Anno XXIII, 1981, Numero 3-4, Pagina 175
L’analisi dei due termini del tema proposto fornirebbe materia sufficiente per scrivere un libro, ma in questo quadro noi ci limiteremo alle considerazioni essenziali per mostrare il più chiaramente possibile la necessità di una difesa europea e le sue modalità di applicazione.
Parlare della difesa dell’Europa coincide con l’evocare la strategia della dissuasione, cioè il dispiegamento di mezzi tali che l’eventuale tornaconto di una aggressione sia assolutamente sproporzionato ai rischi connessi. Per lunghi anni il fondamento essenziale della dissuasione era costituito dai missili nucleari strategici, completati più tardi da una vasta gamma di armi tattiche, chiamate attualmente armi nucleari di teatro d’operazione. L’effetto distruttivo senza precedenti di questo arsenale ha portato l’opinione pubblica ad accettare senza troppe riserve la teoria della «guerra impossibile», basata sulla certezza che uno scambio nucleare generalizzato condurrebbe alla distruzione entrambi i contendenti. Le cose stanno ancora così oggi? Questa è la prima domanda alla quale cercheremo di rispondere analizzando brevemente l’evoluzione delle teorie strategiche e dei potenziali bellici implicati. Quali potrebbero essere le diverse ipotesi di conflitto, sia dovute a un urto diretto fra le due superpotenze, sia dovute ad un attacco nucleare o classico, avente per obiettivo l’Europa? Un breve esame delle soluzioni possibili e una valutazione delle loro probabilità ci permetterà di riconoscere l’ipotesi più pericolosa e senza dubbio più probabile. Siamo noi in grado di fronteggiarla? Porre questa terza domanda significa sollevare il problema della debolezza crescente dell’occidente di fronte ad un potenziale dell’avversario che non cessa di accrescersi, accentuando di anno in anno uno squilibrio generatore di crisi potenziali o conclamate. Ma non è sufficiente fare una diagnosi, bisogna anche proporre dei rimedi. È quanto cercheremo di fare nella seconda parte di questa breve trattazione, esaminando il quadro politico, economico, psicologico e militare, nel quale l’Europa potrebbe realizzare progressi considerevoli in vista di garantire la sua sicurezza e dunque la sua libertà e la sua autonomia.
L’evoluzione dei potenziali strategici e le conseguenze che ne derivano.
All’origine, gli strumenti iniziali della dissuasione si situavano al solo livello delle armi nucleari strategiche, bombardieri a lungo raggio d’azione, poi completati da missili intercontinentali di diversi tipi, sia installati a terra, sia a bordo di sottomarini strategici. È nel corso degli anni cinquanta che vengono installate nella regione Centro della NATO le prime armi nucleari tattiche, allo scopo di compensare la disparità delle forze convenzionali e il vantaggio acquisito dai Sovietici in questo campo. Queste armi tattiche fanno parte inestricabile e inseparabile della dissuasione globale degli Stati Uniti e della loro potenza nucleare, chiamata ad agire come un tutto nel quadro delle rappresaglie massicce, previste dalla strategia vigente all’epoca. Le forze convenzionali, in questo contesto, non hanno ruolo di dissuasione: esse servono da tripwire, campanello d’allarme, e la loro sola missione è di servire da forza di test, di constatare la realtà di un’aggressione, importante o limitata, e di giustificare in conseguenza l’impiego delle forze nucleari.
Il giorno in cui il territorio degli Stati Uniti diventa, per la prima volta nella storia, vulnerabile da parte delle armi intercontinentali sovietiche, interviene una modificazione fondamentale della dottrina strategica. Si adotta ormai una nuova strategia che viene detta della risposta flessibile o della dissuasione graduata. Adottata ufficialmente nel 1967, questa strategia è sempre in vigore al momento attuale. In poche parole essa prevede che ad ogni ipotesi di aggressione venga data una risposta adeguata nella forma e nel livello. È in una qualche maniera un’applicazione al contrario del vecchio principio dell’adeguatezza del fine ai mezzi. In quest’ottica, le forze nucleari di teatro, dette tattiche, conservano un ruolo complementare nell’ipotesi di una guerra nucleare generale, ma si vedono attribuire delle funzioni di dissuasione e di difesa addizionali indipendenti questa volta dalle forze nucleari strategiche degli Stati Uniti. Parallelamente, la nuova strategia richiede l’accrescimento delle responsabilità di dissuasione e di difesa delle forze convenzionali della NATO. Questa condizione essenziale per la validità e la credibilità della nuova strategia era già stata riconosciuta dal generale Maxwell Taylor nella sua celebre opera The uncertain Trompet.
