IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 3, Pagina 139

Le sfide del 2012
Il futuro del nostro continente è legato alla capacità degli europei di affrontare le due sfide drammatiche che si stanno sommando in questo momento. La prima è costituita dalla crisi che ha investito l’euro e dalle relative conseguenze sul piano economico, finanziario e politico su scala europea e globale. La seconda dipende dall’inarrestabile processo di redistribuzione di ricchezze e potere che è in atto a livello mondiale per effetto dell’indebolimento degli USA e della ascesa della Cina.
Per cercare di fronteggiarle al meglio, gli europei dovrebbero superare definitivamente le contraddizioni che ancora ostacolano l’avanzata del processo di unificazione europea. Ma al momento, a questo scopo, mancano ancora sia la chiarezza nell’analisi dei problemi che sono sul tappeto, sia le proposte per risolverli. Una chiarezza e delle proposte che dovrebbero riguardare: 1) la relazione che esiste tra la necessità di salvare l’euro e quella di fare l’unione politica; 2) i limiti del metodo comunitario per portare a compimento l’unione dell’Europa; 3) la necessità di costruire la federazione a partire dall’Eurozona; 4) la direzione di marcia da seguire per realizzare la federazione nella confederazione.
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1. La possibilità di salvare l’euro e la realizzazione dell’unione politica tra i paesi che condividono la moneta unica sono strettamente connesse tra loro. Lo dimostrano l’evidente insufficienza delle soluzioni tecniche fin qui proposte per affrontare la crisi; le contraddizioni insite nel ruolo che è chiamata a giocare la BCE, nella misura in cui non è inserita in un quadro politico statuale; le evidenti carenze di legittimità democratica dell’attuale meccanismo di governo europeo della crisi; l’insostenibilità strutturale di una moneta senza Stato. Per questo molti, sia nel campo degli amici dell’Europa che in quello dei suoi nemici, condividono ormai l’affermazione secondo cui non vi può essere moneta unica senza unione politica tra i paesi che l’hanno adottata.
L’assenza di un governo politico della moneta era del resto considerata, dagli stessi attori che contribuirono a crearla, un fatto transitorio, inquanto la moneta, in ultima istanza, è uno strumento della politica e non può sopravvivere a lungo senza Stato. Già quando venne ratificato il Trattato di Maastricht era evidente, da un lato, che la decisione da parte di alcuni paesi di adottare l’euro implicava il fatto di accettare un fattore di irreversibilità nell’evoluzione delle istituzioni europee, in quanto era evidente che, nella misura in cui si creava un sistema europeo di banche centrali prima e la Banca centrale europea poi, e una rete fittissima di rapporti di interdipendenza, la sola ipotesi di tornare alla situazione originaria delle valute nazionali avrebbe provocato una crisi di dimensioni catastrofiche; d’altro lato — e su questo punto la Germania e la sua Corte costituzionale erano state subito molto chiare — era palese che non sarebbe stato possibile sostenere a lungo un’unione monetaria senza prevedere nel suo ambito un allargamento della legittimità democratica relativamente alle decisioni da prendere in campo economico, fiscale e di bilancio.
Fin dall’inizio era quindi evidente che sarebbe stato impossibile isolare l’obiettivo del consolidamento dell’unione monetaria da quello della realizzazione dell’unione politica. A metà degli anni Novanta, nel suo Manifeste pour une nouvelle Europe fédérative, l’ex-presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing aveva indicato nell’anno 2000 la scadenza entro la quale si sarebbe dovuto effettuare questo consolidamento che, mano a mano che l’Unione si allargava, doveva necessariamente prevedere anche la questione della governabiltà di un’Europa a più cerchi.
