Anno LIX, 2017, Numero 1, Pagina 111
LE RAGIONI DELL’EUROPA
Pubblichiamo gli interventi alla sessione su Presente e futuro dell’Europa svoltasi nel quadro della giornata Le ragioni dell’Europa organizzata il 4 febbraio 2017 dalla Scuola di cittadinanza e partecipazione di Pavia in collaborazione con il Movimento federalista europeo. Alla sessione hanno preso parte: Mons. Corrado Sanguineti, Vescovo di Pavia, Marta Cartabia, vice-Presidente della Corte Costituzionale, Alberto Majocchi, Professore emerito di Scienza delle finanze dell’Università di Pavia, e Giulia Rossolillo, Professore di Diritto dell’Unione europea dell’Università di Pavia.
L’EUROPA E IL VALORE DELLA SOLIDARIETÀ
Introduzione.
Il continente europeo è senza ombra di dubbio la zona del mondo nella quale l’integrazione tra Stati nazionali ha assunto le forme più avanzate. Non esiste infatti altra organizzazione internazionale che, come l’Unione europea, abbia condotto i suoi Stati membri ad integrarsi in settori cruciali per la sovranità statale come quello della moneta, che abbia realizzato uno spazio economico senza frontiere interne, che si sia dotata di una struttura istituzionale fondata anche su organi rappresentativi dei cittadini e che abbia il potere di emanare norme direttamente efficaci negli ordinamenti dei suoi Stati membri e invocabili direttamente in giudizio da parte degli individui.
Per queste sue caratteristiche, e per il fatto di essere stata in grado di garantire pace e prosperità agli Stati europei, l’Unione europea fino agli anni 2000 ha costituito un modello di integrazione regionale anche per altri continenti, e un polo di attrazione per gli Stati limitrofi desiderosi di farne parte. In quegli anni, il processo di unificazione europea è stato in grado di fungere da esempio non solo di integrazione economica, ma anche di convivenza pacifica tra Stati da sempre in guerra tra di loro. Questo ruolo è stato reso possibile dal fatto che il processo di integrazione, grazie a un contesto mondiale piuttosto stabile e a una congiuntura economica favorevole, è sembrato procedere senza scossoni, secondo una logica funzionalista che sembrava poter condurre, naturalmente e senza necessità di apportare modifiche sostanziali alla struttura dell’Unione, verso un’integrazione sempre maggiore, sia sul piano economico sia sul piano politico, senza tuttavia mettere seriamente in discussione la sovranità degli Stati membri.
Negli ultimi anni, tuttavia, soprattutto a partire dall’esplosione della crisi economica e finanziaria, la prospettiva è mutata radicalmente. Le istituzioni dell’Unione si sono rivelate sprovviste dei poteri e delle risorse per far fronte alla crisi, i contrasti tra Stati membri si sono inaspriti e l’Unione europea è apparsa agli occhi dei più come un’organizzazione in grado solo di imporre misure di rigore, oltre ad essere dipinta dai populisti come la causa di tutti i mali. Eppure è proprio in questo momento storico che l’Unione potrebbe mostrarsi come un modello di integrazione e potrebbe riaffermare i valori che le sono propri e che sono posti a fondamento dell’identità dell’Europa. Stiamo in effetti assistendo a livello mondiale — e il programma di governo di Donald Trump ne rappresenta un esempio lampante — al riemergere di forti spinte protezionistiche e di chiusura, alla costruzione di muri per frenare l’immigrazione, alla riaffermazione delle sovranità nazionali, alla messa in discussione dei diritti fondamentali e dei fondamenti della democrazia.
Il valore della solidarietà.
L’Unione europea in questo scenario rappresenta un attore potenzialmente in grado di opporre a tali tendenze una forte affermazione dei valori che sono sempre stati alla base delle democrazie occidentali. Tra questi, un ruolo di primaria importanza è rivestito dal valore della solidarietà, dal quale l’Unione europea non può prescindere.
Al contrario degli Stai Uniti, che hanno potuto godere di una posizione isolata dal punto di vista geografico, l’Unione è in effetti circondata da una zona di instabilità, conflitti e sottosviluppo, circostanza che porta le popolazioni dei paesi limitrofi a cercare rifugio sul territorio europeo per sfuggire a guerre, persecuzioni e fame. E’ dunque un’organizzazione internazionale intrinsecamente portata alla solidarietà verso l’esterno, e cioè a svolgere un ruolo di aiuto allo sviluppo e di stabilizzazione dei paesi confinanti, condizione indispensabile per affrontare in modo adeguato il problema dell’immigrazione.
