IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIII, 2021, Numero 1, Pagina 132

 

 

LA STRATEGIA DEI FEDERALISTI PER LA RIFORMA DELL’UNIONE EUROPEA*

 

 

Come ha indicato Altiero Spinelli, la via maestra per la creazione di un'Unione federale è quella di una procedura costituente attraverso cui il Parlamento europeo (o, al limite, un'Assemblea costituente ad hoc) elabora e approva un nuovo Trattato per l’Unione europea da sottoporre in seguito direttamente alla ratifica dei Parlamenti nazionali (oppure ad un referendum pan-europeo), essendo stabilito che il nuovo Trattato costituzionale entrerà in vigore nei soli paesi che lo avranno ratificato per via parlamentare o referendaria. Tale procedura sarebbe compatibile con la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.

Nel rispetto di questo principio, un documento o quaderno federalista è stato elaborato in seno al Movimento al fine di precisare la natura dell’Unione europea (un’unione federale per aggregazione degli Stati esistenti con poteri limitati ma reali e non un super-Stato federale che volesse sopprimere gli Stati europei esistenti). Il documento in questione enumera anche gli elementi necessari alla trasformazione dell’attuale Unione europea in una vera e propria Unione federale.[1]

Tuttavia, poiché è in corso la Conferenza sul futuro dell’Europa, dobbiamo definire la strategia del Movimento federalista nei riguardi della Conferenza e dei suoi prevedibili sviluppi e conclusione. Una prima analisi ci conduce ad escludere quasi certamente l’ipotesi che la Conferenza apra une fase costituente che permetta al Parlamento europeo di proporre un progetto di nuovo Trattato europeo al di fuori della procedura dell’art. 48 TFUE. In secondo luogo, l’ipotesi secondo cui la Conferenza potrebbe concludere i suoi lavori indicando la necessità di una revisione del Trattato di Lisbona è molto problematica senza poter essere esclusa a priori. La difficoltà di questa soluzione risiede nell’intenzione manifestata dal Consiglio dei ministri di non dare il suo accordo ad una eventuale conclusione in tal senso. In effetti, una dozzina di Stati membri sono contrari in principio ad un aumento delle competenze legislative dell’Unione europea e pertanto ad una decisione unanime del Consiglio in tal senso. In tal caso, non si può escludere che la Conferenza rinunci a trarre ogni conclusione operativa dai suoi lavori e che il Parlamento europeo decida di riprendere la sua libertà d’azione (e di presentare lui stesso un progetto di modifica del Trattato di Lisbona ai sensi dell’art. 48 TUE). In questa situazione, quale dovrebbe essere la strategia dei federalisti? Nel momento attuale, il movimento federalista non può che cooperare alla riuscita della Conferenza in quanto primo tentativo reale di partecipazione attiva dei cittadini alle deliberazioni sulla problematica europea. Se la Conferenza non riuscisse a stimolare un’ampia partecipazione dei cittadini europei agli eventi previsti (riuscita dei panels, proposte inviate sul sito della Conferenza, numero di iscritti alla piattaforma multilingue, dibattiti concludenti nelle sedute plenarie, ecc.), si tratterebbe di un fallimento del metodo seguito. Per questo motivo, i federalisti sono obbligati a scommettere su un successo della Conferenza e sull’ipotesi che quest’ultima apra effettivamente il cantiere della riforma dei Trattati.