Questo nodo, che dopo la metà degli anni Novanta si è cercato di dimenticare, rimuovendolo dall’agenda, è oggi giunto al pettine. Come ha recentemente scritto l’economista francese Michel Aglietta, “la risoluzione della crisi passa ormai per una sequenza di decisioni politiche che implicano un cambiamento profondo della filosofia politica dell’Europa dopo sessant’anni. Si tratta di trarre le conseguenze della creazione dell’euro. Gli europei non avevano capito, quando hanno accettato il Trattato di Maastricht, che creando l’euro cambiava la natura del progetto europeo. Infatti si sono illusi di potersi accontentare di una moneta incompleta, esterna alla sovranità degli Stati e non legittimata da una sovranità federale. Questa illusione è finita. Oggi bisogna fare dell’euro una moneta completa e realizzare la promessa di sovranità che gli è finora stata negata. L’avanzamento di soluzioni politiche deve ora realizzarsi nell’urgenza e sotto la minaccia della crisi, qui e subito” (in Zone euro, éclatement ou fédération, Michalon, Parigi, 2012, p. 123).
2. Il dibattito sul significato e sulla portata della rottura, maturata tra la stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione europea e la Gran Bretagna al Vertice europeo dell’8-9 dicembre 2011, è tuttora dominato dalla preoccupazione delle conseguenze che questa rottura potrebbe avere sul mantenimento del “modello comunitario” — cioè dello status quo. Vengono così ignorate le implicazioni che essa è invece destinata ad avere sulla lotta per fare l’Europa politica. Questo è tanto più sorprendente quando si considera che il dato essenziale emerso dal Vertice di Bruxelles è stato proprio la presa d’atto che l’euro non si salva se si continua ad ignorare che la creazione della moneta europea, più di ogni altro accordo già stipulato tra gli Stati dell’Unione europea, ha sancito da tempo l’esistenza di un’Europa a due velocità. A Bruxelles è infatti emersa alla luce del sole quella che Ferdinando Riccardi in uno dei suoi editoriali sull’Agence Europe ha definito “la concrétisation rigoureuse de l’Europe à deux vitesses”. Una situazione che vede d’un côté, l’Europe de l’euro, avec ses règles rigoureuses et ses disciplines incontournables qui impliquent la perte automatique de la solidarité et des soutiens pour qui ne les respecte pas; de l’autre côté, les États membres ayant moins de devoirs, mais aussi moins de droits. Cette conception d’une UE double représenterait la seule manière pour sauvegarder et même étendre l’unité européenne, en évitant qu’elle soit obligée de renoncer à ses ambitions d’intégration véritable et… les répercussions seraient considérables sur de nombreux aspects de la construction européenne” (6 gennaio 2012).
Il problema da affrontare con urgenza non è perciò come salvaguardare il modello comunitario tout court, bensì come riconoscerne il carattere transitorio e strumentale in vista della realizzazione della Federazione europea. Un carattere, questo della transitorietà, che i fondatori delle Comunità avevano ben presente. E’ noto per esempio che per Jean Monnet il Consiglio europeo, nato dalla istituzionalizzazione dei vertici dei Capi di Stato e di governo nella metà degli anni Settanta, doveva essere un governo provvisorio, non permanente, dell’Europa. E’ perciò stupefacente constatare come, in nome della salvaguardia del metodo comunitario, molti oggi sostengano, contro ogni logica, di voler al tempo stesso perseguire l’unità fiscale, economica e politica dell’Eurozona, e coinvolgere nel processo decisionale sia per costruirla, sia per governarla attraverso le attuali istituzioni comunitarie, di cui tra l’altro il metodo intergovernativo è parte integrante — i rappresentanti di paesi come la Gran Bretagna, che non intendono affatto perseguire questo obiettivo.
Come spiegare questa incoerenza che è ricorrente nella storia dell’integrazione europea e in cui sono caduti anche illustri europeisti? Basti pensare a Paul-Henri Spaak negli anni Sessanta, quando affermò che con la creazione del Mercato comune gli europei avevano ormai mostrato al mondo che non sarebbe stato necessario creare gli Stati Uniti d’Europa, scrivere una costituzione federale ecc. Questo atteggiamento psicologico, prima che politico, è stato ben analizzato e stigmatizzato più volte in passato da Mario Albertini sulle pagine di questa rivista: la causa va ricercata nella confusione in cui molti cadono tra ciò che serve ed è servito per compiere la marcia di avvicinamento all’obiettivo federale da parte dei governi, dei partiti, dell’opinione pubblica, con ciò che in un determinato momento storico è necessario fare per concluderla (si veda in proposito la nota di Mario Albertini su Spaak nell’articolo “La défense de l’Europe et la signification des armes nucléaires”, Le Fédéraliste, 6, n. 2, 1964).
