IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXV, 2023, Numero 1, Pagina 28

Il prossimo volo del calabrone:
il percorso verso una politica fiscale comune dell’Eurozona[*]

MARIO DRAGHI

Signore e Signori,

è un grane onore per me tenere la Martin Feldstein lecture di quest’anno e sono molto grato a Jim Poterba e al National Bureau of Economic Research (NBER) per questo invito.

L’NBER è un pilastro del pensiero economico mondiale: a partire dalla sua fondazione, più di un secolo fa, i suoi membri hanno spinto i confini della ricerca accademica a livelli semplicemente inimmaginabile all’epoca; avete indirizzato il lavoro dei dirigenti politici e contribuito a rendere il mondo un posto migliore. Personalmente vi sono molto grato per le ricerche che avete condotto durante il mio periodo di lavoro al governo e nelle banche centrali. Hanno evitato errori, rafforzato le nostre convinzioni e reso le nostre politiche molto più efficaci.

Vorrei anche rendere omaggio al compianto Marty Feldstein. Ha rappresentato una figura di rilievo per tutta la mia carriera; è stato grazie a un suo invito, infatti, che ho partecipato al primo Summer Institute nel 1978. Da allora, ha continuato a influenzare il mondo accademico e politico in una misura che pochi altri economisti hanno eguagliato. I sui lavori sulla politica fiscale, l’economia pubblica e il comportamento del risparmio hanno trasformato il modo in cui consideriamo intere aree di ricerca. Questo perché la ricerca di Marty ha sempre combinato idee brillanti con solide prove empiriche e rilevanza politica. In qualità di presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente Ronald Reagan, ha introdotto un cambiamento di paradigma nel rapporto tra governi e mercati, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Al NBER, la sua gestione ha contribuito a trasformare questa istituzione nel motore intellettuale che è oggi. E ha fatto tutto questo continuando a prendersi cura degli studenti universitari e dei dottorandi, facendo da mentore a molte generazioni di economisti. Nel mondo dell’economia, è difficile pensare a qualcuno che, in un modo o nell’altro, non abbia un debito di gratitudine nei confronti di Marty.

* * *

La mia conferenza di oggi si concentrerà su un argomento che stava molto a cuore a Marty: la creazione dell’Unione Monetaria Europea e il suo futuro, su cui Marty era estremamente scettico.

La difficoltà macroeconomica fondamentale nella formazione di un’unione monetaria è stata individuata da Robert Mundell nel 1961 ed è costituita dalla gestione degli shock asimmetrici. I paesi che aderiscono a una moneta comune rinunciano alla possibilità di definire la propria politica monetaria e di utilizzare il tasso di cambio come strumento di stabilizzazione. Poiché la politica monetaria e la politica del tasso di cambio verrebbero così destinate alla gestione degli shock comuni, sarebbero necessari altri meccanismi di aggiustamento per affrontare gli shock asimmetrici e per evitare che questi inneschino crolli regionali prolungati. Mundell ha identificato questi meccanismi di aggiustamento nei trasferimenti fiscali e nella mobilità del lavoro e dei capitali, che potrebbero stabilizzare la domanda ex post nelle regioni depresse. In successive pubblicazioni, è stato riconosciuto anche il ruolo cruciale della condivisione del rischio attraverso l’integrazione del mercato dei capitali, che limiterebbe ex ante l’entità degli shock locali.[1]

L’euro, tuttavia, è andato avanti rispettando poche di queste condizioni. I trasferimenti fiscali tra gli Stati membri sotto forma di assunzione di debiti comuni sono stati vietati dal Trattato di Maastricht — rispecchiando la filosofia secondo cui i Paesi dovrebbero “tenere in ordine la propria casa” e non fare affidamento sulla generosità degli altri. L’aggiustamento regionale attraverso la mobilità della manodopera era poco sviluppato: gli studi dell’epoca hanno rilevato che la maggior parte degli shock occupazionali veniva assorbita attraverso variazioni del tasso di occupazione piuttosto che attraverso la migrazione.[2] Inoltre, non c’è stato alcun serio tentativo di integrare i mercati finanziari europei, al di là di un morbido allineamento normativo.

Allora, perché l’hanno fatto? Viste da questa parte dell’Atlantico, le ragioni erano spesso incomprensibili. Molti economisti hanno sostenuto che l’Unione monetaria europea era destinata a fallire, che le élite avevano ingannato i loro popoli e che le conseguenze sarebbero state drammatiche, bocciando l’UE sia come progetto economico che politico. Come ha avvertito Marty Feldstein in un famoso articolo del 1997 su Foreign Affairs,[3] “se l’UEM dovesse nascere, come ora sembra sempre più probabile, cambierà il carattere politico dell’Europa in modi che potrebbero portare a conflitti in Europa”.

