IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIV, 1982, Numero 4, Pagina 216

 

 

XI CONGRESSO DEL MFE*
(Bologna, 5-7 novembre 1982)
 
 
L’orizzonte mondiale si oscura sempre di più. I mali del mondo si accrescono e si aggravano. E non si vede ancora una via d’uscita. Non si profila ancora, da alcuna parte, né un cambiamento di rotta, né uno schieramento di forze per promuoverlo ed affermarlo. Bisogna dunque dichiarare lo stato di pericolo. La ragione non conosce altre vie.
Il male peggiore, la guerra, è sempre presente. Dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, c’è sempre stata una guerra in qualche parte del mondo. Ma ora siamo giunti ad un punto nel quale il sistema politico mondiale non controlla più il ricorso alle armi e aggrava pertanto il rischio di una guerra nucleare. Le guerre degli ultimi anni non hanno più il carattere di eventi privi di influenza sull’equilibrio mondiale, o di eventi gestiti politicamente dalle grandi potenze. Queste guerre, pur avendo ripercussioni molto gravi ovunque, sono imposte da Stati piccoli e medi alle stesse superpotenze che ormai non riescono più né ad impedirle, né a controllarne lo svolgimento.
Ciò mostra con l’evidenza dei fatti che le grandi potenze stanno perdendo il controllo del sistema politico mondiale e non sono più la sede nella quale si formano le iniziative capaci di preparare l’avvenire. Da ciò nasce la sensazione che il mondo vada alla deriva, e il timore, fortemente sentito anche se non sempre confessato, che non esista la possibilità di un miglioramento qualitativo della situazione internazionale. In questo quadro i grandi problemi del mondo — da quello della fame a quello della guerra, da quello di un nuovo ordine economico internazionale a quello della distensione — sembrano ormai sempre più difficili da risolvere o addirittura insolubili.
C’è un legame tra questa situazione e la crescente militarizzazione della politica estera degli USA e dell’URSS. Si tratta del tentativo funesto — foriero solo di caos se non sarà fermato in tempo — di far valere il peso delle armi al posto del prestigio perduto e dell’influenza che le grandi potenze non riescono più ad esercitare in termini veramente politici proprio perché il loro potere declina e non orienta più in modo positivo le aspettative dell’opinione pubblica mondiale. È dunque insensato pensare che le grandi potenze possano, con la loro condotta egemonica, promuovere la riduzione degli armamenti convenzionali e nucleari, la distensione e la collaborazione tra i popoli su un piano di eguaglianza.
A questo peggioramento della politica internazionale corrisponde l’aggravamento della situazione economica. I paesi a economia di mercato sono sempre meno capaci di controllare il processo economico. Alcuni tra essi conoscono a un tempo i mali della disoccupazione e dell’inflazione; altri sono riusciti temporaneamente a ridurre l’inflazione, ma solo con l’aumento della disoccupazione, l’arresto dello sviluppo, e la recessione. L’incertezza si diffonde ovunque, l’avvenire risulta sempre più difficile da pensare e non si riesce a vedere quale potrebbe essere la politica economica da mettere in atto per salire la china. È solo a causa di ciò che si parla, anche se a torto, della crisi teorica della politica keynesiana come della crisi storica dello Stato sociale.
Nei paesi del socialismo reale, che pretendevano orgogliosamente di non essere esposti, come i paesi capitalisti, al rischio di crisi economiche, si manifestano in realtà fenomeni di inflazione, di arresto dello sviluppo, di recessione, di grave indebitamento con l’estero ecc. E anche in questi paesi è venuta a mancare, con la crisi del disgelo e il fallimento dei tentativi di riforma del sistema economico, la capacità di pensare l’avvenire e di impostare programmi economici nuovi.
Nei paesi del Terzo mondo la situazione è ancora più grave a causa dello scarto crescente tra le legittime aspettative della popolazione e i risultati troppo modesti che si ottengono. È un fatto che il divario rispetto al resto del mondo aumenta, e che le ragioni di scambio peggiorano. Il numero delle persone morte per fame non diminuisce ma le spese per le armi aumentano. A causa di ciò la rassegnazione e il fatalismo prendono il posto della speranza. Nello stesso tempo nei paesi ricchi e fortunati, ciascuno dei quali pensa sempre più a se stesso, come se il suo destino non dipendesse da quello di tutti, si diffonde una colpevole indifferenza, che cerca di nascondersi ipocritamente dietro le vuote dichiarazioni di principio o le imprese ancora vane delle organizzazioni internazionali.