Ma la sfida della solidarietà non riguarda unicamente i rapporti con gli Stati terzi, bensì si pone anche all’interno dell’Unione. Da un lato, infatti, la crisi economica e finanziaria ha esasperato gli squilibri tra Stati membri, ponendo con forza il problema di trovare gli strumenti per favorire la convergenza tra i partner europei, anche aiutando gli Stati più deboli dal punto di vista economico. Dall’altro, le contraddizioni di un’unione monetaria non supportata da un’unione economica, unitamente agli effetti della crisi in corso e del deterioramento del problema anagrafico in Europa, ha dato luogo a tagli sul fronte della spesa sociale che rischiano di mettere in crisi un modello di Stato sociale unico al mondo e di minare profondamente la solidarietà tra cittadini.
Solidarietà esterna e riforma dell’Unione.
Tali sfide, e cioè l’affermazione della solidarietà esterna e della solidarietà interna come valori propri dell’Unione europea, richiedono la creazione di un’Europa politica, e di un governo europeo legittimato democraticamente e che possa disporre delle risorse per esercitare le proprie (limitate) competenze. La struttura attuale dell’Unione europea non consente infatti di rispondere in modo soddisfacente alle sfide attuali.
Quanto alla solidarietà esterna, in effetti, la creazione di una zona di stabilità e pace ai confini dell’Europa, e quindi di condizioni di vita dignitose che non spingano le persone a lasciare le loro case e i loro paesi per cercare una vita migliore negli Stati europei, presuppone il fatto che l’Unione sia in grado di decidere la propria politica estera e di difesa e sia in possesso di risorse per dar vita a piani di sviluppo al suo esterno. Questo implica che le decisioni su tali questioni non siano più prese dai singoli Stati membri e solo debolmente coordinate a livello europeo, ma che vi sia un governo europeo responsabile dinnanzi a un Parlamento, e che questo gestisca la propria politica estera, di sicurezza e di cooperazione allo sviluppo.
Le disposizioni che oggi regolano la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea sono del tutto inadeguate a conseguire un simile risultato. Le norme del trattato sull’Unione europea relative alla politica estera e di sicurezza comune sono infatti fondate su un meccanismo di cooperazione tra Stati di carattere prettamente intergovernativo. Non solo, dunque, non danno vita a una politica estera e di sicurezza paragonabile a quella di uno Stato, ma sono anche sottratte al cosiddetto metodo comunitario, sicché il Parlamento europeo, la Commissione e la Corte di giustizia rivestono un ruolo del tutto marginale.
Così, secondo l’articolo 24 TUE, la politica estera e di sicurezza comune “è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all’unanimità, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente”. In queste ultime ipotesi, peraltro, cioè nei casi nei quali il Trattato prevede che il Consiglio possa decidere a maggioranza qualificata, tale decisione ha sempre come fondamento una delibera del Consiglio europeo adottata all’unanimità (articolo 31 TUE). A ciò si aggiunga che l’articolo 31 TUE si preoccupa di prevedere la possibilità, per ogni Stato che lo ritenga opportuno, di sottrarsi all’applicazione di una decisione adottata con la sua astensione o di opporsi all’adozione di una decisione da adottarsi a maggioranza qualificata secondo un meccanismo molto simile al “compromesso di Lussemburgo” della metà degli anni Sessanta.[1] Quanto alle decisioni all’unanimità, infatti, ciascun membro del Consiglio può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale e in tal caso non è obbligato ad applicare la decisione in questione, pur accettando che essa impegni l’Unione. Per quanto riguarda invece le decisioni a maggioranza qualificata, se un membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi a una decisione da adottarsi con tale maggioranza, della questione può essere investito il Consiglio europeo, che deciderà all’unanimità.
La possibilità di elaborare una politica estera e di sicurezza comune dipenderà dunque dal raggiungimento di un accordo tra tutti gli Stati membri, fattore questo che rende l’Unione totalmente dipendente dagli Stati in questa materia.
Dal momento poi che l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza “assicura l’attuazione delle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio”, “conduce, a nome dell’Unione, il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell’Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali”, anche la sua possibilità di azione sarà paralizzata in mancanza di accordo tra gli Stati membri.