Ma esisteva sempre un’altra prospettiva, cioè che l’euro fosse la conseguenza di decenni di integrazione pregressa — in particolare l’evoluzione del mercato unico europeo — e che costituisse solo un ulteriore passo di un percorso molto più lungo verso l’unione politica. E attraverso la cosiddetta logica “funzionalista” dell’integrazione, in cui un passo avanti porta inesorabilmente a quello successivo man mano che si evidenziano le sue carenze, l’obiettivo finale dell’unione politica determinerebbe i necessari cambiamenti macroeconomici. Da questo punto di vista, la questione chiave non era se l’area dell’euro fosse un’area valutaria ottimale fin dall’inizio — evidentemente non lo era — ma se i paesi europei fossero disposti a farla convergere in quella direzione nel corso del tempo.

Il periodo immediatamente successivo alla creazione dell’euro, tuttavia, ha aumentato i dubbi degli scettici. È facile capire perché molti non abbiano ritenuto credibile questa narrazione politica, soprattutto dopo il lancio dell’euro e alla luce delle successive fasi iniziali dell’unione politica: quando gli europei hanno avuto la possibilità di dimostrare il loro impegno verso l’unione politica attraverso una costituzione europea, l’hanno rifiutata; e l’UE ha poi scelto di allargarsi all’Europa dell’Est a metà degli anni Duemila senza riformare le proprie regole decisionali, probabilmente indebolendo anziché rafforzando la propria natura politica.

Ma avendo partecipato ai negoziati per l’Unione monetaria all’inizio degli anni Novanta, come responsabile del Tesoro italiano, posso testimoniare che questa motivazione politica era reale. L’obiettivo di costruire un’Unione Europea sempre più stretta era profondamente radicato, nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e concepito soprattutto come un modo per evitare conflitti in Europa. La moneta unica era vista come un passo fondamentale verso questo obiettivo. Dal punto di vista politico, la priorità era quindi quella di cogliere il momento storico e non di aspettare che tutte le condizioni necessarie fossero soddisfatte. E c’era la genuina convinzione che l’impegno di base verso l’unità europea avrebbe creato la volontà politica di affrontare qualsiasi difetto di progettazione che fosse emerso lungo il percorso.

Così siamo andati avanti, aggirando le nostre contraddizioni, pur sapendo che c’erano serie preoccupazioni economiche, in particolare la mancanza di trasferimenti fiscali, e condizioni di partenza molto diverse tra gli Stati membri in termini di livelli di debito pubblico.

Il successo sarebbe dipeso dal soddisfacimento di tre condizioni.

In primo luogo, gli stabilizzatori di bilancio nazionali avrebbero dovuto essere in grado di operare liberamente, il che — date le dimensioni dei bilanci nazionali in Europa — avrebbe potuto fornire una sostanziale stabilizzazione degli shock locali. Secondo le stime dell’epoca, i bilanci nazionali avrebbero potuto fornire una stabilizzazione degli shock asimmetrici pari a quella del bilancio federale degli Stati Uniti.[4], [5]

In secondo luogo, l’impegno politico nei confronti dell’euro avrebbe dovuto creare trasferimenti impliciti al posto di quelli espliciti, grazie al fatto che i Paesi fiscalmente più deboli che “avrebbero preso in prestito” la credibilità di quelli fiscalmente più forti e avrebbero goduto di costi di finanziamento inferiori. Ciò avrebbe consentito ai governi di attuare politiche di stabilizzazione senza mettere a rischio il loro accesso al mercato.

In terzo luogo, le regole di bilancio avrebbero dovuto essere concepite e applicate in modo tale da rafforzare la fiducia nella solidità a medio termine delle finanze pubbliche, in modo che le espansioni anticicliche non generassero questioni di solvibilità fondamentali. In questo modo, le promesse alla base di questi trasferimenti impliciti non avrebbero mai rischiato di essere messe alla prova.

Durante il primo decennio dell'euro, le prime due condizioni sono state ampiamente soddisfatte.

I mercati hanno considerato gli emittenti sovrani dell’area dell’euro come sostanzialmente intercambiabili, con gli spread delle obbligazioni italiane che convergevano verso pochi punti base rispetto a quelle tedesche. Inoltre, gli stabilizzatori di bilancio nazionali hanno potuto operare con relativa libertà di fronte a shock moderati, come dopo l’11 settembre e lo scoppio della bolla delle dotcom.