Assistiamo dunque a due avvenimenti capitali: l’autonomia riconosciuta alle forze nucleari tattiche, almeno nella fase iniziale di un conflitto; il riconoscimento del ruolo di dissuasione e di difesa delle forze classiche, promosse ormai al ruolo primordiale di elemento indispensabile della dissuasione, in quello che è stato chiamato il sistema della triade. Se la dissuasione non funziona, dunque se l’avversario effettua un’offensiva senza ricorso immediato ai mezzi nucleari, le forze classiche della NATO devono ormai condurre una vera e propria battaglia difensiva, e non più servire soltanto da «campanello d’allarme». Il paradosso è che le forze di cui disponiamo attualmente sono più ridotte di quelle che non dovevano svolgere che un ruolo di test nella strategia delle rappresaglie massicce! Proprio per questo gli esperti occidentali hanno sempre insistito sul fatto che, per dare alla logica della dissuasione una solida credibilità era necessario disporre di forze classiche adeguate, cioè suscettibili di sostenere un primo urto e di condurre una battaglia difensiva coerente.
Verso la fine degli anni sessanta divenne evidente che l’Unione Sovietica si avviava progressivamente verso la parità nucleare strategica con gli Stati Uniti, o, in termini più misurati, verso l’equivalenza essenziale. A questo punto il presidente Nixon reagì a questo cambiamento fondamentale nell’equilibrio strategico mettendo in forse l’utilizzazione delle forze nucleari strategiche americane nel quadro della «distruzione reciproca assicurata». In altri termini l’accento veniva posto piuttosto sulla difesa diretta che sull’escalation deliberata e questa constatazione costituisce ai miei occhi un cambiamento decisivo nella dottrina strategica americana. Un altro punto capitale appare nella specificazione degli obiettivi e la dottrina da seguire nell’impiego delle armi nucleari è quella di mettere termine alla guerra in termini accettabili per gli Stati Uniti e i loro alleati allivello più basso realizzabile in un conflitto.
Si vedono subito le profonde differenze fra questo punto di vista e le teorie professate negli anni cinquanta e sessanta, quando lo scopo perseguito utilizzando le armi nucleari era di distruggere o schiacciare le forze di invasione del Patto di Varsavia. In chiaro questo significa che i dubbi emessi dalla scuola di pensiero francese quanto alla credibilità e all’automaticità della risposta nucleare americana al più alto livello, appaiono a posteriori giustificati.
Ma che ne è dell’Europa in questo cambiamento del contesto strategico? L’opinione pubblica europea realizza a malapena che si è prodotto un cambiamento fondamentale. Essa si intorpidisce nell’arrendevolezza e si rifiuta di prendere in considerazione l’emergenza dei pericoli. Essa non vuole comprendere che se le forze classiche della NATO non vengono portate a un livello adeguato — ed è evidente che siamo lontani da un tale obiettivo — il ricorso alle armi nucleari, e cioè la distruzione del nostro continente, è sempre più impellente. Se ciò non si dovesse verificare, se cioè la tendenza a diminuire il potenziale delle forze classiche dovesse continuare, l’Alleanza si vedrebbe costretta a ricorrere quasi immediatamente alle armi nucleari, scatenando così un processo delle conseguenze imprevedibili che comporterebbe la distruzione totale di quello che noi vogliamo difendere.
I vincoli d’impiego dell’armata nucleare.
Questi si producono nei campi politico, tecnologico e psicologico. Qualunque strategia di dissuasione si basa su due fattori essenziali: la validità dei mezzi e la volontà di impiegarli. Se uno dei due fattori è debole o nullo, la dissuasione diventa aleatoria o irrealizzabile.
I mezzi al livello strategico.