Il fatto è che il metodo comunitario ha mostrato dei limiti gravissimi anche nell’ambito dello sviluppo di una dinamica politica democratica, nonostante l’esistenza pluridecennale del Parlamento europeo. Infatti le decisioni prese a livello europeo restano la risultante dei compromessi tra volontà che continuano a formarsi o possono formarsi solo a livello nazionale; compromessi, quindi, che rappresentano interessi nazionali per loro natura diversi e sono destinati a rimanere soltanto accordi diplomatici che, in quanto tali, non hanno nulla di democratico. Di conseguenza, nella misura in cui le divergenti volontà tendono spontaneamente a solidificarsi attraverso i canali del dibattito e dei voti parlamentari nazionali, i rappresentanti degli interessi nazionali restano legati, nelle sedi decisionali, da una sorta di mandato imperativo, che impedisce loro di sacrificare l’interesse nazionale a breve termine in nome dell’interesse europeo a lungo termine anche nei casi in cui questo sarebbe possibile con le procedure discrete della diplomazia. Un esempio concreto della natura diabolica di questo meccanismo si è avuto anche recentemente, in occasione del processo di ratifica delle decisioni prese dai Capi di Stato e di governo nel luglio 2011 sull’aumento delle competenze del Fondo salva Stati, quando il Bundestag si è arrogato il ruolo di controllore democratico in ultima istanza (pur rappresentando esclusivamente il popolo tedesco) autorizzando solo in extremis il cancelliere Merkel a sottoscrivere le decisioni prese dai governi dell’Eurozona.
3. Quali che siano i requisiti minimi che dovranno avere le istituzioni europee per far fronte alle sfide della crisi, è diffusa ovunque la consapevolezza che la loro realizzazione non potrà coinvolgere nella stessa misura tutti gli Stati membri e che, all’interno dell’Unione europea, dovrà emergere un “nucleo duro”, cioè un gruppo di Stati ai quali spetterà il compito di fare da battistrada. Questa prospettiva, largamente condivisa sul terreno della logica, evoca invece perplessità quando si pensa di perseguirla concretamente. Questo perché i due quadri applicativi di riferimento restano da un lato quello intergovernativo, che si basa sull’equazione antidemocratica e fallimentare che accomuna l’idea di nucleo duro a quella di direttorio; e dall’altro quello comunitario, in base al quale il nucleo duro dovrebbe rinascere come l’araba fenice, ogni volta sotto forme diverse, attraverso l’attuazione delle cooperazioni rafforzate in campi diversi. Viceversa, il giudizio su questa prospettiva può cambiare radicalmente in un’ottica federale, nella misura in cui si pensa al ruolo che un eventuale nucleo duro potrebbe svolgere nella fase iniziale della realizzazione della federazione, grazie all’azione di avanguardia da parte di un gruppo di paesi, lasciando, ovviamente, la possibilità, a chiunque lo voglia, di unirsi al progetto.
Nella situazione concreta che stiamo vivendo, questa prospettiva assume una connotazione ben precisa e circoscritta. E’ impensabile infatti che, oggi, istituzioni davvero federali possano essere create in un quadro più vasto di quello dell’Unione monetaria, giacché, se così fosse, gli Stati che non vogliono partecipare a quest’ultima manterrebbero comunque il potere di vanificare o sabotare qualsiasi decisione in materia di politica economica, fiscale o di bilancio presa dal governo federale dell’euro. Per questo, senza che si manifesti la volontà di andare avanti da parte di un “nucleo duro”, il dilemma della sopravvivenza dell’euro semplicemente non può essere né affrontato, né risolto. E, anche se questa soluzione sembra creare il problema della relazione che dovrebbe essere instaurata tra il quadro federale in formazione e quello confederale già esistente, la realtà è che essa offre la possibilità di affrontare il dualismo che è già presente nell’Unione e potrebbe, anzi, stimolare ad affrontarlo e a risolverlo, a partire dagli aspetti che riguardano la legittimità democratica.