Ma la terza condizione non si è verificata. Le regole fiscali europee sono state costruite intorno a limiti di deficit — con un tetto del 3% del PIL — che hanno generato una intrinseca pro-ciclicità. Ogni volta che un Paese cresceva rapidamente, si registravano entrate inaspettate che facevano apparire meno rigido il tetto del deficit, portando, di conseguenza, ad un aumento degli impegni di spesa e dei disavanzi strutturali. Ma se il ciclo si inverte bruscamente, quelle entrate evaporano mentre gli impegni strutturali rimangono, riducendo rapidamente lo spazio fiscale. Di conseguenza, di fronte allo shock molto forte conseguente al fallimento di Lehman, i disavanzi sono aumentati e i debiti pubblici si sono avvicinati a livelli che non potevano essere sostenuti solo dai trasferimenti impliciti. L’ambiguità costruttiva dell’impegno comune nei confronti dell’euro avrebbe dovuto essere colmata da piani dettagliati per ciò che sarebbe potuto accadere in extremis.

I governi hanno inizialmente risposto come speravano i “funzionalisti”, ampliando il quadro politico dell’area euro per consentire trasferimenti limitati sotto forma di assistenza finanziaria del tipo di quella del FMI. E lo hanno fatto con successo, lanciando il primo salvataggio della Grecia e un meccanismo di finanziamento comune europeo. Ma alla fine del 2010 i leader dell’UE hanno annunciato che i futuri salvataggi sarebbero stati soggetti alla ristrutturazione del debito sovrano: il cosiddetto “accordo di Deauville”. In un attimo, questa decisione ha interrotto i trasferimenti impliciti e ha inoculato il rischio di credito in tutte le obbligazioni sovrane europee.

Questo annuncio ci ha lasciato solo due scelte nette.

La prima era quella di accettare diffusi fallimenti sovrani per “resettare” l’Unione a livelli di debito più bassi, salvaguardando così il principio secondo cui gli Stati fiscalmente più forti non debbano pagare per quelli più deboli. Ma proprio perché i livelli di debito iniziali erano così elevati e il grosso dei titoli sovrani era concentrato nel sistema bancario dell’area euro, i default non potevano rimanere eventi contenuti se non in un numero di casi molto limitato. Temendo perdite di capitale e, nel peggiore dei casi, la ridenominazione in valute di valore inferiore, gli investitori hanno svenduto il debito pubblico di qualsiasi paese percepito come vulnerabile, innescando un circolo vizioso di peggioramento dei bilanci bancari, di inasprimento delle condizioni di credito e di crollo della crescita e, in ultima analisi, una profonda frammentazione finanziaria. Entro il 2012, gli spread rispetto ai titoli di Stato decennali tedeschi hanno raggiunto i 500 punti base in Italia e i 600 punti base in Spagna, con spread ancora più ampi in Grecia, Portogallo e Irlanda. Poiché queste economie rappresentavano un terzo del PIL dell’area euro, era impensabile che il resto dell’Unione non sarebbe stato trascinato a fondo senza un cambiamento di rotta.

La seconda opzione era quindi quella di rendere più espliciti i trasferimenti, cosa che alla fine l’Europa ha fatto, seppure in modo non ottimale. Ha ampliato il meccanismo di finanziamento comune, aumentando la condivisione del rischio attraverso i prestiti transfrontalieri all’interno dell’Unione. La letteratura recente rileva che, prima della crisi del debito sovrano, nell’area euro è stato assorbito solo il 40% circa degli shock nazionali, mentre una volta che tale assistenza ufficiale è stata attivata, ne è stato attenuato circa il 60%.[6] Questi prestiti hanno a loro volta facilitato una forma di trasferimento fiscale. Ha permesso di ristrutturare il debito greco, trasferendo risorse dagli obbligazionisti privati a creditori pubblici. Questi creditori pubblici hanno poi prolungato i loro prestiti per i decenni successivi a tassi di interesse fissi molto bassi, il che porterà nel tempo a un grande trasferimento intertemporale alla Grecia e agli altri Paesi che hanno ricevuto assistenza finanziaria. Questa risposta ha ulteriormente avvicinato l’area euro a un’area valutaria ottimale.

