IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 1, Pagina 3

 

 

L’allargamento dell’Unione europea
 
 
Il processo di allargamento dell’Unione europea ad Austria, Finlandia, Norvegia e Svezia, che ha subito, dopo il Vertice di Lisbona del dicembre del 1992, una crescente accelerazione, sta creando tra i Dodici contraddizioni che ripropongono con forza il problema della riforma delle istituzioni dell’Unione.
Prima di Lisbona la grande maggioranza dei governi dei paesi membri sembrava essere consapevole del pericolo che l’allargamento dell’Unione a sedici componenti, senza trasformazioni profonde della sua struttura, comportasse la sua diluizione in una semplice area di libero scambio e quindi la sua fine come progetto politico. Il meccanismo decisionale dell’Europa uscita da Maastricht era già troppo complesso e farraginoso per dare una reale capacità di agire all’Unione a dodici. L’incapacità dell’Europa di reagire efficacemente alla crisi jugoslava e alla sfida della disoccupazione lo dimostrava in un modo anche troppo convincente. Con l’aumento del numero dei soggetti coinvolti, e a seguito delle nuove e disparate sollecitazioni alle quali ognuno dei paesi candidati avrebbe sottoposto le istituzioni dell’Unione, il suo processo decisionale, già difficile e inefficace, avrebbe rischiato la paralisi completa. Per questo la maggior parte degli Stati membri sembrava condividere la convinzione che l’allargamento dovesse essere preceduto, o almeno accompagnato, da una riforma delle istituzioni dell’Unione nel senso di una maggiore coesione e di una maggiore democraticità.
Ma la riforma delle istituzioni si presentava come complessa e controversa, mentre l’allargamento puro e semplice era, almeno in apparenza, la soluzione più facile. Una soluzione che, inoltre, era fortemente sostenuta dalla Gran Bretagna, con la dichiarata intenzione di favorire la diluizione della Comunità, e dalla Germania, che pure avrebbe verosimilmente accettato una riforma delle istituzioni se essa non avesse ritardato l’adesione dei paesi candidati, ma che aveva fretta di concludere rapidamente la prima fase del processo di allargamento perché questa avrebbe portato nell’Unione paesi propensi a schierarsi dalla sua parte nelle decisioni di carattere economico-monetario, avrebbe aperto la strada all’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale, che appartengono alla sfera di influenza tedesca, e, in questa annata elettorale, avrebbe potuto essere presentata all’opinione pubblica tedesca come un successo del governo.
 
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I negoziati sono dunque avanzati con passo spedito e si sono rapidamente conclusi. Ma subito si sono presentate le prime difficoltà. Vero è che il problema della «minoranza di bloccaggio», sollevato da Gran Bretagna e Spagna e che ha fatto slittare la conclusione dei negoziati, non era in sé di grande rilevanza. Le decisioni nell’ambito dell’Unione sono sostanzialmente di carattere intergovernativo, e quindi sono in genere il risultato di compromessi che vengono raggiunti evitando di ricorrere al voto. I governi che hanno sostenuto l’estensione della minoranza di bloccaggio da 23 a 27 voti ponderati non hanno certo acquisito per questo la patente di campioni dell’Europa. Ed è difficile dare del tutto torto al governo spagnolo quando afferma che, fino a che il processo decisionale dell’Unione non viene reso democratico, è ingiusto e pericoloso che una decisione importante possa essere presa contro la volontà di governi che rappresentano più di cento milioni di cittadini.
Resta il fatto che questa controversia è stata il segno che l’allargamento, anziché essere l’occasione per un approfondimento della coesione tra gli Stati membri e per una maggiore democratizzazione delle istituzioni dell’Unione, produce come sua prima conseguenza un ulteriore appesantimento delle sue procedure decisionali. I meccanismi approvati a Maastricht, pur attribuendo alle istituzioni dell’Unione una capacità di governo largamente insufficiente, erano accettati da molti come soluzione transitoria in vista delle riforme previste per il 1996. Ma il fatto che l’ingresso dei quattro nuovi Stati sia accompagnato da un ulteriore, per quanto piccolo, deterioramento della capacità dell’Unione di decidere e di garantire la propria coesione, rende assai incerte le prospettive della Conferenza intergovernativa prevista dal Trattato di Maastricht; anche se si può legittimamente sostenere che non era necessario aspettare questa piccola crisi istituzionale per rendersene conto, se è vero che l’atteggiamento ormai consolidato negli anni della Gran Bretagna e della Danimarca, nonché quello degli stessi quattro paesi che stanno per aggiungersi ai Dodici, nei confronti di qualsiasi progetto di democratizzazione dell’Unione dovrebbe essere ampiamente sufficiente a convincere chiunque non voglia chiudere gli occhi di fronte alla realtà che, in assenza di un’iniziativa coraggiosa e radicalmente innovativa, nessun accordo soddisfacente potrà comunque essere raggiunto nel 1996.
 