In volume e in qualità tecnologica gli Stati Uniti conservano per il momento un apprezzabile vantaggio grazie alla loro tecnologia avanzata in materia di ogive a testate multiple (MIRV), di sistemi di guida e di precisione. In materia di megatonnellaggio (carico distruttivo utile) sono in vantaggio i sovietici. A ogni modo si può ritenere che a livello strategico l’equilibrio essenziale sia realizzato e che la dissuasione funzioni effettivamente. Nonostante il carattere congiunturale, e dunque incerto, delle previsioni in questo settore, sembra assicurato che la determinazione degli Stati Uniti sia certa dal momento in cui i loro interessi vitali siano minacciati. Una risposta più sfumata s’impone invece se si tratta di intervenire con il potenziale sottoposto alle rappresaglie dell’avversario. È più probabile che l’intervento avverrebbe nell’Europa dell’est o, eventualmente, su obiettivi militari sovietici selezionati in ordine a garantire l’invulnerabilità di fatto della fortezza America.
I mezzi al livello delle forze nucleari tattiche (dette «di teatro»).
Questi sono essenzialmente costituiti per quanto riguarda la parte occidentale dall’aviazione tattica e dai missili del tipo Lance o Pershing. I vincoli d’impiego a livello tecnico tendono per lo più a essere ignorati da un’opinione pubblica più incline a incoraggiare il ruolo eminente delle armi nucleari che ad analizzare freddamente la loro efficacia concreta. Un’arma nucleare non è redditizia che in funzione di un obiettivo valido. Questo obiettivo si presenterà solo se lo si forza a prender corpo col dispiegamento degli ostacoli e di una resistenza organizzata. Importanza dell’obiettivo e sua permanenza nel tempo sono le condizioni fondamentali dell’impiego di un’arma nucleare. È illusorio credere che l’avversario si offra spontaneamente al colpo nucleare, se gli è possibile evitarlo con la dispersione delle forze, le operazioni notturne o la mobilità delle sue manovre.
I vincoli politici.
La decisione di impiegare delle armi nucleari, anche delle mine automatiche (ADM) di caratteristiche strettamente difensive, dipende da un atto politico al più alto livello, e cioè dall’autorizzazione del presidente degli Stati Uniti. Si può escludere un veto tedesco in determinate circostanze? Il tempo utile per prendere la decisione non sarà un fattore esclusivo? I mezzi non saranno neutralizzati a priori dall’azione sovversiva o partigiana? Domande senza risposta, ma, per allargare il dibattito, vorrei citare a questo proposito Raymond Aron, che, con la consueta lucidità, pone il problema in questi termini: «Per quanto concerne la plausibilità di una minaccia contro uno Stato nucleare, la difficoltà non è di ordine morale, ma, se posso dire così, d’ordine materiale e razionale, perché utilizzare queste armi contro uno Stato che pure ne possiede, porta logicamente a ricevere una punizione più o meno uguale a quella che si è inflitta. In altri termini, chi prenderà l’iniziativa di dare esecuzione a questa minaccia, sapendo che l’avversario ha la possibilità di infliggere una rappresaglia almeno pari alle distruzioni che gli saranno state inflitte?». E più avanti dice qualcosa che mi sembra riassumere tutto il problema attuale della difesa europea: «Lo Stato che possiede delle armi nucleari ma non possiede la capacità di difesa territoriale mediante le armi convenzionali è certo di poter preservare l’integrità del suo territorio con la minaccia nucleare? Mi sembra legittimo affermare che su questo punto la domanda resta aperta».
Ebbene, l’Unione Sovietica dispone, in più del suo potenziale nucleare strategico, di circa 600 missili di gittata intermedia che coprono la quasi totalità dell’Europa. Sembra dunque probabile, se non certo, che l’Europa, e solo l’Europa, avrebbe il dubbio privilegio di essere il campo di battaglia d’elezione di uno scambio nucleare, mentre i «santuari» delle grandi potenze rimarrebbero inviolati e al di fuori del conflitto.
I vincoli psicologici.
Nel caso in cui l’avversario attacchi inizialmente con le sole forze convenzionali, la massa dei fuggitivi che si allontanano dal teatro dei combattimenti, massa che si può ragionevolmente stimare a milioni di persone, costituirebbe un importante fattore perturbativo per l’impiego di armi nucleari tattiche sul territorio tedesco. Ogni risposta proporzionata dell’aggressore provocherebbe senza dubbio delle severe perdite fra una popolazione allo scoperto e non protetta.