Ma i trasferimenti sono ancora lontani dal modello immaginato da Mundell. Il problema principale era che il loro effetto stabilizzante veniva compromesso, nei paesi che li ricevevano, dalla rigidità dei termini dei programmi di aggiustamento che li accompagnavano. Al contempo, le regole fiscali pro-cicliche dell’Europa hanno aggravato la debolezza della domanda trasformando una contrazione fiscale aggregata in uno shock recessivo. Poiché i paesi si sono sforzati di rimanere al di sotto dei limiti di deficit, il rigore fiscale dell’area euro, dal 2011 al 2013, ha ridotto di circa 4 punti percentuali il PIL potenziale anche nei paesi che disponevano di un ampio spazio fiscale e che non avevano subito pressioni di mercato, portando così a una riduzione della domanda di esportazioni da parte dei Paesi privi di spazio fiscale.

La difficoltà del cammino verso la costruzione di un’unione monetaria completa è illustrata dalle risposte divergenti in Europa a questi sviluppi. In Grecia e in altri Paesi, anni di austerità hanno alimentato un populismo crescente. Ma anche in Germania è cresciuto l’euroscetticismo, con la comparsa di nuovi partiti che si oppongono ai salvataggi e al lassismo percepito nelle loro condizioni, al punto che qualche anno dopo, quando la politica monetaria è divenuta fortemente accomodante, in parte per compensare gli effetti deflazionistici dell’inasprimento fiscale, il ministro delle Finanze tedesco ha affermato che essa è stata responsabile del 50% dell’ascesa dei partiti euroscettici nel suo paese.

A dispetto di tutti questi problemi, tuttavia, l’euro è sopravvissuto. I governi di tutti i colori e di tutti i paesi hanno continuato a sostenere il progetto, accettando di tenere a bordo anche gli Stati membri più deboli. Questo forte impegno politico è stato essenziale quando la Banca centrale europea ha annunciato nel 2012 che avrebbe fatto “tutto il necessario” per salvare l’euro — una decisione sancita dalla Corte di Giustizia Europea tre anni dopo. E gli investitori hanno smesso di scommettere contro la dissoluzione della moneta comune, sapendo che i decisori europei non l’avrebbero mai consentita.

Nell’area euro non esiste ancora un accordo su un bilancio centrale a fini di stabilizzazione o sui trasferimenti fiscali transfrontalieri. E questo porta a chiedersi se l’area valutaria potrà mai essere veramente stabile senza un’ulteriore integrazione in questo settore. Non c’è dubbio che disporre di una capacità fiscale centrale a fini di stabilizzazione sarebbe un obiettivo finale auspicabile, perché le regioni saranno sempre esposte a shock asimmetrici.

Ma tre fattori suggeriscono che potrebbe non essere più una condizione sine qua non.

Anzitutto, nel corso del tempo, l’area si è progressivamente avvicinata alle altre condizioni ideali indicate da Mundell, attenuando in qualche modo la necessità di trasferimenti fiscali. Venticinque anni di integrazione economica hanno portato a catene di approvvigionamento più integrate e a cicli economici più sincronizzati, rendendo la politica monetaria unica più accettabile per tutti i paesi. Diversi studi rilevano che, dal 1999, la sincronizzazione del ciclo economico nell’area euro è aumentata e che l’euro può spiegare almeno la metà dell’aumento complessivo-[7] Allo stesso tempo, anche se la mobilità del lavoro nell’area euro rimane lontana dai livelli degli Stati Uniti, studi hanno rilevato una graduale convergenza, che rispecchia sia il calo della migrazione interstatale negli Stati Uniti, sia l’aumento del ruolo della migrazione in Europa.[8] E i canali di condivisione del rischio sono ulteriormente migliorati. Ad esempio, nel contesto dell’integrazione del settore bancario — la cosiddetta unione bancaria — e di una generosa assistenza di Stato, i prestiti transfrontalieri sono stati notevolmente più resilienti durante la pandemia rispetto a quanto si era visto in occasione di precedenti shock di grande entità.[9] Quanto più l’Europa riuscirà ad avanzare su questa strada — soprattutto in termini di integrazione dei mercati dei capitali — tanto minore sarà la necessità di trasferimenti fiscali permanenti.