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Peraltro, il permanere di questa situazione è difficilmente accettabile sia per i governi di alcuni Stati membri dell’Unione che per il Parlamento europeo, per quanto timida sia la volontà europea degli uni e dell’altro, perché l’Unione, al livello di complessità cui è giunto l’intreccio di interessi cui i suoi progressi hanno dato luogo, ha comunque bisogno di essere governata. E se a questo crescente bisogno di governo farà riscontro una sempre minore capacità di governo, è lecito prevedere che il problema della riforma istituzionale dell’Unione sarà continuamente riproposto dalla forza delle cose.
Ne è un sintomo l’atteggiamento del Parlamento europeo che, dopo avere ingloriosamente gettato la spugna in occasione del voto sul progetto di Costituzione elaborato da Fernand Herman, ha avuto un soprassalto di orgoglio di fronte all’ostruzione praticata dalla Spagna e dalla Gran Bretagna sul problema della minoranza di bloccaggio, e, di fronte all’ambiguo compromesso raggiunto a Ioannina, ha dichiarato per bocca di alcuni suoi autorevoli membri che non darà ai trattati di adesione, nella loro formulazione attuale, il proprio parere conforme, senza il quale essi non potranno entrare in vigore.
Ma il Parlamento europeo non potrà mantenere a lungo questo atteggiamento se non vi sarà sul tappeto un’alternativa forte che possa fare del rifiuto del parere conforme una mossa di una strategia globale, che non sia difensiva e conservatrice, ma aperta e innovativa, e che sia portata avanti da uno schieramento che comprenda anche altri attori, e dia così al Parlamento europeo il conforto di non sentirsi isolato dalle forze politiche nazionali e da alcuni dei governi e dei Parlamenti degli Stati membri. Se questo non accadrà, la sua resistenza avrà vita breve e sarà abbandonata sotto le pressioni dei governi, in cambio di qualche piccola concessione.
 