Nel momento attuale, è difficile prevedere se la Conferenza in corso sul futuro dell'Europa arriverà ad una conclusione positiva oppure dovrà costatare la divergenza di opinioni tra il Parlamento europeo ed il Consiglio sui seguiti operativi da dare ai suoi lavori. Le divergenze tra gli Stati membri — già manifestatesi nei mesi scorsi — si sono accentuate recentemente. Da un lato, dodici Stati membri hanno presentato per la terza volta (anche se non si tratta sempre degli stessi) un documento comune sulla politica migratoria non condivisibile poiché contrario ai valori dell’Unione. Dall’altro, il governo polacco — già contestato dalla Commissione e dal PE per le sue numerose infrazioni allo Stato di diritto — ha condiviso una sentenza della sua Corte costituzionale che mette in causa il primato del diritto europeo (atteggiamento condiviso da altri Stati membri di tendenza sovranista). È difficile prevedere al momento lo sbocco di questo conflitto giuridico­politico che mette in causa un principio fondamentale dell’Unione europea. Quel che appare certo è che tale conflitto tra due concezioni dell’Unione non può che rafforzare l’opinione di chi ritiene che l’Unione debba sviluppare due livelli diversi di integrazione tra i paesi che concepiscono l’Unione essenzialmente come un mercato unico e gli Stati che — con maggiore o minore vigore — vogliono procedere sul cammino di un’unione politica. In ogni caso, il movimento federalista ha l’obbligo di definire quale dovrebbe essere il contenuto minimo sul piano istituzionale di un’eventuale revisione del Trattato di Lisbona ai sensi dell'art. 48 TUE (sia nel caso che la Conferenza pervenga sia pure con difficoltà a tale risultato, sia nel caso che non può essere escluso, che la Conferenza non pervenga ad alcuna conclusione).

Quale dovrebbe essere il contenuto del minimo costituzionale accettabile da parte del movimento federalista nel caso di una revisione parziale del Trattato di Lisbona sulla base dell’art. 48 TUE? Due soluzioni — alternative o complementari — sono immaginabili:

1) la prima soluzione potrebbe concentrarsi sul vulnus democratico presente nel Trattato di Lisbona secondo cui il Parlamento europeo — che rappresenta i cittadini europei — non dispone tuttavia dei poteri adeguati ad esercitare i poteri decisionali e di controllo politico che spettano normalmente ai Parlamenti negli Stati nazionali. In particolare, il Parlamento europeo non dispone dei poteri necessari alla determinazione delle entrate nel bilancio europeo, né della capacità di concludere prestiti per il finanziamento delle misure necessarie all’Unione. D’altra parte, il Parlamento non può intervenire con misure legislative o di controllo politico per quanto riguarda la politica economica e in particolare la governance della zona Euro.

2) Una seconda soluzione sarebbe quella di concentrarsi sulla ripartizione delle competenze prevista nel Trattato di Lisbona che non corrisponde più alle necessità attuali dell’Unione europea. È evidente che l’attuale ripartizione non consente all’UE di rispondere alle nuove sfide che l'Unione deve affrontare né alla produzione dei beni pubblici che i singoli Stati non riescono ad ottenere con le loro sovranità ridotte. Occorre quindi integrare nelle competenze dell’Unione (o, in alcuni casi, trasferire dalle competenze condivise a quelle esclusive) i seguenti settori di attività:

a) una capacità fiscale autonoma secondo il modello esistente nella CECA, vale a dire la capacità delle istituzioni dell’Unione (Parlamento e Consiglio) di decidere delle imposte realmente europee e prelevarle direttamente sui cittadini o sulle imprese senza passare attraverso i bilanci nazionali;

b) una politica estera e di sicurezza comune (comprendente la dimensione della difesa) che permetta alle istituzioni dell’Unione (Consiglio europeo e Alto Rappresentante, con il controllo politico del Parlamento) di prendere decisioni rapide a maggioranza qualificata o mediante una cooperazione rafforzata al fine di garantire all’Unione l’esercizio di una capacità e autonomia strategica sul piano internazionale (invio di missioni di peace keeping; sanzioni nei riguardi dei paesi che violino il diritto internazionale; utilizzo nei casi appropriati di una forza rapida d’intervento militare, ecc.). La creazione di una capacità strategica autonoma dell’UE implica necessariamente una competenza condivisa in materia di politica industriale che permetta alle istituzioni dell’Unione di prendere decisioni relative allo sviluppo di armamenti comuni e di una politica comune in materia di semi­conduttori, alla creazione di un’Agenzia relativa all’intelligenza artificiale e alla cybersecurity; di una lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata a livello transnazionale; la difesa dello Stato di diritto, ecc.);