In secondo luogo, la capacità delle politiche fiscali nazionali di stabilizzare il ciclo è stata rafforzata dalla mutata capacità di reazione della banca centrale. A partire dal 2012, la BCE ha individuato negli aumenti ingiustificati degli spread sovrani un ostacolo fondamentale alla regolare trasmissione della politica monetaria e ha ripetutamente agito quando la trasmissione era a rischio. Questa capacità di reazione ha offerto una piattaforma efficace ai mercati delle obbligazioni sovrane nei casi in cui gli spread non sono determinati da fattori strutturali, piattaforma che si è dimostrata efficace anche quando l’orientamento della politica monetaria e fiscale non è stato allineato. Ad esempio, i governi dell’area sono stati in grado di attuare un consistente stimolo fiscale per compensare gli effetti della crisi energetica dello scorso inverno, anche se i tassi di interesse erano in forte aumento e l’economia era in fase di stallo, trasferendo oltre 200 miliardi di euro al resto del mondo sotto forma di tassa sulle ragioni di scambio. Questo probabilmente sarebbe stato impossibile un decennio prima, quando anche piccoli aumenti dei tassi si rivelavano destabilizzanti. Ciò suggerisce che il modo in cui gli investitori considerano l’area euro e il margine di manovra che sono disposti a concedere siano radicalmente cambiati.

In terzo luogo, la natura degli shock che dobbiamo affrontare sta cambiando. Con la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina, stiamo affrontando sempre più spesso shock comuni e importati anziché shock asimmetrici e autoinflitti. Questo sposta il problema dal sostenere gli Stati in difficoltà all’affrontare sfide comuni, creando così un diverso posizionamento delle preferenze politiche. Come illustrato dall’episodio descritto in precedenza, la condivisione del rischio ciclico è difficile da attuare in Europa perché le scelte politiche sono fortemente disallineate. Ma per obiettivi condivisi come la salute, la difesa e la transizione climatica, le scelte politiche si sovrappongono e la necessità di maggiori impegni di spesa risulta incontrovertibile. La risposta europea alla pandemia ha riconosciuto questa nuova realtà. Ha costretto l’Europa a centralizzare importanti settori della politica sanitaria, in quanto la Commissione si è dimostrata un acquirente di vaccini più efficiente di quanto potessero essere i singoli Stati. Le restrizioni necessarie per rallentare la diffusione del virus hanno portato anche alla creazione di un fondo comune per sostenere i mercati del lavoro nell’area euro (SURE). Infine, l’Europa ha deciso di creare un fondo da 750 miliardi di euro (Next Generation EU) per sostenere i paesi nell’affrontare le transizioni verdi e digitali, che richiedono investimenti molto più consistenti di quelli che i singoli paesi possono permettersi da soli. Quindi, nella misura in cui il grado di convergenza all’interno dell’area euro aumenta, la frequenza degli shock asimmetrici diminuisce e il finanziamento comune degli obiettivi condivisi aumenta, più rari saranno i casi in cui sarà davvero necessaria una capacità fiscale.

La domanda chiave, ora, è se l’Europa è capace di continuare questa transizione dalla politica fiscale ciclica a quella strutturale e quindi di aprire una strada diversa, forse più fondata storicamente, verso l’unione fiscale.

La storia ci dice che raramente bilanci comuni sono stati creati come completamento di un’integrazione monetaria, ma piuttosto per raggiungere obiettivi specifici nell’interesse pubblico. Negli Stati Uniti, è stata la guerra d’indipendenza a creare il “momento hamiltoniano” dell’assunzione di debito da parte del governo federale. In Canada e in Germania, le prime imposte federali dirette — a parte i dazi doganali — furono create per generare nuove entrate per finanziare la Prima guerra mondiale. Fu la necessità di superare la Grande depressione a portare all’espansione del bilancio federale statunitense negli anni Trenta. Analogamente, oggi in Europa non abbiamo mai affrontato così numerosi obiettivi sovranazionali condivisi, cioè obiettivi che non possono essere gestiti dai singoli paesi. Stiamo vivendo una serie di grandi transizioni che richiederanno grandi investimenti comuni.

Secondo la Commissione europea, il fabbisogno di investimenti per la transizione verde ammonta a più di 600 miliardi di euro all’anno fino al 2030,[10] tra un quarto e un quinto dei quali dovrà essere finanziato dal settore pubblico.[11] Stiamo anche affrontando una transizione geopolitica, indotta dal disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina, nella quale non possiamo più fare affidamento su paesi ostili per forniture critiche. Ciò richiederà un sostanziale riorientamento degli investimenti verso la creazione di risorse interne. E mai come oggi, nella storia dell’UE, i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà sono stati messi in discussione come lo sono dalla guerra in Ucraina. Una conseguenza immediata è che dobbiamo compiere una transizione verso una difesa comune europea molto più forte se vogliamo, come minimo, raggiungere l’obiettivo di spesa militare del 2% del PIL indicato dalla NATO.