Quanto al settore della difesa, secondo l’articolo 42 TUE, si giungerà a una difesa comune “quando il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso”. Fino a tale momento, l’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune si fonderà sulle capacità civili e militari degli Stati membri, che metteranno a disposizione dell’Unione le relative forze. La stessa possibilità di dar vita a una cooperazione strutturata permanente, cioè la possibilità che alcuni Stati che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia cooperino più strettamente tra loro in materia di difesa si concreta in una cooperazione intergovernativa più stretta tra alcuni Stati in questo settore.
Se si sposta poi l’attenzione al profilo del controllo delle frontiere esterne e dell’immigrazione, appare evidente che anche in questo caso le possibilità di intervento dell’Unione europea sono molto limitate, essendo la gestione di tali questioni affidata essenzialmente agli Stati membri. La sospensione degli accordi di Schengen e il rifiuto da parte di alcuni paesi dell’Europa orientale di dare applicazione al piano di redistribuzione dei profughi varato dalla Commissione nel 2015 ne sono una testimonianza evidente.[2]
Solidarietà interna e riforma dell’Unione.
Quanto alla solidarietà sul piano interno, la decisione di dar vita a una moneta unica, ma di mantenere le politiche economiche nelle mani degli Stati membri ha dato origine a una situazione paradossale. Gli Stati membri dell’eurozona, infatti, da un lato non possono più utilizzare gli strumenti di politica monetaria, perché la moneta unica è gestita a livello europeo dalla Banca centrale europea, dall’altra si sono vincolati, con il Patto di stabilità e crescita, al rispetto di alcuni parametri rigidi, resi necessari dalla circostanza che una moneta unica non può sopravvivere in presenza di politiche economiche troppo divergenti.
A tale impossibilità per i paesi che hanno rinunciato alla loro moneta nazionale di compiere in modo autonomo e svincolato da parametri esterni le loro scelte di politica economica non ha corrisposto tuttavia l’attribuzione del relativo potere al livello europeo. L’Unione infatti si limita a coordinare le politiche economiche degli Stati membri ed è totalmente priva di competenza fiscale.[3]
Di fronte alla crisi economica e finanziaria manifestatasi a partire dal 2008, essa si è dunque trovata totalmente sprovvista di mezzi e risorse adeguati. In effetti, da un lato i trattati, per evitare comportamenti improntati al moral hazard, attraverso la clausola di no bail out e la disposizione dell’articolo 123 TFUE, prevedono che l’Unione e gli Stati membri non si facciano carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali e che la BCE non conceda a queste facilitazioni creditizie, né acquisti direttamente presso gli Stati titoli di debito; dall’altro, il bilancio dell’Unione europea, il cui ammontare è deciso dal Consiglio e dagli Stati membri all’unanimità,[4] è estremamente esiguo e finanziato in gran parte attraverso contributi degli Stati membri.
Nonostante dunque la clausola di no bail out sia stata interpretata in modo piuttosto elastico[5] e la BCE abbia forzato nella massima misura possibile le disposizioni del trattato al fine di poter intervenire in salvataggio della moneta unica,[6] di fatto è spettato agli Stati membri intervenire in aiuto di Stati, quali la Grecia, in fortissima difficoltà, o, come l’Irlanda, indeboliti dalla necessità di salvare le proprie banche. Ne è risultata un’accresciuta tensione tra Stati economicamente più forti e che sono stati in grado di attuare riforme importanti e Stati economicamente più deboli e refrattari alle riforme; e un’estrema difficoltà e lentezza nella presa di decisione, che ha contribuito ad aggravare una situazione già estremamente seria.
La realtà è che la crisi ha reso evidente come la pretesa di una solidarietà tra Stati sovrani e tra loro indipendenti sia illusoria. Il governo di uno Stato, che può contare sulle risorse fiscali provenienti dai propri cittadini ed è responsabile unicamente dinanzi a questi ultimi, è in ultima analisi responsabile del benessere unicamente della comunità politica alla quale fa riferimento e l’utilizzo di risorse a vantaggio di altri Stati, oltre a mettere a rischio la sua stabilità economica, rischia di fornire terreno fertile per populismi e nazionalismi.