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Ma il problema va ben al di là del parere conforme del Parlamento europeo ai trattati di adesione dei quattro paesi candidati. Si tratta di prendere chiaramente coscienza del fatto che l’allargamento è comunque un processo inarrestabile, che testimonia la forza di attrazione dell’Unione e, in quanto si dirigerà a est, costituirà il naturale compimento degli avvenimenti dell’89 e la realizzazione delle speranze dei cittadini delle deboli democrazie dell’Europa orientale. L’atteggiamento di chi tenta di opporsi a questa tendenza al solo scopo di preservare l’attuale debolissima capacità di governo delle istituzioni dell’Unione deve quindi essere respinto con decisione in quanto sterile e conservatore, e comunque privo di prospettive di avvenire. E, su questa base, si tratta di definire una linea di azione che consenta, da un lato, non solo di non frenare, ma di accelerare il processo di allargamento dell’Unione e, dall’altro, di avviare concretamente la trasformazione democratica e federale delle sue istituzioni. La conciliazione di queste due esigenze è possibile: ma, nella situazione attuale, sembra esserlo soltanto se si avrà il coraggio di riconoscere che il secondo dei due obiettivi non può essere perseguito, in una prima fase, che in un quadro che sia più ristretto non solo di quello dell’Unione allargata, ma anche di quello dell’Unione a Dodici. Il grado di maturazione europea dell’opinione pubblica e di apertura della classe politica al problema della riforma democratica delle istituzioni comunitarie è ancora assai ineguale nei diversi paesi europei, membri e non membri dell’Unione. E’ quindi virtualmente impossibile che la proposta di una sua trasformazione federale possa essere accettata senza forti conflitti e con una decisione unanime dai Sedici di domani, o dai Dodici di oggi. Bisogna di conseguenza avviare un processo che coinvolga un numero crescente di paesi partendo da un ristretto nucleo iniziale. Per questo occorre l’iniziativa di un gruppo ristrettissimo di governi, o di uno solo, o della Commissione, con l’attivo sostegno del Parlamento europeo.
Questa iniziativa deve consistere nella proposta, indirizzata a tutti quelli tra i paesi membri che vi fossero interessati, di affidare al Parlamento europeo il compito di elaborare, in collaborazione con i Parlamenti nazionali e con le altre istituzioni dell’Unione, un progetto di riforma istituzionale dell’Unione che presenti almeno i requisiti minimi di una costituzione federale. Ma questo progetto dovrebbe contenere anche una serie di disposizioni che assicurino la compatibilità tra il funzionamento delle istituzioni federali che saranno create tra i paesi disposti ad accettarle e le istituzioni dell’Unione, che continueranno a rimanere in vita, e che garantiranno ai paesi non disposti, o non ancora disposti, ad accettare il vincolo federale la possibilità di continuare a godere comunque dei diritti derivanti dall’appartenenza all’Unione. Si tratterebbe cioè di creare un’Europa a cerchi concentrici, costituita da un nucleo federale centrale e da una corona di paesi che continuerebbero, unitamente al nucleo federale, a far parte dell’Unione nella sua forma attuale, o in forme eventualmente diluite se lo preferissero, con la garanzia di poter entrare in qualsiasi momento a far parte del nucleo federale, qualora decidessero di accettarne la Costituzione.
Non è qui il caso di entrare nel dettaglio dei problemi che una proposta di questo genere comporterebbe sia dal punto di vista istituzionale che da quello della distribuzione delle competenze tra nucleo federale e Unione. Si tratta di problemi che i giuristi si occuperanno di risolvere. In ogni caso è certo che le vere difficoltà che il piano dovrebbe superare non sarebbero tecniche, ma politiche. Esse sarebbero costituite dalle resistenze dei paesi contrari a qualsiasi trasformazione federale dell’Unione, che non si accontenterebbero certamente della garanzia di conservare l’acquis communautaire e rifiuterebbero di essere relegati in una posizione periferica rispetto ad un nucleo federale destinato ad acquistare una vera capacità di azione, e quindi a condizionare le loro scelte, mentre essi sarebbero sostanzialmente esclusi dal suo meccanismo decisionale.
 
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Peraltro si tratta di difficoltà reali ma superabili. Se alcuni paesi dell’Unione (in ipotesi i sei paesi fondatori, più eventualmente la Spagna), con il sostegno del Parlamento europeo, riuscissero ad attestarsi fermamente sulla piattaforma dell’Europa a cerchi concentrici, essi troverebbero subito degli alleati sia nei governi e nell’opinione pubblica dei paesi dell’Europa orientale, sia nella parte più matura dell’opinione pubblica dei paesi contrari, che comprenderebbe che lo scopo del disegno non è certo quello di escludere dal processo i paesi del secondo cerchio, ma quello di rendere effettivamente possibile una loro rapida adesione alla Federazione. E a ciò si deve aggiungere una considerazione ancora più importante. Un progetto di riforma istituzionale democratico e federale mobiliterebbe, nei paesi favorevoli, i sentimenti europei dei cittadini, che non sono mai venuti meno, ma che non si sono potuti esprimere, e spesso si sono trasformati in ostilità, di fronte alle disposizioni involute e burocratiche del Trattato di Maastricht. Tutto ciò metterebbe i governi favorevoli in una posizione negoziale forte, mentre indebolirebbe quella dei governi contrari, che si troverebbero nella condizione di dover giustificare di fronte alla loro opinione pubblica il rifiuto di una proposta secondo la quale essi dovrebbero soltanto consentire agli altri di andare avanti, senza per questo dover rinunciare ad alcuno dei loro diritti né compromettere i loro legittimi interessi. Non si dimentichi che la parte più europea della classe politica e della stampa britanniche non cessa di agitare, per dissuadere il governo dal persistere nel suo atteggiamento pregiudizialmente negativo nei confronti di ogni progresso verso l’unificazione politica dell’Europa, la prospettiva di una possibile emarginazione del Regno Unito da un processo destinato comunque ad avanzare, con o senza la partecipazione della Gran Bretagna. E’ quindi prevedibile che la proposta di un’Europa a cerchi concentrici, se assumesse concretezza politica, susciterebbe in Gran Bretagna un dibattito politico acceso.
 