A questa situazione, così grave tanto sul piano politico quanto su quello economico, il mondo ha saputo reagire sino ad ora solo con una lamentevole confessione di impotenza, o addirittura invocando gli uni la crisi dell’Occidente, gli altri quella del socialismo reale, o dei valori storici, o della stessa ragione. Ma la realtà è un’altra. Non siamo di fronte né ad un destino cieco, né ad una maledizione. Siamo di fronte ad un mondo che si trasforma sempre più velocemente e ad una prassi politica sempre più statica. Siamo di fronte ad una politica mondiale che persevera nell’errore solo perché le grandi potenze che controllano il mondo non hanno più la possibilità di realizzare una politica veramente diversa, ma nessuno pensa ancora ad una vera alternativa o si rifugia nelle alternative nazionali come se fosse possibile cambiare il mondo cambiando il governo del proprio paese. Non bisogna dunque invocare la crisi della ragione. Bisogna contestare l’egemonia delle grandi potenze e sconfiggere il bipolarismo per far avanzare l’intero genere umano sulla via dell’unità, della giustizia, della democrazia internazionale e della pace.
La critica del bipolarismo è iniziata da tempo. Ma questa critica resta velleitaria perché non si fonda ancora sul proposito reale di sostituire gli attuali strumenti bipolari di controllo della situazione mondiale con strumenti multipolari. Ciò che bisogna formulare in tempo e con chiarezza, prima di una nuova sconfitta storica delle forze della democrazia e del progresso, è dunque la via della transizione al multipolarismo. È questa la pietra di paragone di tutti i disegni politici del presente. Ogni altro proposito sarebbe vano. O si sostituisce gradualmente il bipolarismo con il multipolarismo, o si resta prigionieri della situazione attuale, cioè di una situazione priva di alternative reali sia per quanto riguarda i programmi politici ed economici, sia per quanto riguarda la promozione politica e sociale delle forze nuove che il processo storico crea incessantemente.
È dunque tempo di capire che il primo passo per il superamento del bipolarismo può essere fatto subito, sul piano economico, in Europa occidentale. In Europa c’è l’alternativa al dollaro come strumento esclusivo di controllo delle relazioni economiche internazionali: la moneta europea. Basta il senso comune per stabilire che la moneta europea costituirebbe uno strumento multipolare (non egemonico) di controllo delle relazioni economiche internazionali; e per capire che con questo strumento multipolare potrebbero farsi valere, anche sul piano mondiale, le forze oggi costrette dalla mancanza di strumenti efficaci sul piano internazionale, e dalla debolezza degli Stati nazionali, alla subordinazione e all’impotenza. Ciò mostra che con la moneta europea si potrebbe ottenere una prima modificazione reale dell’equilibrio mondiale, e quindi la possibilità di prendere finalmente delle decisioni che si sono rivelate fino ad ora impossibili, soprattutto per quanto riguarda il Terzo mondo. È in una situazione di potere di questo genere che le forze favorevoli al nuovo ordine economico internazionale potrebbero finalmente affermarsi e imprimere una svolta negli affari del mondo.
Si tratta dunque di tener presente che, sotto il profilo economico, la creazione della moneta europea è perfettamente possibile. Basta osservare: a) che la moneta europea è uno sviluppo dello SME già previsto dai governi; b) che c’è, a questo riguardo, una coincidenza dell’interesse nazionale con l’interesse europeo e con quello mondiale. Per gli europei vale il fatto che, nella situazione creata dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, la divisione monetaria europea (cioè la sopravvivenza anacronistica delle monete nazionali nel Mercato comune) non può non rendere impossibile qualunque forma non marginale di politica economica europea. È questo il fattore che ha fermato l’integrazione europea all’inizio degli anni Settanta; e che, se perdurasse, la condannerebbe al fallimento, con conseguenze incalcolabili per tutti. Per il Terzo mondo vale il fatto che solo con la moneta europea si potrebbe, come si è già osservato, eliminare il monopolio del dollaro e creare un nuovo ordine economico internazionale. E infine, per il mondo interno, vale il fatto che solo liberando l’enorme domanda potenziale del Terzo mondo si potrebbe dar vita ad un nuovo periodo stabile di sviluppo.
