Anno XXIII, 1981, Numero 2, Pagina 111
LA PROPOSTA DEL MFE PER IL DIBATTITO SULLA
RIFORMA ISTITUZIONALE DELLA COMUNITÀ*
I. — L’unificazione dell’Europa è in pericolo. Siamo giunti ad un punto nel quale la Comunità stenta perfino a mantenere la politica agricola comune. Per il resto, il bilancio degli anni Settanta è fallimentare. Con la sola eccezione di quella agricola, le politiche comuni sono, da sempre, più un miraggio che una realtà. I problemi dell’energia, della riconversione industriale, dell’inflazione e dell’occupazione vengono affrontati solo a parole; le scadenze della costruzione del sistema monetario europeo non sono state rispettate dai governi nazionali. La presenza dell’Europa nel mondo è evanescente e saltuaria come un fuoco fatuo. Non si tratta di valutazioni pessimistiche, ma di fatti ammessi da tutti anche se quasi tutti si rifiutano poi di ammettere la verità elementare che li accomuna: i problemi dell’Europa restano senza soluzioni perché sono problemi di governo, e non c’è ancora, nonostante il voto europeo, un governo europeo degno di questo nome. Quale autorità farà, sulla base dello scudo, una politica monetaria nei confronti del dollaro? Quale autorità gestirà le risorse necessarie per sviluppare le politiche comuni? Quale autorità farà le scelte politiche, economiche e sociali indispensabili a questo riguardo? Con il sostegno di quali forze se non si collega l’esecutivo europeo all’elettorato europeo? Ha senso parlare dei fini senza parlare dei mezzi? Invece di inseguire chimere bisognerebbe tener presente che senza una prima forma di governo democratico europeo non si può nemmeno formare la volontà politica europea che manca e della quale abbiamo bisogno, perché l’impossibile, la capacità di governo senza governo, si può sognare, ma non certo pensare e tanto meno volere.
Nel quadro di una valutazione realistica si può certamente affermare che, nonostante il regresso dell’unificazione, il riflesso elementare del bisogno di unità, rafforzato dal diritto di voto europeo e dall’impossibilità di revocarlo salvo catastrofi, basta ancora per scongiurare il pericolo della ricaduta nelle funeste divisioni del passato; ma non si dovrebbe tuttavia dimenticare che per la mancanza di una unità veramente attiva ed efficace gli europei pagano ogni giorno un prezzo sempre più alto in termini politici, economici e sociali, e si trovano ormai di fronte al rischio di un arretramento storico dell’Europa, che si profila già, sul terreno della nuova economia, nei confronti del Giappone e degli USA. Questa è la situazione da affrontare; quasi tutti sanno, e spesso dicono apertamente, che non si può affrontarla a ranghi dispersi, con i soli governi nazionali. Ma se ciò è vero, è anche vero che ci resta solo la scelta tra un mito — il mito di dieci (e poi dodici) governi nazionali che sulle questioni più importanti dovrebbero trovarsi sempre d’accordo e prendere sempre le stesse decisioni — e la realtà della lotta per il governo europeo. È in questo modo che bisogna affrontare il problema della riforma delle istituzioni della Comunità.
II. — Nella discussione sul governo europeo non bisogna pretendere di applicare meccanicamente al caso europeo — che è un caso nuovo, da prendere in considerazione per la sua peculiarità storica — questo o quel modello federale già attuato altrove; né presupporre che i risultati della discussione sulla crisi dello Stato nel contesto nazionale siano senz’altro validi, in quanto tali, per il caso del governo europeo. Ciò che si tratta di affrontare è il problema concreto della Comunità e del suo sviluppo. Ogni forma di Stato o di Comunità ha i suoi problemi. Il problema della Comunità europea è quello di rendere efficace il suo funzionamento che è sempre stato scadente e lo diventa sempre di più; e di rendere possibile il suo rafforzamento, che è bloccato da tempo, come mostrano a ripetizione il fallimento del primo tentativo di unione economico-monetaria (secondo i governi nazionali avremmo dovuto avere nel 1980 la moneta europea e un centro autonomo di decisione), il fallimento dell’Unione (sempre secondo i governi nazionali, nel 1980 avremmo dovuto avere l’Unione europea) e la paralisi stessa del governo della Comunità.