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La proposta di un’Europa a cerchi concentrici, ruotante attorno ad un nucleo federale, non garantirebbe quindi la possibilità di evitare una rottura tra paesi favorevoli e paesi contrari alla prospettiva federale: ma consentirebbe ai primi di giungere alla rottura, se questa fosse inevitabile, in una posizione di forza (e quindi aumenterebbe le possibilità di evitarla in extremis). Tutte queste considerazioni peraltro non danno una risposta alle domande decisive: se esista effettivamente un nucleo di Stati che possano esprimere la volontà di raccogliere la proposta e di sostenerla contro l’opposizione degli altri, o di alcuni tra gli altri, fino a giungere alla rottura, o alla sua minaccia, e senza cedere alla naturale tentazione di addivenire a compromessi che riporterebbero il processo al punto di partenza; e se il Parlamento europeo, dopo le sue recenti, scoraggianti prove di timidezza, sarà capace di battersi con forza per il conseguimento dell’obiettivo.
Queste domande peraltro si risolvono in un’altra: se, in una fase nella quale il nazionalismo sembra riprendere fiato ovunque in Europa, esistano ancora nell’opinione pubblica di alcuni paesi sufficienti energie morali pronte a mobilitarsi, attraverso le forze politiche cui spetta il compito di dar loro voce, per un grande progetto di avvenire che abbia come proprio obiettivo l’unione politica dell’Europa. Perché se una cosa è chiara, al grado di sviluppo al quale il processo di unificazione europea è giunto oggi, è che l’Europa non si farà senza lotta politica, senza un grande movimento di opinione pubblica, cioè senza l’ingresso in campo di un attore la cui presenza è stata fino ad oggi soltanto virtuale: il popolo europeo come titolare del potere costituente. Ma se è vero, come è vero, che la Federazione europea è oggi più necessaria che mai, queste energie morali devono essere disponibili e l’esistenza del popolo europeo deve essere pronta a passare dallo stato virtuale a quello reale.
Oggi sono quindi presenti, anche se per ora solo virtualmente, sia il progetto che l’agente che lo può realizzare. Si tratta ancora di individuare l’occasione che può scatenare il processo costituente. Questa occasione non può essere che una crisi istituzionale, o una serie di crisi istituzionali. Perché è vero che, fino a che i problemi della convivenza tra i paesi membri dell’Unione si potranno risolvere con il metodo del compromesso, i governi continueranno a praticarlo, e la Federazione europea rimarrà un obiettivo ideale destinato ad essere perennemente rimandato ad un avvenire lontano e indefinito. Ma è anche vero che la piccola crisi nata sul problema della minoranza di bloccaggio potrebbe essere soltanto l’avvisaglia di una serie di conflitti di gravità crescente, e che l’allargamento dell’Unione potrebbe portare in tempi brevi a impasses istituzionali insuperabili senza decisioni radicali. Per questo la data del 1996 potrebbe essere decisiva. I federalisti devono dunque prepararsi ad una fase della loro lotta carica di pericoli ma ricca di opportunità.
 
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