Si giunge così alla questione politica fondamentale: non si può creare una moneta europea senza creare nel contempo una prima forma di governo europeo. In concreto si tratta di dotare la Comunità di un esecutivo capace di gestire lo sviluppo della unione economico-monetaria, cioè di fondare il governo della Comunità sulla volontà dei cittadini, anche per non ridurre l’elezione europea ad una farsa e ad una presa in giro dei principi democratici. Va dunque fatto osservare, a chi non ne tiene ancora conto, che l’azione rivolta a questa finalità è già incorso. Grazie alla lucida iniziativa di Altiero Spinelli, il Parlamento europeo ha istituito una Commissione permanente per la riforma istituzionale della Comunità; e si è solennemente impegnato, con il voto del 6 luglio 1982, ad elaborare entro la fine del 1983 un progetto di riforma istituzionale della Comunità da sottoporre alla ratifica dei competenti organi costituzionali dei paesi membri.
La via per la creazione di un vero esecutivo europeo è dunque aperta. E se è vero che i governi sono ancora riluttanti, e che i partiti sono ancora inerti, è anche vero che esiste una leva per far cadere questo ostacolo. Questa leva sta nel fatto che ciascun governo, ciascun Parlamento e ciascun partito dovrà dire sì o no, in prima persona, al progetto di riforma del Parlamento europeo. Non ci sono scappatoie, e non sarà facile dire no. Quando il Parlamento europeo avrà terminato la redazione del progetto, la parola passerà ai governi e grazie a ciò, anche ai Parlamenti e ai partiti. La parola passerà ai governi nazionali perché sono i governi nazionali che esercitano in ogni caso, e per forza, a questo riguardo, tutti i poteri, ivi compreso quello di portare a conclusione, o di insabbiare, i risultati del lavoro costituzionale del Parlamento europeo. E va detto che, se almeno un governo lo vorrà, non si potrà insabbiare nell’anonimato il progetto di riforma del Parlamento europeo senza che si venga a sapere quali governi erano contro e quali a favore. Ogni governo ha infatti la piena facoltà di dare al progetto del Parlamento europeo, senza modificarlo, la veste di un progetto di trattato da proporre agli altri Stati perché lo sottoscrivano e lo sottopongano alla ratifica dei rispettivi Parlamenti nazionali. Ciò significa che i governi propensi a dire no per non cedere alcun potere all’Europa sarebbero costretti a fare pubblicamente questa scelta negativa, e ad assumere in prima persona l’intera responsabilità del rifiuto di fronte ai loro cittadini, all’opinione pubblica europea e alla stessa opinione pubblica mondiale. Ed è evidente che un no così netto all’Europa, che costituisce la vera forza di ogni Stato nazionale, non è facile; e che potrebbe divenire addirittura impossibile qualora i termini del problema fossero ben noti a tutti.
Il compito del MFE è dunque chiaro. Noi dobbiamo batterci perché il governo italiano sia quello che prende l’iniziativa di sottoporre il progetto del Parlamento europeo a tutti gli altri governi. È un compito difficile ma non impossibile. Dobbiamo tener presente che il governo italiano non può rifiutare l’Europa senza squalificarsi di fronte ai cittadini. E dobbiamo inoltre tener presente che quando, con la seconda elezione europea, il fatto assumerà un grande rilievo pubblico, né il Governo, né il Parlamento, né i partiti, potranno dire no senza pagare un prezzo altissimo.
Si tratta dunque di far presente sin da ora questa situazione al governo, al Parlamento e ai partiti. Bisogna chiedere sin da ora al governo italiano di inviare un messaggio solenne al Parlamento europeo per incoraggiarlo a completare il progetto di riforma e per assicurarlo che non lo lascerà cadere. E per impedire che nel momento più difficile, quello iniziale, l’inerzia soffochi tutto, dobbiamo sin da ora interessare le sezioni locali dei partiti, e far loro presente quale rischio correrebbe il partito che risultasse pubblicamente contrario al progetto del Parlamento europeo. Lo sviluppo di questi contatti ci permetterà di organizzare convegni e manifestazioni pubbliche, e di interessare la stampa locale. L’approssimarsi dell’elezione europea rafforzerà la nostra campagna. La nostra conclusione deve essere perciò una sola: abbiamo vinto la battaglia per il voto europeo, possiamo vincere quella per il governo europeo.


* A documentazione dei risultati politici dei lavori dell’XI Congresso del MFE, pubblichiamo il documento di politica generale presentato da Mario Albertini e approvato all’unanimità dal Congresso.

 

 

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