c) un ampliamento delle competenze sanitarie dell’Unione affinché le istituzioni europee siano in grado di prendere misure legislative in caso di pandemie che vadano al di là di quelle previste dall’attuale art. 168 TFUE;

d) un ampliamento delle competenze dell’Unione nel campo della politica sociale affinché le istituzioni dell’Unione siano in grado di prendere tutte le misure legislative previste dall’attuale art. 153 TFUE secondo la procedura legislativa ordinaria (codecisione con il Parlamento europeo e voto a maggiorana qualificata). Inoltre, sarebbe necessario sopprimere il divieto di intervento sulle retribuzioni (salario minimo e/o reddito minimo) previsto dall’attuale art. 153, par. 5;

e) un ampliamento delle competenze dell’Unione relative alla politica migratoria che permetta di incorporare nel diritto dell’Unione la revisione del regolamento di Dublino e di sopprimere l’attuale competenza degli Stati membri di determinare le quote di rifugiati ammessi sul territorio dell’Unione.

Naturalmente, sarebbe possibile combinare le due soluzioni 1) e 2) prevedendo al tempo stesso sia un aumento delle competenze dell’Unione, sia un aumento delle competenze del Parlamento europeo sul piano istituzionale.

Tuttavia, appare evidente che alcune di queste nuove competenze dell’Unione non incontreranno l’accordo dei 27 Stati membri attuali (si pensi in particolare ad una forza d’intervento rapido nel campo militare, ad una politica comune dell’immigrazione, ad un rafforzamento della politica sociale dell’UE nonché all’attribuzione all’Unione di una capacità fiscale autonoma). Di conseguenza, occorre elaborare e proporre nei prossimi mesi una soluzione che permetta all’UE di mettere in opera due livelli diversi d’integrazione nella misura in cui gli Stati membri non sono pronti ad accettare quello che viene chiamato lo “sdoppiamento” dell’UE e l’adozione di un nuovo Trattato che vincoli unicamente una parte degli attuali Stati membri.

Ritengo personalmente che non sia possibile affidarsi unicamente alla soluzione delle cooperazioni rafforzate poiché, se queste ultime sono utili per prendere alcune decisioni nel settore della politica estera e della sicurezza comune (per esempio, la creazione di una forza rapida d’intervento), non sarebbe possibile decidere una nuova politica comune (per esempio una politica sociale o fiscale) in quanto il Trattato di Lisbona richiede che tali decisioni siano prese singolarmente sulla base di proposte ad hoc della Commissione e non globalmente per un intero settore di attività. Invece, la soluzione dei due livelli diversi di integrazione è stata già praticata per molti anni quando il Regno Unito (come anche la Danimarca) ha ottenuto numerose clausole dette di opting-out che lo hanno esentato dagli obblighi del Trattato relativi alla moneta unica, allo spazio Schengen e alla cooperazione giudiziaria (e, per alcuni anni, alla politica sociale). Se il Regno Unito ha potuto beneficiare a sua richiesta di un livello diverso d’integrazione, non si vede perché tale soluzione non potrebbe essere applicata ad altri Stati membri che non condividono l’obiettivo politico di un’unione sempre più stretta.

Paolo Ponzano


* Si tratta della relazione tenuta alla 1a Commissione, Le riforme per un’Europa federale, sovrana e democratica, del 30° Congresso nazionale del Movimento federalista europeo, svoltosi a Vicenza il 22-24 ottobre 2021.

[1] P. Ponzano, La riforma dell’Unione europea, https://www.mfe.it/port/index.php/2021-per-la-conferenza-sul-futuro-dell-europa/i-quaderni-per-la-conferenza/4823-la-riforma-dell-unione-europea.

 

 

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