Che cosa possiamo concludere da questo primo esame? Anzitutto che l’automaticità della risposta nucleare americana sembra molto meno sicura che in passato e che essa sarebbe accompagnata da condizioni restrittive relativamente al numero e al tipo degli obbiettivi scelti. In secondo luogo che l’evoluzione dei rapporti di forza geostrategici e la realizzazione dell’«equivalenza essenziale» ha creato una situazione del tutto nuova che ridà tutto il loro valore alle forze classiche o convenzionali e autorizza l’ipotesi di un conflitto condotto inizialmente con queste sole forze e avente per posta il controllo del continente euro-asiatico.
Ma, giunti a questo stadio dell’analisi, conviene interrogarsi sulle ipotesi di conflitto.
Le ipotesi di conflitto e le relative probabilità di realizzazione.
A priori noi dovremo considerare due livelli distinti: impiego a priori delle armi nucleari, sia esso globale o selettivo, o offensiva classica, massiccia o limitata a questo o quel teatro d’operazioni. Dopo aver effettuata una valutazione delle possibilità, della proporzionalità dei fini con i mezzi, dei rischi che si corrono e del valore relativo della posta, noi dovremo scegliere una ipotesi preferenziale, il cui scenario sarà ulteriormente esaminato, ponendolo a confronto con le controreazioni attese dalla strategia in vigore.
Una prima ipotesi è costituita dalla guerra nucleare globale («all-out nuclear war»), e suppone che uno dei due avversari s’impegni nella guerra «pushbutton» e tenti di distruggere o di neutralizzare il più possibile i mezzi di rappresaglia avversi, in modo che resti in linea di combattimento una capacità residua di secondo intervento di infime dimensioni, insufficiente per infliggere all’aggressore dei danni inaccettabili. Tenuto conto dell’equilibrio attuale al livello nucleare strategico e delle disposizioni degli accordi SALT 1, la probabilità di una tale ipotesi può essere considerata trascurabile. È quanto pensa Schlesinger quando dice: «Noi non possiamo escludere totalmente l’attacco massiccio di sorpresa, che anzi teniamo presente nel progettare le nostre forze di secondo intervento, anche se considero la probabilità di un simile attacco come praticamente nulla nelle attuali condizioni». In effetti la capacità di «secondo intervento» degli Stati Uniti è enorme e riposa soprattutto sull’invulnerabilità dei sottomarini strategici. Secondo le cifre fornite da Mc Namara nel 1968, 340 SLBM Poseidon (3700 testate nucleari), potrebbero distruggere approssimativamente il 30% della popolazione sovietica e il 75% delle industrie dell’URSS. Inoltre 550 missili Minuteman III potrebbero distruggere circa il 90% dei missili sovietici basati a terra. A questo punto la proporzionalità del fine con i mezzi (o del rischio alla posta) non è più rispettata e si può ragionevolmente sostenere che una tale ipotesi è estremamente improbabile, se non impossibile.
Una seconda ipotesi prevede un attacco sovietico limitato, con impiego iniziale di armi nucleari, sui fianchi nord e sud dell’Alleanza, o su uno soltanto dei due. Una tale eventualità non può essere totalmente esclusa, ma sembra assai poco probabile, tenuto conto dell’impossibilità di conquistare la totalità degli obbiettivi senza scatenare la risposta nucleare avversaria. Inoltre l’occupazione di un obbiettivo situato in Norvegia, in Grecia o in Turchia, anche se viola l’integrità di un paese membro dell’Alleanza, non lede gli interessi vitali dell’Europa. La configurazione geografica permetterebbe inoltre di reagire con le forze convenzionali e di stabilire un efficace sbarramento d’interdizione con le armi nucleari tattiche. Il rischio è sproporzionato alla posta e si può ragionevolmente scartare questa ipotesi o, almeno, considerarla assai poco probabile.
La terza ipotesi considera l’eventualità di un attacco sovietico limitato su uno dei fianchi e svolto mettendo in gioco unicamente delle forze classiche. Gli argomenti impiegati sopra restano validi, ma la probabilità di un simile evento è maggiore. Si può tuttavia osservare che il rischio corso — incertezza sul tipo e l’intensità della risposta avversaria — non sembra proporzionato ai supposti vantaggi di una conquista territoriale limitata sull’uno o l’altro fianco.