Tuttavia, allo stato attuale, la struttura istituzionale dell’Europa non è adatta a realizzare queste transizioni, come rivela il confronto con gli Stati Uniti, dove si assiste a una nuova attenzione per la cosiddetta statecraft, in cui la spesa federale, le modifiche normative e gli incentivi fiscali sono coordinati per perseguire gli obiettivi strategici degli Stati Uniti. L’Inflation Reduction Act, ad esempio, nello stesso tempo accelererà la spesa verde, attirerà gli investimenti stranieri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America, mentre in Europa manca una strategia equivalente per integrare la spesa a livello europeo, le norme sugli aiuti di Stato e i piani fiscali nazionali, come dimostra il caso del cambiamento climatico. Una volta giunto a scadenza il Next Generation EU, non c’è alcuna proposta di uno strumento federale che lo sostituisca per sostenere la spesa necessaria per il clima. Le norme UE sugli aiuti di Stato limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde e le nostre norme fiscali non prevedono alcuna eccezione che consenta sufficienti investimenti a lungo termine. Senza provvedimenti, c’è il serio rischio di non raggiungere i nostri obiettivi climatici e di perdere la nostra base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli.

Ci restano quindi due opzioni.

In una prima ipotesi, possiamo alleggerire le norme sugli aiuti di Stato e allentare le regole fiscali, consentendo agli Stati membri di assumersi interamente l’onere della spesa per investimenti. Ma in questo modo causeremmo una frammentazione, poiché, anche con il maggior margine di manovra che i mercati concedono oggi all’area euro, i paesi con un maggiore spazio fiscale avranno possibilità di spesa molto maggiori rispetto agli altri. Come ci ha insegnato l’accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando c’è un obiettivo sovranazionale che i paesi non possono raggiungere da soli. Così come l’euro non può essere stabile se ampie parti dell’unione monetaria falliscono, il cambiamento climatico non può essere affrontato efficacemente riducendo le emissioni di carbonio in Germania più velocemente che in Italia.

Ciò significa che l’unica opzione che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi è la seconda: cogliere questa opportunità per ridefinire l’UE, il suo quadro fiscale e il suo processo decisionale e renderli commisurati alle sfide che dobbiamo affrontare. Si dà il caso che le regole fiscali siano attualmente in discussione, e che — con un ulteriore allargamento sul tappeto — questo sia il momento opportuno di riflettere sulle regole decisionali.

La sfida principale per l’area euro è che ci affidiamo a regole fiscali a livello nazionale per raggiungere molteplici obiettivi diversi. Dato il cruciale ruolo stabilizzatore dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regole che consentano alla politica anticiclica di rispondere agli shock locali. Sono anche necessarie regole che consentano il massiccio volume di investimenti di cui abbiamo bisogno. E dobbiamo garantire la credibilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto di livelli di debito post-pandemia molto elevati.

Ma esiste un intrinseco compromesso tra questi obiettivi. Per garantire la credibilità fiscale è necessario che le regole siano più automatiche e meno discrezionali. Ma dato che nessuna regola può essere adattata a tutte le situazioni future, un maggiore automatismo continuerà sempre a limitare la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti. In modo analogo, regole credibili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Ma il tipo di investimenti di cui abbiamo bisogno oggi comporta impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali si protrarranno oltre la vita dei governi che li stanno facendo. La Commissione europea ha cercato di trovare un compromesso tra queste contraddizioni proponendo di concentrarsi su una regola di spesa legata alla traiettoria del debito a medio termine di ciascun paese. Si tratterebbe certamente di un miglioramento rispetto ai precedenti tetti di deficit, in quanto le regole di spesa tengono conto delle entrate straordinarie durante le fasi di crescita, consentendo così il ruolo anticiclico e stabilizzante della politica fiscale quando il ciclo si inverte.[12] Il percorso di spesa può anche essere riadattato per i paesi che intraprendono investimenti, allungando il periodo in cui la traiettoria del debito deve iniziare a diminuire. Ma tutto ciò avverrà inevitabilmente a spese dell’automatismo e, forse, della sua applicabilità.