È necessaria una premessa. L’idea del governo europeo implica necessariamente l’idea di uno Stato europeo, che costituisce del resto la sola soluzione realistica dei progetti di Unione europea come completamento della Comunità economica. Ma la costruzione di uno Stato europeo non si può effettuare con un solo atto costituzionale e costituente. In ogni caso, anche la fase costituzionale dell’unificazione europea, come quella pre-costituzionale già in corso — e che si può considerare conclusa e oltrepassata con il riconoscimento del diritto di voto europeo — avrà un carattere graduale. La ragione sta nel fatto che, a differenza delle imprese costituzionali del passato, uno Stato europeo cui dare forma nuova non esiste. Questo Stato è da costruire; e la sua costruzione può essere solo graduale perché si tratta di aggiungere, alla struttura attuale della Comunità, una diplomazia europea, una difesa europea, e così via. Ne segue che la questione del governo europeo comporta due problemi nettamente distinti: quello, per ora soltanto teorico, dell’assetto finale della Comunità (Unione, cioè Stato federale compiutamente sviluppato), e quello pratico delle scelte da fare nel contesto politico attuale per assicurare sia il funzionamento efficace e democratico della Comunità, sia il progresso dell’unificazione europea (rafforzamento e allargamento).
Circa il primo problema c’è una osservazione importante da fare. Essa riguarda il collegamento che si può e si dovrebbe stabilire tra lo studio del problema dell’assetto finale della Comunità e la situazione globale dei paesi democratici. Nel mondo occidentale c’è la crisi dello Stato democratico-rappresentativo, con conseguenze sempre più gravi sulla capacità di preparare l’avvenire, sulla concezione del rapporto tra autorità e libertà, sul legame tra i cittadini e lo Stato, sulla situazione morale della gioventù, ecc.; e c’è da tempo una discussione teorica molto ampia, ma ancora priva di risultati concreti, a questo proposito. Orbene, è evidente che, almeno per quanto riguarda l’Europa, questa discussione prenderebbe davvero in esame la realtà storica effettuale, e potrebbe preparare davvero le scelte concrete di domani, se si tenesse conto del fatto che si tratta di riformare lo Stato nazionale nel quadro della costruzione dello Stato europeo; cioè, in termini teorici, di correggere lo Stato assistenziale con una forma di Stato, quella europea, infinitamente più libera da pressioni corporative per ragioni obiettive: le dimensioni ridotte della spesa pubblica europea (illustrate in modo esauriente nel rapporto McDougall). In questo vasto quadro teorico e pratico si potrebbe anche far capire finalmente a tutti che nella prospettiva di una soluzione federale l’idea di mantenere gli Stati nazionali e di creare lo Stato europeo non implica affatto che gli Stati nazionali dovrebbero sacrificare la loro indipendenza a favore dello Stato europeo. C’è infatti federalismo se, e solo se, si crea un insieme di governi indipendenti e coordinati.
Circa il secondo problema, quello delle scelte istituzionali da fare nel concreto politico attuale, si tratta, in primo luogo, di tener presente quali sono gli ostacoli che hanno bloccato il funzionamento della Comunità. Questi ostacoli sono noti. Non si può dar vita alle politiche comuni senza sciogliere il nodo del bilancio e della fiscalità, non si possono sviluppare le politiche comuni sino al grado necessario per assicurare la convergenza delle politiche economiche nazionali senza la moneta europea, e non si può, infine, assegnare alla Comunità questo compito senza affidarle anche quello del controllo del Mercato comune, in modo da garantire l’evoluzione equilibrata e ordinata dell’economia europea. Il problema è questo ed è impossibile risolverlo senza un governo europeo capace di usare in modo autonomo le tre leve della fiscalità, della moneta e del bilancio. Con il Consiglio dei ministri, cioè con un mostro a dieci teste, non si governa, e se non si può governare è del tutto assurdo proporsi di sviluppare l’unione economico-monetaria e le politiche comuni. Le questioni da discutere riguardano dunque la forma e le competenze del governo europeo, non la necessità di costituirlo. Bisogna pertanto studiare una forma di governo che sia: a) democratico, non solo perché non si deve rinunciare alla democrazia, ma anche perché solo con la democrazia si possono mobilitare le forze sociali e politiche indispensabili per le scelte richieste dallo sviluppo dell’unione economico-monetaria e delle politiche comuni; b) capace di agire nella sfera economica e in quella monetaria secondo gli scopi definiti dai Trattati di Roma, e valersi della struttura amministrativa attuale della Comunità; c) capace di fornire un punto di appoggio per il rafforzamento della Comunità, cioè non solo per l’allargamento, ma anche per l’estensione graduale del suo ruolo nei settori della politica estera e della difesa.