Si tratta pertanto di passare dalla solidarietà tra Stati alla solidarietà tra individui, e dunque alla creazione di un governo europeo che possa contare su risorse fiscali proprie e in grado di decidere democraticamente come utilizzare tali risorse per eliminare gli squilibri esistenti all’interno dell’Unione. Negli Stati federali questa è la norma: le risorse fiscali raccolte dal livello federale vengono anche utilizzate per colmare il divario di reddito tra gli Stati membri, attraverso investimenti pubblici o altre forme di sovvenzione. E questo è possibile perché esiste un governo federale in grado di prendere tali decisioni e dotato delle risorse necessarie.
Tale passo consentirebbe peraltro anche di salvaguardare il modello di stato sociale affermatosi in Europa. Nella situazione attuale, infatti, gli Stati, a fronte di un invecchiamento della popolazione e di minori entrate fiscali a causa della crisi, tendono a sacrificare alcune prestazioni anche per rimanere entro i vincoli di debito e di deficit decisi a Maastricht, ponendo in pericolo la possibilità per gli individui con meno risorse economiche di accedere a certi servizi e di avere una vita dignitosa. Il trasferimento delle competenze in materia di politica economica e fiscale a livello sovranazionale permetterebbe invece di sollevare gli Stati membri da alcune spese, liberando risorse utilizzabili a tal fine.[7]
Solo un’Europa dotata di un governo e di risorse adeguate potrebbe dunque portare avanti scelte strategiche che invertano la tendenza attuale, sollevare gli Stati membri dall’esercizio di alcune politiche e difendere un modello di Stato sociale che costituisce un valore fondamentale del processo di integrazione.
L’attualità del progetto di Statuto della Comunità politica europea e le prospettive future.
La proposta di dar vita a un governo europeo legittimato democraticamente, e quindi di costruire la prima forma di democrazia sovranazionale costituitasi pacificamente, non è un’idea astratta.
Un modello che conteneva molti elementi orientati in questa direzione era il Progetto di statuto della Comunità politica europea elaborato nel 1953 da un’Assemblea ad hoc e volto ad affiancare il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED). Tale progetto prevedeva infatti la presenza di un Parlamento bicamerale, composto da una Camera dei popoli eletta a suffragio universale diretto e da una camera degli Stati eletta dai Parlamenti nazionali, con funzione (anche di iniziativa) legislativa; e di un Consiglio esecutivo, nominato con un procedimento per molti aspetti simile a quello di nomina di un governo nazionale (il Senato eleggeva il Presidente, che a sua volta nominava i membri del Consiglio) e sottoposto a un voto di fiducia della Camera dei popoli e del Senato.
A tale progetto sembra essersi ispirata anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 sulle possibili evoluzioni e aggiustamenti dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione europea, che prevede la trasformazione della Commissione in un vero governo, responsabile dinanzi a un Parlamento formato da una Camera bassa (il Parlamento europeo) e da un Consiglio degli Stati (composto dai membri dell’attuale Consiglio e del Consiglio europeo). Dato il differente contesto storico nel quale si colloca, la Risoluzione affronta anche il problema dell’istituzionalizzazione dell’eurozona e del finanziamento della stessa, mettendo in luce la necessità di risorse fiscali e di un Tesoro della zona euro. Come si legge nel documento, in effetti, “in order to increase financial stability, mitigate cross-border asymmetric and symmetric shocks, reduce the effects of recession, and ensure a proper level of investment, the euro area needs a fiscal capacity, based on genuine own resources and a European treasury equipped with the ability to borrow…. This treasury should be based in the Commission and be subject to democratic scrutiny and accountability through Parliament and the Council”.
Le proposte per rendere il continente europeo un modello di integrazione e di solidarietà sono dunque sul campo. Sta alla classe politica realizzarle.
Giulia Rossolillo
[1] A metà degli anni Sessanta, dissidi in merito alla politica agricola comune avevano portato la Francia a non partecipare alle riunioni del Consiglio. Dal momento che tale assenza impediva al Consiglio di funzionare, essendo necessaria per la presa di decisioni la presenza di tutti i membri dello stesso, gli allora sei Stati membri avevano adottato un compromesso (il cosiddetto Compromesso di Lussemburgo) in base al quale, nelle ipotesi nelle quali una decisione dovesse essere presa a maggioranza qualificata, ogni Stato aveva la possibilità di dichiarare che erano in gioco suoi interessi vitali e di obbligare così gli altri a proseguire la discussione fintantoché non si fosse raggiunto un compromesso unanime. L’utilizzo generalizzato di tale meccanismo ha di fatto condizionato le modalità di presa di decisione in senso al Consiglio fino alla metà degli anni Ottanta.