Quindi, se guardiamo al futuro, dobbiamo riconoscere che regole fiscali veramente credibili non possono funzionare senza un equivalente ripensamento di dove debbano risiedere i poteri fiscali. Poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, esse possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro. Questo è in gran parte ciò che vediamo negli Stati Uniti, dove la devoluzione di poteri al governo federale rende possibili regole fiscali sostanzialmente inflessibili per gli Stati. I bilanci in pareggio a livello statale sono credibili proprio grazie ai trasferimenti fiscali e alla spesa federale per progetti comuni, che possono affrontare shock imprevisti e finanziare obiettivi condivisi. L’area euro probabilmente non replicherà mai completamente questa struttura, dato il ruolo più rilevante dei bilanci nazionali nella stabilizzazione macroeconomica. Ma ci sono buone ragioni per cui importare alcuni elementi avrebbe senso.

In primo luogo, se ritagliassimo e federalizzassimo parte della spesa per investimenti necessari per obiettivi condivisi, utilizzeremmo il nostro spazio fiscale in modo più efficiente. Lo spazio fiscale asimmetrico dell’Europa — con alcuni che possono spendere molto più di altri — è fondamentalmente uno spreco quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la difesa. Se alcuni paesi possono spendere liberamente per questi obiettivi, ma altri no, il moltiplicatore di tutta la spesa è più basso, perché nessuno da solo è in grado di raggiungere la sicurezza climatica o militare.

In secondo luogo, l’emissione di più debito comune per finanziare questi investimenti potrebbe ampliare lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione. I costi di finanziamento dell’UE sono inferiori alla media ponderata dei costi di finanziamento dei suoi Stati membri e sono quasi identici a quelli del meccanismo di finanziamento istituito durante la crisi, il MES, nonostante quest’ultimo disponga di talmente tanto capitale versato da poter riacquistare il 70% delle sue obbligazioni al valore nominale. Ciò suggerisce che gli investitori ripongono una notevole fiducia nella capacità dell’UE di ricavare da ciascun Paese partecipante il flusso futuro di entrate necessario per il servizio del debito sottostante. E questo a sua volta indica che l’UE dispone di un potenziale inutilizzato di intermediazione del debito e di riduzione dei costi di indebitamento aggregati dell’Unione. Ma aumentare i compiti a livello federale richiederebbe la fiducia degli Stati membri nell’efficienza e nell’integrità delle autorità nazionali nello spendere i fondi comuni, poiché gran parte dell’attuazione continuerebbe ad avvenire a livello nazionale. E questo richiederebbe un proporzionale spostamento delle nostre regole fiscali in direzione di una minore flessibilità. L’emissione di un maggior debito da parte dell’UE ridurrebbe, a parità di condizioni, la capacità fiscale di servire il debito nazionale. Ciò significa che, come minimo, dovremmo garantire che gli Stati membri con un debito elevato utilizzino lo spazio fiscale creato dalla spesa comune per migliorare le loro prospettive fiscali, parte delle quali dovrebbe derivare da effetti positivi sulla crescita. Per ora, ci sono limiti a quanto possiamo spingerci in questa direzione, anche perché il costo del prestito dell’Unione è ancora superiore a quello dei suoi membri più forti — il che significa che un prestito comune di maggior entità potrebbe essere visto come una forma di trasferimento fiscale non autorizzato. Pertanto, una possibilità è quella di procedere – come abbiamo fatto finora — con un’integrazione tecnocratica e “funzionalista”, apportando cambiamenti apparentemente tecnici e sperando che quelli politici seguano. Alla fin fine questo approccio è riuscito con l’euro e in definitiva ha reso l’UE più forte. Ma i costi sono stati elevati e i progressi lenti.

L’altra possibilità è quella di procedere con un vero e proprio processo politico, in cui l’obiettivo finale sia esplicito fin dall'inizio e approvato dagli elettori sotto forma di modifica del Trattato UE. Questa strada è fallita a metà degli anni Duemila e da allora i politici l’hanno evitata, ma credo che ora ci siano più speranze di muoversi in questa direzione. Con l’ulteriore allargamento dell’UE ai Balcani e all’Ucraina, sarà essenziale rivedere i Trattati per garantire che non si ripetano gli errori del passato, quando si è allargata la periferia senza rafforzare il centro. Questo dovrebbe produrre un allineamento naturale tra i nostri obiettivi condivisi, il processo decisionale collettivo e le regole fiscali. Il punto di partenza di qualsiasi futura modifica del Trattato deve essere il riconoscimento del numero crescente di obiettivi condivisi e della necessità di finanziarli insieme, il che a sua volta richiede una diversa forma di rappresentanza e un processo decisionale centralizzato. A quel punto, il passaggio a regole più automatiche diventerebbe più realistico.