Il dibattito su questo tema è del resto già avviato e registra sia spunti interessanti sia utili provocazioni, a partire da quelli formulati da Ulrike Guerot e Joschka Fischer a proposito di una condivisione delle responsabilità legislative di parlamentari europei e nazionali della zona euro in campo fiscale e di bilancio; oppure dalla proposta avanzata dal ministro francese per gli Affari europei, Jean Leonetti, secondo cui « s’il y a une Europe qui va plus vite, il faudra bien qu’il y ait un contrôle démocratique ». In questa ottica, secondo Leonetti, bisognerebbe creare « un parlement de la zone euro qui pourrait être alimenté par les parlements nationaux ». Il ministro francese non può ignorare che questo implicherebbe un ritorno al sistema assembleare europeo pre-elezioni dirette a suffragio universale del 1979 e che ben diffcilmente i partiti politici ed i cittadini sarebbero disposti ad accettare questa involuzione. Ma, allora, la questione diventa: quali sono le controproposte ed i progetti dei parlamentari europei e nazionali in proposito? Un accenno a queste problematiche, per quanto lacunoso, ma che mostra la consapevolezza dell’esistenza del problema da parte dei governi, è stato per esempio fatto anche in uno degli articoli nelle bozze del nuovo Trattato intergovernativo in discussione, laddove si prevedono momenti di incontro, anche se solo a livello di informazione e dibattito, tra gruppi di rappresentanti del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali delle rispettive commissioni delle finanze e del bilancio.
In ogni caso non basta, come molti parlamentari europei e nazionali e leaders politici continuano a proporre in modo semplicistico e rituale, sperare di rispondere a questi problemi limitandosi a ribadire la necessità di ricondurre la legittimità democratica europea, anche in materia di decisioni in campo fiscale e di bilancio, al Parlamento europeo, senza specificare in quale quadro. Questa rivendicazione si scontra infatti palesemente con il dato di fatto che l’applicazione su scala sovranazionale del principio no taxation without representation può evidentemente valere solo per i rappresentanti dei cittadini dei paesi disposti a cessioni sostanziali di sovranità in campo fiscale e di bilancio. Il fatto che più di un terzo dei parlamentari europei provenga da paesi che non hanno ancora adottato l’euro non può essere sottovalutato.
Alla luce di queste considerazioni, proprio perché è del tutto irrealistico che vengano duplicate le attuali istituzioni europee, appare sempre più evidente la necessità di attuare forme di funzionamento a geometria variabile sulla base delle diverse esigenze di governo dell’Unione e dell’Eurozona delle istituzioni esistenti.
4. Al momento non c’è la volontà politica di realizzare la Federazione europea. Ma la portata e la natura della crisi che stiamo vivendo possono contribuire a farla rapidamente maturare, facendo emergere l’obiettivo strategico da perseguire — la realizzazione della federazione nella confederazione —, e la direzione di marcia da prendere — l’istituzionalizzazione dell’Europa a due velocità con il coinvolgimento dei cittadini in una nuova fase costituente.
Anche a questo proposito vale la pena ribadire che la strategia e la direzione di marcia da seguire per fare l’Europa politica non possono prescindere da quanto accaduto nel Vertice di Bruxelles del dicembre 2011. Innanzitutto, perché a seguito delle decisioni prese in quell’occasione, i governi, le istituzioni e i partiti non possono più nascondersi dietro l’alibi dei veti della Gran Bretagna per giustificare ulteriori difficoltà nel procedere sulla strada della Federazione europea. In secondo luogo, perché anche una volta che il nuovo Trattato (il fiscal compact), sarà stato sottoscritto e ratificato da almeno un gruppo di Stati, resterà ancora irrisolto il problema di come orientare lo sviluppo in senso federale di questa embrionale unione fiscale e di bilancio, che sarà ancora sottoposta ad un governo non democratico dell’Eurozona.