La quarta ipotesi è quella di un’offensiva in Europa occidentale, sul teatro centrale, con impiego iniziale dell’arma nucleare, una «Blitz-Krieg nucleare» come la chiama Marc Geneste. È dubbio che l’Unione Sovietica possa neutralizzare simultaneamente tutte le armi nucleari del teatro (campi d’aviazione, missili Lance, Pershing, artiglieria nucleare) senza provocare danni enormi e perdite civili considerevoli nel territorio che essa vorrebbe conquistare. Il biasimo morale universale che conseguirebbe a questo gesto e le distruzioni irrimediabili del territorio mi sembrano sproporzionate con la posta rappresentata dalla conquista dell’Europa in questo contesto. Ne concludo che la probabilità di una tale operazione mi sembra assai tenue.
La quinta ipotesi è quella di un attacco convenzionale puro delle armate del Patto di Varsavia verso l’Europa centrale, senza ricorso iniziale all’arma nucleare. Bisogna esaminare due casi: 1) l’attacco è massiccio e mette in gioco una parte importante delle forze terrestri sovietiche, comprese le divisioni di prima e seconda linea, stanziate in URSS, 2) l’attacco si fonda sulla sorpresa e i mezzi sono limitati alle forze sovietiche — completate o no da forze satelliti — operative, cioè stanziate nella Repubblica democratica tedesca, in Cecoslovacchia e in Polonia.
L’esame del primo caso, attacco convenzionale massiccio, conduce alle conclusioni seguenti: 1) la pregiudiziale indispensabile di una operazione di questo tipo è il «build-up» e la preparazione delle forze di intervento destinate a prolungare in profondità e/o in durata l’effetto iniziale della prima ondata. Ciò presuppone il completamento delle unità di prima e seconda linea, spesso al 40%, 50% o 60% dei loro effettivi, il trasporto per considerevoli distanze, per strada o ferrovia, delle grandi unità, l’immagazzinamento di munizioni, carburanti e pezzi di ricambio indispensabili all’appoggio logistico dell’operazione; 2) l’effetto di sorpresa sarebbe totalmente nullo, poiché siffatte operazioni richiedono intervalli dell’ordine da una a tre settimane che non potrebbero sfuggire ai mezzi di sorveglianza occidentali; 3) il tempo così concesso all’avversario sarebbe, senza alcun dubbio, utilizzato dall’Alleanza per procedere parallelamente ai propri preparativi difensivi: spiegamento sulle posizioni di guerra, richiamo del personale in congedo e degli effettivi di complemento, preparazione delle unità di riserva, rinforzo delle unità operative, stato di allarme delle unità nucleari, inizio dell’afflusso delle riserve d’oltremare, ecc., 4) la concentrazione di forze considerevoli su posizioni di raggruppamento o basi di partenza accrescerebbe la loro vulnerabilità agli eventuali tiri nucleari occidentali, in caso di aggressione.
In conclusione, l’attacco convenzionale massiccio pone l’Occidente nelle condizioni più favorevoli per rispondere in modo adeguato alla minaccia di una offensiva e valorizza al massimo l’impiego delle armi nucleari tattiche, creando contemporaneamente le condizioni volute per una spiralizzazione controllata nel corso della quale i danni prevedibili per le forze attaccanti sono assolutamente sproporzionati con gli obbiettivi previsti. Di nuovo il rischio prevale sulla posta e la probabilità di una tale operazione è relativamente minima.
Dobbiamo ora soffermarci sul secondo caso, attacco convenzionale, con le sole divisioni stanziali, senza rinforzi preliminari. In questa ipotesi l’intervallo di avvertimento sarebbe minimo o quasi nullo, giacché pochi segnali di avvertimento sarebbero percepibili a Ovest prima della messa in movimento delle unità a partire dalle loro guarnigioni di tempo di pace. L’iniziativa, congiunta con l’effetto d’urto e la sorpresa, permetterebbe di impadronirsi sullo slancio di un pegno capitale, la Repubblica Federale fino al Reno, prevenendo, con la rapidità dell’operazione, l’impiego delle armi nucleari tattiche o strategiche.