Credo che gli europei siano più pronti di vent’anni fa a intraprendere questa strada, perché oggi hanno davvero solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione. I sondaggi indicano chiaramente che i cittadini avvertono un crescente senso di minaccia esterna — soprattutto dopo l’invasione russa — che rende la paralisi sempre meno accettabile. Con la Brexit, gli argomenti a favore dell’uscita sono passati dalla teoria alla realtà e i benefici netti restano molto incerti. Quindi, i costi relativi di un’ulteriore integrazione sono ora più bassi. Qualunque sia la strada che prendiamo, non possiamo stare fermi, altrimenti, come una bicicletta, cadremo. Le strategie che hanno assicurato la nostra prosperità e la nostra sicurezza in passato – la dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia – sono insufficienti, incerte o inaccettabili. Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che accrescere il senso dell’urgenza di rafforzare la capacità di azione dell’Europa. Non saremo in grado di costruire questa capacità senza rivedere il quadro fiscale europeo, e ho cercato di delineare la direzione che questo cambiamento potrebbe prendere. Ma in ultima analisi, la guerra in Ucraina ha ridefinito più profondamente la nostra Unione, non solo per quanto riguarda i suoi membri e i suoi obiettivi condivisi, ma anche per la consapevolezza che il nostro futuro è interamente nelle nostre mani e nella nostra unità.

 

[*] Si tratta della 15a Annual Martin Feldstein lecture tenuta da Mario Draghi al National Bureau of Economic Research a Cambridge (Mass.) l’11 luglio 2023.

[2] Cfr. R.A. Mundell, A Theory of Optimum Currency Areas, American Economic Review, 51 n. 4 (1961), pp. 657- 665; R. McKinnon, Optimum Currency Areas, American Economic Review, 53 n. 4 (1963), pp. 717-724; P. Kenen, The Theory of Optimum Currency Areas: An Eclectic View, in R.A. Mundell e A.K. Swoboda, (eds), Monetary Problems of the International Economy, Chicago, Chicago University Press, 1969.

[3] Cfr. J. Decressin e A. Fatas, Regional Labour Market Dynamics in Europe, CEPR Discussion Papers n. 1085 (1995); M. Obstfeld, e G. Peri, Regional non-adjustment and fiscal policy, Economic Policy, 13, n. (1998), pp. 206-259.

[4] M. Feldstein, EMU and International Conflict, Foreign Affairs, 76 n. 6 (1997).

[5] Cfr. T. Bayoumi and P. Masson, (1995), Fiscal flows in the United States and Canada: lessons for monetary union in Europe, European Economic Review, 39 n.  2 (1995), pp. 253-274.

[6] Secondo stime successive, nell’area euro il 49% di uno shock occupazionale viene assorbito dagli stabilizzatori automatici, mentre negli Stati Uniti la percentuale è del 32%. Cfr. M. Dolls, C. Fuest, J. Kock, A. Peichl, N. Wehrhöfer e C. Wittneben, Automatic Stabilizers in the Eurozone: Analysis of their Effectiveness at the Member State and Euro Area Level and in International Comparison, Mannheim, Centre for European Economic Research, 2015.

[7] J. Cimadomo, G. Ciminelli, O. Furtuna e M. Giuliodori, Private and public risk sharing in the euro area, European Economic Review, 121, gennaio 2020.

[8] Metanalisi di Campos et al. che comprende le valutazioni, il disegno e le metodologie di valutazione di oltre 60 studi sulle correlazioni del ciclo economico tra i paesi dell’UE. Vedi: N. Campos, J. Fidrmuc e I. Korhonen, Business cycle synchronisation in a currency union: Taking stock of the evidence, Bank of Finland Research Discussion Paper, No 28/2017, settembre 2017.

[9] R. Beyer e F. Smets, Labour market adjustments and migration in Europe and the United States: how different?, Economic Policy, 30 n. 84 (2015).

[10] J. Cimadomo, Risk sharing in the euro area: a focus on the public channel and the COVID-19 pandemic, ECB Economic Bulletin, Issue 7/2022.

[11] European Commission, 2023 Strategic Foresight Report.

[12] Z. Darvas e G.B. Wolff, A green fiscal pact: climate investment in times of budget consolidation, Bruegel Policy Contribution, No 18/21, settembre 2021.

[13] Cfr. C. Kamps e N. Leiner-Killinger, Taking stock of the functioning of the EU fiscal rules and options for reform, ECB Occasional Paper Series No. 231, 2019.

 

 

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