Per questo è del tutto ragionevole prevedere fin d’ora che i governi, i parlamenti, i partiti politici e le opinioni pubbliche si ritroveranno in tempi brevissimi di fronte all’esigenza di rilanciare politicamente l’Europa. E, a questo punto, potranno imboccare due strade: o proseguire lungo quella già intrapresa a dicembre a Bruxelles, muovendosi quindi nel quadro dei paesi che hanno adottato o avranno comunque espresso l’intenzione di adottare l’euro — questa volta, però, ponendosi il problema di dar vita ad un Trattato di natura costituente che avrebbe come scopo quello di realizzare la federazione; oppure quella di tentare di inserire il progetto di fare la federazione nei Trattati comunitari già esistenti cercando di riformarli con il consenso di tutti (Gran Bretagna compresa).
In questa ottica, sarebbe bene che tutti i soggetti da cui dipende il futuro dell’Europa incominciassero a prendere consapevolezza delle implicazioni che percorrere queste strade implicherebbe. E per farlo dovrebbero innanzitutto rendersi conto che, mentre nella fase d’avvio i due approcci sono alternativi, nella fase di rinegoziazione dei Trattati tra i paesi che faranno parte della federazione e quelli che inizialmente non ne faranno parte, i due approcci possono diventare compatibili. Solo dopo aver compiuto questo primo passo per riconoscere la natura del problema di fronte al quale si trovano, la volontà politica potrà tradursi in un’azione efficace. I requisiti su cui avviare questa azione devono prevedere: a) il fatto di presentare la federazione come parte di un accordo più ampio, che regoli fin dall’inizio i rapporti tra le sue istituzioni e quelle dell’Unione, e la ripartizione delle competenze tra i due ambiti, in modo da garantire agli Stati che non ne fanno parte la continuità del godimento dei diritti loro derivanti dall’appartenenza all’Unione; b) il fatto di rendere chiaro che i paesi della federazione dovrebbero impegnarsi ad aiutare concretamente quelli tra i paesi esclusi che avessero la volontà di entrarvi a realizzare le politiche necessarie per far convergere i principali indicatori delle loro economie con quelli delle economie dei paesi del nucleo federale; c) il fatto di fissare un calendario di riunioni sia intergovernative sia interistituzionali nelle quali la posizione dei paesi inizialmente esclusi sarebbe riesaminata periodicamente in vista di una loro futura adesione; d) il fatto di definire una struttura di governo federale tra i paesi che hanno adottato l’euro o che hanno intenzione di adottarlo, attraverso un uso a geometria variabile delle istituzioni esistenti, a partire dal Parlamento europeo; e) il cercare di inquadrare questo processo nell’ambito di una procedura costituente che coinvolga istituzioni e rappresentanti dei cittadini, possibilmente attraverso la convocazione di due convenzioni a cascata, una avente un compito costituente federale per l’Eurozona e l’altra un compito riformatore dei Trattati dell’Unione per realizzare la coesistenza e la convergenza dei due sistemi istituzionali.
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Tutto fa ritenere che l’Europa stia vivendo una delle ultime occasioni in questo ciclo storico per reimmettersi nella corrente principale del corso della storia mondiale. Per coglierla e sfruttarla essa deve però creare al più presto nuove istituzioni e superare le sovranità nazionali. Dipende solo dagli europei compiere dei passi in questa direzione o assumersi la responsabilità di far naufragare, con l’euro, l’intero viaggio europeo. Per scongiurare questo pericolo, lo slogan dei federalisti europei, “Federazione europea subito!”, deve al più presto tradursi in un programma d’azione dei governi, delle istituzioni, dei partiti politici e dei movimenti della società civile.
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