uso efficace.
Ma il problema di dare un governo democratico alla Comunità presenta un secondo, decisivo aspetto. L’esecutivo comunitario infatti non potrà essere considerato un vero e proprio governo fino a che esso non disporrà delle leve fondamentali per il controllo della congiuntura economica. Queste leve sono una moneta unica e un bilancio adeguato.
Fino a che la sovranità monetaria consentirà agli Stati membri — e soprattutto ai più deboli — di assecondare mediante l’aumento incontrollato del deficit pubblico le spinte corporative cui sono sottoposti, sarà velleitario parlare di politiche strutturali, regionali, industriali e sociali a livello comunitario. D’altra parte lo SME, nella sua configurazione attuale — che pure ha costituito un importantissimo punto di partenza — non potrà reggere a lungo alle tensioni cui viene sottoposto dall’accentuarsi delle divergenze tra i tassi di inflazione delle economie dei paesi membri, e già ora denuncia preoccupanti sintomi di crisi, dimostrando la debolezza intrinseca di qualsiasi meccanismo di controllo della stabilità dei cambi fondato soltanto sulla collaborazione intergovernativa.
Uguale discorso vale per l’aumento del bilancio e delle risorse proprie della Comunità. Si tratta di un punto cruciale, sul quale il Parlamento si sta coraggiosamente battendo, ma sul quale ha incontrato una accanita resistenza da parte del Consiglio dei ministri, la cui politica è quella non solo di non rafforzare le capacità di intervento della Comunità nell’economia europea attraverso adeguate politiche strutturali, ma addirittura di toglierle le poche che già possiede, lasciando lievitare le spese agricole obbligatorie fino ad assorbire l’intero esiguo bilancio di cui la Comunità attualmente dispone. Eppure è proprio soltanto dalla possibilità di usufruire di mezzi finanziari adeguati che dipende qualunque possibilità di realizzare politiche regionali, industriali, sociali, energetiche e territoriali efficaci a livello comunitario, senza le quali le sempre più forti spinte centrifughe presenti nella CEE la condurranno inevitabilmente alla disgregazione.
Le battaglie che opporranno nel prossimo futuro il Parlamento al Consiglio europeo saranno quindi sicuramente lunghe e difficili. In esse il vantaggio del Parlamento sarà di avere dalla sua la forza, alla lunga irresistibile, della legittimazione popolare. Ma si tratta di una legittimazione che deve essere rafforzata intensificando i legami tra Parlamento e opinione pubblica e colmando il distacco che ancora esiste tra le forze politiche nazionali e le loro rappresentanze europee. Sotto questo profilo riveste un’importanza preminente il problema dell’adozione di un sistema elettorale uniforme per le future elezioni del Parlamento. È un problema che presenta tre aspetti di rilievo decisivo. In primo luogo l’approvazione di un sistema elettorale uniforme equivarrebbe all’affermazione definitiva della piena autonomia statutaria della assemblea, che sarebbe gravemente compromessa dal mantenimento, per la prossima tornata elettorale, di nove sistemi nazionali diversi. In secondo luogo essa costringerebbe le forze politiche a rafforzare i loro legami europei per consolidare le loro chances elettorali e porrebbe in termini concreti il problema della creazione, al posto delle attuali internazionali di partiti, di veri e propri partiti europei, nei quali la selezione dei dirigenti avvenga attraverso congressi democratici a livello europeo. Infine, ponendo il problema del sistema elettorale uniforme, si pone inevitabilmente quello di stabilire un rapporto proporzionale tra numero di deputati eletti e numero di elettori in ogni regione europea. Nelle elezioni del 7–10 giugno un deputato lussemburghese è stato eletto da circa 30.000 cittadini, mentre per eleggere un deputato tedesco sono stati necessari circa 450.000 voti. Questa assurda sproporzione è stata il risultato di un compromesso imposto dalla necessità di conciliare l’esigenza della rappresentanza dei cittadini con quella della rappresentanza degli Stati in un sistema monocamerale. Ma con il crescere dell’importanza del Parlamento è impensabile che si perpetui un meccanismo che, violando i principi fondamentali della democrazia, rischia di compromettere la sua stessa legittimità. In realtà il problema di conciliare le due esigenze non può essere risolto che con la duplicazione della rappresentanza in un sistema bicamerale. E ciò pone in prospettiva l’esigenza di trasformare il Consiglio dei ministri in un vero e proprio Senato federale.
Si delinea in questo modo il ruolo proprio del Parlamento di motore dell’evoluzione dell’assetto istituzionale della Comunità. Si tratta — lo abbiamo visto — di un assetto instabile e percorso da forti contraddizioni. Queste contraddizioni non possono certo essere risolte — al di sopra della testa degli elettori — da comitati di esperti nominati dai capi di governo — e l’inconsistenza delle proposte dei tre saggi nominati per iniziativa del Presidente della repubblica francese dà la misura della sterilità di iniziative di questo genere — ma soltanto dall’organo che è l’espressione della sovranità popolare. È dal Parlamento — e soltanto da esso — che i cittadini europei attendono l’indicazione del modello istituzionale verso il quale la Comunità deve progredire e della strada da percorrere per realizzarlo.
 
Francesco Rossolillo


* Si tratta del rapporto introduttivo presentato da Francesco Rossolillo al convegno su questo tema, svoltosi a Torino il 12-13 gennaio 1980.

 

 

 

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