III. — La prima questione, quella della democraticità, richiede l’attribuzione del potere legislativo al Parlamento europeo e di quello esecutivo al governo europeo (ciò comporta in pratica la trasformazione della Commissione in un vero governo — sia pure con competenze limitate al solo settore dell’economia — e l’esclusione totale, in questo settore, del Consiglio dei ministri). Ogni altra soluzione sarebbe puramente cervellotica, perché si baserebbe addirittura sull’ipotesi di una Comunità democratica che potrebbe fare a meno della distinzione tra il potere legislativo e quello esecutivo. La seconda questione, quella della capacità di azione nella sfera economico-monetaria, pone i problemi, in parte tradizionali e in parte nuovi, del sistema federale di governo (coordinamento dei governi nazionali e del governo europeo nel quadro della difesa costituzionale della loro indipendenza e della loro eguaglianza). Per risolverli è necessario un Parlamento bicamerale, e non solo l’artificio dell’aumento del numero dei deputati dei paesi più piccoli, come nell’attuale Parlamento monocamerale: artificio che inquina la proporzionale senza conseguire il risultato che bisogna ottenere, quello della eguaglianza di tutti gli Stati membri, senza alcun rischio di egemonia da parte degli Stati più grossi. Per ottenere questo risultato ci sono solo due mezzi: o il diritto di veto per tutti gli Stati membri (e quindi l’impossibilità di un vero governo comune), o una Camera degli Stati, nella quale ogni Stato abbia un peso sufficiente per partecipare in condizioni di parità al processo decisionale comune.
Vale anche un’altra osservazione fondamentale, che riguarda i problemi moderni del sistema federale. Un Parlamento bicamerale e, in particolare, il ricorso a decisioni prese in comune dai due rami del Parlamento sono necessari in tutti quei casi nei quali si tratta di garantire sul terreno politico, e non solo su quello giuridico, l’indipendenza dei governi nazionali e di quello europeo. Questi casi sono quelli delle competenze che non possono essere divise in modo esclusivo (competenze concorrenti) e specialmente di quelle il cui esercizio può alterare l’equilibrio tra le parti, come in effetti è accaduto anche negli Stati Uniti d’America. Il caso più importante è quello della fiscalità, e più precisamente quello della divisione delle risorse tra i governi nazionali e quello europeo, che non può essere fatta né sulla base della qualità delle imposte, riservandone alcune alle nazioni e altre all’Europa (come nelle prime federazioni), né con limiti quantitativi precostituiti, cioè con vincoli che impedirebbero di far corrispondere la politica economica alle necessità della situazione. Il solo mezzo per impedire il predominio di una qualsiasi delle parti sta nell’affidare la decisione sulla divisione delle risorse alla sola istanza nella quale si fanno valere sia la volontà degli Stati sia la volontà dell’Unione: quella delle due camere riunite. Con questa istanza decisionale si potrebbero fissare, all’inizio di ogni legislatura, i grandi obiettivi economici del quinquennio, stabilendo nel contesto stesso di questo dibattito la divisione più opportuna delle risorse. Questa soluzione richiederebbe evidentemente un collegamento stretto tra il Parlamento e l’esecutivo, cioè un governo parlamentare. In questa prospettiva il Consiglio europeo potrebbe esercitare la funzione di una presidenza collegiale dello Stato o quasi-Stato europeo, e il Consiglio dei ministri potrebbe conservare la sua funzione attuale per quanto riguarda le competenze non ancora attribuite al sistema Parlamento-governo.
La terza questione, quella del rafforzamento, permette di porre in modo netto il problema della ripartizione delle competenze tra le sfere nazionali e quella europea. Se non erro, valgono, a questo riguardo, due esigenze fondamentali che richiedono soluzioni diverse. L’orientamento potrebbe essere il seguente: le competenze necessarie per l’uso autonomo delle leve della fiscalità, della moneta e del bilancio (nel quadro federale delineato) dovrebbero appartenere al sistema Parlamento-governo da instaurare subito. Il progresso da compiere in questo settore dovrebbe pertanto essere realizzato, entro certi limiti, con il principio dei «poteri impliciti», e prevedere un trasferimento di competenze senza veti nazionali (revisione costituzionale autonoma con la garanzia federale). Diverso è invece il caso per la sfera d’azione che non è coperta né dai Trattati di Roma né dalla concezione dei poteri impliciti nei limiti di questa sfera. Queste competenze, in primo luogo quelle relative alla politica estera e alla difesa, non possono ovviamente passare dagli Stati alla Comunità senza l’approvazione degli Stati, senza progetti ben articolati, e senza una transizione efficace. Per questi settori di competenze dovrebbe pertanto essere conservata la procedura del trattato internazionale, che conferisce ad ogni Stato il diritto di veto.
* Si tratta del testo sulla riforma delle istituzioni europee presentato da Albertini alla Direzione del MFE del 16 maggio 1981.