Questa eventualità rappresenta per l’Alleanza «the worst case», dunque il più favorevole per l’avversario. La sua probabilità è la più elevata. Ecco che cosa pensa il generale de Maizières di questa eventualità: «Analisti seri, come per esempio il generale Johannes Steinhoff, sostengono con solide argomentazioni che appunto un attacco di sorpresa, con obiettivi limitati nell’Europa centrale avrebbe, nella situazione attuale, considerevoli possibilità di successo. La NATO non sarebbe sufficientemente preparata alla propria difesa». D’altra parte se l’idea operativa è condotta a buon fine, il pegno è praticamente intatto, le perdite sono minime e il rischio è bilanciato dalla posta. La probabilità di un tal tipo di operazione è dunque la più elevata. Ma si potrebbe sollevare l’obiezione seguente: quale potrebbe essere l’interesse politico di un’offensiva di questo tipo, che comporta comunque un rischio: l’incertezza relativa alla risposta, anche irrazionale, degli Stati Uniti d’America? Noi cercheremo di valutarla succintamente nelle pagine seguenti e di difendere la validità di un’ipotesi preferenziale.
Le conseguenze politico-strategiche a lungo termine.
Partendo dall’ipotesi più verosimile che prevede un negoziato fra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, quale potrebbe essere la sorte di un’Europa amputata della Repubblica Federale di Germania, cosciente della sua debolezza e delle sue divisioni, incapace di assicurare la propria sicurezza di fronte alle divisioni sovietiche installate a qualche centinaio di chilometri da Bruxelles, Parigi e l’Aia? È quasi certo che l’URSS non acconsentirebbe a ritirare le sue truppe che al prezzo di condizioni draconiane. Lo smantellamento di tutta l’infrastruttura NATO nella Repubblica Federale sarebbe probabilmente una delle sue prime esigenze. Far entrare la Germania occidentale nella sua orbita immediata ne sarebbe la conseguenza.
Quale autonomia sussisterebbe per il resto dell’Europa? Un potere limitato, sottoposto in permanenza alla pressione di un apparato militare gigantesco, localizzato addosso alle sue frontiere in una situazione analoga a quella della Finlandia quando una divisione sovietica e la flotta del Baltico si trovavano rispettivamente a Porkkala e nel golfo di Botnia. Si può immaginare che qualsiasi accordo relativo a transazioni economiche, trattati di commercio, concessione di prestiti, scambio di informazioni tecnologiche, possa ancora svolgersi in una atmosfera di libertà reciproca? Non fa dubbio che aggiungendo alla sua attuale potenza la massa demografica, il peso economico e le considerevoli risorse del potenziale tedesco occidentale, l’Unione Sovietica eserciterebbe un’influenza incontestabile e incontestata sull’avvenire di un moncone di Europa, paralizzata dal timore e ormai incapace di affermare la sua identità. Ma è vano perdersi in speculazioni sul destino futuro di un’entità europea che avrebbe deliberatamente rifiutato di assicurare la propria esistenza e di unire le sue risorse. Poco importa la sorte che ci sarebbe riservata. Una cosa sarebbe ormai acquisita: nessuno degli Stati europei, sussistenti in semilibertà, sarebbe capace da solo di assicurare la propria difesa e di garantire la propria autonomia. E pertanto sparirebbe nel limbo la nozione della sua sovranità ed esso perderebbe il controllo del proprio destino… Il mondo verrebbe probabilmente diviso in due zone d’influenza: l’Europa e il suo prolungamento africano sotto controllo sovietico e con innesto progressivo di un marxismo-leninismo adattato alle circostanze del momento e l’emisfero occidentale nelle mani degli Americani. Resterebbe l’incognita cinese che verosimilmente inclinerebbe rapidamente verso gli Stati Uniti per controbilanciare lo smisurato accrescimento del potere sovietico. Ne risulterebbe forse un gran cambiamento a livello planetario? I negoziati SALT, gli accordi economici preferenziali, il dialogo permanente dei due grandi sulla testa degli Europei, la penetrazione sovietica in Africa nera, provano a sufficienza che, non essendo capace di unirsi, l’Europa ha lasciato andare le cose senza mai riuscire a dar corpo al suo potere potenziale. Risulterà solo nei fatti una dicotomia già acquisita nelle idee.