[2] Sul punto v. A. Sabatino, Per una politica sostenibile dell’immigrazione, Il Federalista, 58, n. 2-3 (2016), pp. 114 ss..
[3] Secondo quanto dispone l’articolo 113 TFUE, la competenza dell’Unione in materia fiscale è limitata all’adozione di disposizioni di armonizzazione delle imposte indirette.
[4] L’articolo 311 TFUE dispone che “il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, all’unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo, adotta una decisione che stabilisce le disposizioni relative al Sistema delle risorse proprie dell’Unione. In tale contesto è possibile istituire nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente. Tale decisione entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali”.
[5] A un’interpretazione restrittiva dell’articolo 125 TFUE, secondo la quale all’Unione sarebbe vietato intervenire a favore di altri Stati dell’Unione, ne è stata infatti preferita una più flessibile, in base alla quale l’intervento sarebbe consentito, pur non essendo obbligatorio. Detta interpretazione consente in effetti da un lato di scongiurare fenomeni di lassismo da parte degli Stati, dall’altro di intervenire quando la situazione lo renda necessario. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di giustizia, chiamata a vagliare la compatibilità del trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità con i trattati istitutivi nella sentenza Pringle (sentenza 27 novembre 2012, causa C-370/12). Secondo la Corte, infatti, “occorre considerare che tale disposizione vieta all’Unione e agli Stati membri la concessione di un’assistenza finanziaria che avrebbe l’effetto di pregiudicare lo stimolo dello Stato membro beneficiario di tale assistenza a condurre una politica di bilancio virtuosa.... L’articolo 125 TFUE, invece, non vieta la concessione di un’assistenza finanziaria da parte di uno o più Stati membri ad uno Stato membro che resta responsabile dei propri impegni nei confronti dei suoi creditori e purché le condizioni collegate a siffatta esistenza siano tali da stimolarlo all’attuazione di una politica di bilancio virtuosa”.
[6] Numerosi sono gli interventi messi in opera da parte della BCE al fine di salvaguardare la moneta unica, riassunti nella manifestazione da parte del Presidente Draghi, alla Global Investment Conference di Londra del 2012, della volontà di fare “whatever it takes to preserve the euro”. Oggetto di accesa contestazione sono state in particolare le operazioni di acquisto sul mercato secondario dei titoli di debito pubblico dei paesi dell’eurozona in difficoltà, la cui compatibilità con l’articolo 123 TFUE è stata contestata, tra gli altri, dalla Corte costituzionale tedesca. Sul punto v. per tutti F. Bassan, Le operazioni non convenzionali della BCE al vaglio della Corte costituzionale tedesca, Rivista di diritto internazionale, 97 (2014), pp. 361 ss.; T. Beukers, The New ECB and Its Relationship with the Eurozone Member States: Between Central Bank Independence and Central Bank Intervention, Common Market Law Review, 50 (2013), pp. 1579 ss.; S. Cafaro, L’azione della BCE nella crisi dell’area euro alla luce del diritto dell’Unione europea, in G. Adinolfi, M. Vellano (a cura di), La crisi del debito sovrano degli Stati dell’area dell’euro. Profili giuridici, Torino, Giappichelli, 2013, pp. 49 ss.; Id., L’Unione economica e monetaria dopo la crisi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, pp. 43 ss..
[7] La questione è sollevata, anche se in un’ottica differente, anche dal Rapporto del Gruppo ad alto livello sulle risorse proprie, presieduto da Mario Monti (Future financing of the EU. Final report and recommendations of the High Level Group on Own Resources, December 2016). Nonostante il rapporto non si ponga nell’ottica della creazione di imposte europee, dal momento che le proposte in esso contenute non comportano una modifica dei trattati, esso sottolinea, infatti, come una ristrutturazione del sistema delle risorse proprie che sostituisca ai contributi da parte degli Stati membri nuove risorse proprie “do not aim to increase the fiscal burden for the EU tax payer. On the contrary, a reduction in national contributions, combined with EU spending that is better geared towards policies with higher added value such as security of external borders or defence, are also aimed at better European governance and can create savings for Member States budgets”.
Giulia Rossolillo