Affrontiamo ora la terza domanda: siamo in grado, allo stato attuale delle cose, di far fronte all’evento dell’ipotesi più probabile, e cioè a una «Blitzkrieg» convenzionale, scatenata senza preavviso, o con degli intervalli molto stretti, sulla base delle forze sovietiche stanziali? La risposta, secondo me, è negativa per le ragioni seguenti: 1) l’indebolimento delle forze classiche dell’Alleanza negli ultimi anni è da valutarsi in una diminuzione netta di 576.000 uomini, mentre il potenziale avversario si accresce, nello stesso periodo, di più di un milione di uomini, 2) la dissuasione presuppone in primo luogo mezzi e subito dopo volontà. La reticenza degli europei a consacrare una adeguata percentuale di spesa alla loro difesa convenzionale tradisce una mancanza della volontà di garantire la propria sicurezza e con ciò stesso diminuisce la credibilità della dissuasione globale; 3) contrariamente a quanto avviene per le forze strategiche e tattiche, l’istantaneità della risposta, fondata su un «warning time» (tempo di allerta) adeguato, non è assicurata. I sistemi di allarme sono arcaici, non c’è la permanenza delle forze destinate ad assicurare la sicurezza dell’insieme; 4) l’assenza d’omogeneità nei corpi di armata interalleati, il cattivo spiegamento in tempo di pace delle guarnigioni dell’Alleanza, il quasi abbandono della preparazione operativa in determinate unità, invitano l’avversario a trarre partito dai punti deboli, a concentrare i propri sforzi su di questi, realizzando una superiorità di mezzi di 10 o 12 a 1 e a compromettere così tutta la coesione dell’insieme; 5) la scelta di una ipotesi «ottimista», fondata su di un considerevole tempo di avvertimento, inficia la credibilità della difesa e della dissuasione. Il rifiuto ostinato di considerare «the worst case», l’ipotesi più sfavorevole e cioè, al contrario, quella più favorevole per l’avversario, rende precaria e fragile la pianificazione in vigore, 6) la «non disponibilità» operativa delle divisioni di intervento durante i periodi di week-end o di vacanza altera ulteriormente la credibilità delle loro missioni di sicurezza e implica una cospicua perdita di rendimento del capitale investito ai fini della sicurezza, 7) la vulnerabilità delle forze classiche a un attacco di sorpresa che comprometta la loro terza dimensione, aerotrasporto o elitrasporto, compromette il loro spiegamento sulle posizioni operative e cioè la realizzazione della strategia prevista.
Di fronte a questa situazione preoccupante, tale da far credere che tutti gli sforzi sopportati per la sicurezza dell’Europa sono stati vani, che cosa bisogna fare per ristabilire la fiducia degli Europei e la credibilità della dissuasione? Ci manca lo spazio per descrivere in dettaglio le misure necessarie sul piano politico e su quello militare. Sembra certo che s’imponga una «europeizzazione» della difesa. L’armonizzazione e anche l’integrazione settoriale delle attuali politiche di difesa devono essere intraprese al più presto sotto l’egida di un gruppo di lavoro europeo. Gli studi di questo dovrebbero occuparsi dell’unificazione dei metodi tattici, dell’approntamento di un bilancio comune per la ricerca e la produzione di materiali standardizzati, della struttura e dei compiti di una «Agenzia europea per gli armamenti», della razionalizzazione dei periodi di ferma, dei programmi comuni di formazione e addestramento, del ruolo dei quadri, e delle forze di riserva ecc. Ma è evidente che senza strutture politiche adeguate nessun progresso essenziale sarà realizzato. In questo campo il Parlamento europeo dovrebbe giocare un ruolo eminente. Tutto ciò che potrà essere intrapreso per rafforzare istituzionalmente la difesa europea favorisce l’efficacia e l’omogeneità delle nostre forze armate. Ma il problema essenziale: «come rinforzare la dissuasione e opporsi efficacemente a un attacco di sorpresa» non potrà essere risolto senza misure militari adeguate.
Attualmente la caratteristica della difesa dell’Europa è quella di riposare su una concezione strategica lineare sottoposta all’alea di una rottura nei punti deboli, suscettibile di provocare la disintegrazione dell’insieme. Le riserve non sono in grado di arrivare nel tempo voluto; la profondità del dispositivo è inesistente; i settori di difesa sono estesi su decine di chilometri, il che dà l’impressione del «vuoto sul campo di battaglia». Si può fare riposare la difesa dell’Europa su un colpo di poker, che presuppone che l’avversario ci accordi dei tempi lunghi, che il nostro schieramento si effettui senza scontri, che un dispositivo lineare non sia perforato in nessun luogo, che la decisione di impiegare le armi nucleari sia presa al momento opportuno e che le riserve d’oltre mare arrivino al momento giusto?
È in questa atmosfera di beato ottimismo che noi abbiamo vissuto per vent’anni, grazie alla superiorità nucleare degli Stati Uniti. Ma quel tempo è passato e bisogna sostituire alla difesa lineare la difesa in superficie, appoggiandosi su di una mobilitazione regionale e istantanea di centinaia di migliaia di riservisti della Bundeswehr, in vista di creare un’armatura efficace per le divisioni alleate, da cui consegua una simbiosi fra queste ultime e le forze territoriali di combattimento. È questo il solo e unico mezzo di sfuggire al dilemma «capitolazione o olocausto nucleare» e di dare una nuova dimensione alla strategia della dissuasione. Le teorie del comandante Brossolet e dei ricercatori di Los Alamos, gli scritti recenti del generale Löser, vanno nello stesso senso. Al di là della loro funzione difensiva, in cooperazione con le divisioni classiche, le forze territoriali costituiscono in potenza — nel caso in cui l’aggressione dovesse aver luogo davvero — il nucleo di una resistenza armata che rimetta in gioco la volontà di resistenza dei popoli europei in generale e della nazione tedesca in particolare. Si pensa forse che questa prospettiva non possa costituire di per se stessa un elemento di dissuasione altrettanto determinante quanto l’utilizzazione peraltro problematica di un arsenale nucleare che comporterebbe la distruzione di quanto si vuole difendere? Il nostro scopo non è quello di «fare la guerra» ma quello di prevenirne lo scatenamento. La costituzione di forze territoriali, concepite su tale base, è di natura tale da valorizzare la difesa europea e da allontanare lo spettro di una catastrofe che noi vogliamo evitare a qualunque costo. Come ha detto Marc Geneste «la percezione da parte degli europei, della minaccia che grava sul loro continente, non era, e non poteva essere, identica a quella degli americani». E ancora «le possibilità crescenti dei sovietici in materia di armamenti nucleari strategici hanno sempre più concentrato l’attenzione degli Stati Uniti sullo spazio aereo e per gli Americani ‘la linea blu dei Vosgi’ è la stratosfera».
È ora che cessi questo assopimento del pensiero strategico europeo, dietro ii comodo pretesto di un «ombrello nucleare» la cui realtà è dubbia. Noi esprimiamo l’auspicio che questo avvertimento sia seguito da misure concrete e rapide. Se così non fosse si potrebbe dubitare della volontà dell’Europa di garantire la propria sopravvivenza. È questo per l’appunto il parere di Marc Geneste: «fra il sipario di ferro e l’Atlantico non c’è più spazio sufficiente per riprendersi da un errore tattico iniziale in un conflitto armato. Le forze occidentali non possono permettersi di perdere la prima battaglia terrestre perché dopo un simile disastro le armate del Patto di Varsavia raggiungerebbero le rive dell’oceano e là un muro dell’Atlantico nucleare suggellerebbe per sempre la sorte dell’Europa. Con ogni evidenza noi abbiamo i mezzi per scongiurare questo destino malefico: basta che i nostri governanti dimostrino di avere la volontà politica perché ciò avvenga.
Robert Close
* Nei «Documenti» di questo numero compaiono alcuni testi e interventi e la risoluzione finale del Convegno «Il ruolo internazionale della Comunità europea e i problemi della difesa dell’Europa», organizzato dall’UEF il 5 aprile 1981 a Torino. Il pensiero della rivista sul problema della difesa è contenuto nell’editoriale. Ci è parso comunque opportuno offrire ai lettori l’espressione di autorevoli punti di vista che possono anche non coincidere col nostro.