Anno LIII, 2011, Numero 2, Pagina 75
Il progetto europeo alla resa dei conti
L’incalzare drammatico della crisi (che nei giorni in cui si sta scrivendo questo editoriale sembra trascinare la Grecia verso la bancarotta e che sta colpendo l’Italia) mostra agli europei che l’alternativa tra “unirsi o perire” è diventata ormai una realtà a brevissimo termine. Sembra inutile dover ricordare che un fallimento in Grecia avrebbe effetti devastanti su tutta l’aerea dell’euro e che innescherebbe, a maggior ragione a fronte della debolezza di un paese come l’Italia, un meccanismo a valanga che affonderebbe la moneta unica e la stessa Unione europea. I giudizi su un’ipotesi di questo tipo sono unanimi nel sottolineare che il danno economico quasi impallidirebbe di fronte a quello politico: per gli europei in quanto tali o come singoli paesi, vorrebbe dire sparire dalla scena mondiale e perdere ogni capacità di influire nelle trattative internazionali e nella ridefinizione dei rapporti di potere globali. Se ne è accorta, dopo tanti tentennamenti, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha dovuto ammettere che “se l’euro fallisce, fallisce l’Europa”.
Da tempo, in verità, in Germania (così come, pur in modi diversi, anche in Francia) si sta diffondendo la consapevolezza che in Europa serve un’inversione di rotta, un ritorno agli ideali dei padri fondatori che avevano voluto porre le basi non di un mercato – quello che invece, negli ultimi dieci anni, l’Unione ha, di fatto, voluto rappresentare – ma di un’unione politica federale. Non è un caso che tornino ad echeggiare, nella sostanza, i discorsi che si facevano a metà degli anni Novanta sulla necessità di creare un nucleo federale all’interno dell’Unione, avviando subito forme di unione politica tra i paesi più integrati e più favorevoli a questo sbocco del processo europeo (basti pensare al documento presentato al Bundestag il 1° settembre del 1994 da Wolfgang Schaeuble, a quel tempo presidente del gruppo parlamentare della CDU/CSU, insieme a Karl Lamers): allora erano analisi lungimiranti, che mettevano in luce i rischi che l’Europa avrebbe corso se non fosse stata capace di risolvere velocemente la contraddizione di una moneta senza Stato e se non fosse riuscita ad arginare il rischio della diluizione e della rinazionalizzazione insito nell’allargamento avviato senza la parallela creazione di istituzioni europee adeguate; oggi, dopo quindici anni, proprio perché queste indicazioni non sono state seguite e se ne vedono i risultati, sono argomenti che tornano nel dibattito – spesso con la formula della necessità di creare una Federazione nella Confederazione a partire dai paesi dell’Eurogruppo – perché sono gli unici che offrono uno sbocco ragionevole alla crisi.
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Ogni crisi, come continuamente si sente ripetere in questi giorni, proprio per la minaccia che contiene, costituisce anche uno stimolo, ed è pertanto al tempo stesso anche un’opportunità di cambiamento. Per gli europei, che nella loro storia sono riusciti ad avanzare sempre – e purtroppo quasi esclusivamente – in seguito alla necessità di dover superare difficoltà ed impasse, questo significa che la crisi oggi rappresenta la più grande possibilità di fare finalmente il salto dell’unità politica, proprio perché l’alternativa non è più una lenta e sopportabile decadenza, ma la catastrofe. Questa catastrofe gli europei la leggono innanzitutto nei moniti del resto del mondo, che guarda con orrore alla prospettiva che il nostro continente non sia capace di imboccare la via di una vera unità, e che quindi imploda, creando una voragine al centro del fragile equilibrio internazionale che sta tentando con fatica di delinearsi, innescando una serie di imprevedibili contraccolpi a catena. I segnali che arrivano dagli Stati Uniti, dalla Cina, da tutti gli altri paesi emergenti, sono inequivocabili; e le analisi, gli studi, i rapporti delle istituzioni internazionali e dei vari think tanks che vengono prodotti indicano tutti, unanimemente, che gli europei devono creare forme di effettiva unità politica se non vogliono che l’intero edificio comunitario crolli.
Del resto i dati sull’interdipendenza economico-finanziaria che il mercato unico e l’euro hanno creato nel quadro dell’Unione monetaria non lasciano dubbi sul fatto che i destini degli europei siano ormai indissolubili. Il fatto che la situazione in essere sia insostenibile, quindi, costringe a trovare nuove soluzioni, che non possono non avere, come riferimento, il punto di arrivo della creazione di un potere federale europeo.
Sono proprio le materie oggetto dell’emergenza immediata che gli Stati devono affrontare ad indicare che la nascita della Federazione (o come molti evocano “degli Stati Uniti d’Europa”) all’interno dell’attuale Unione dovrà, per forza, essere l’obiettivo finale delle riforme che si devono mettere rapidamente in atto. Quattro questioni sembrano oggi indifferibili.
La prima è l’esigenza di trovare le formule capaci di istituzionalizzare (e “interiorizzare”) i meccanismi di solidarietà reciproca. Questo punto è delicatissimo soprattutto per la Germania (non solo, ovviamente, come l’opposizione di alcuni paesi dell’eurozona all’attuazione delle decisioni prese dimostra; ma la Germania è il paese chiave perché il suo peso in Europa è determinante e il suo sostegno costituisce la conditio sine qua non di qualsiasi intervento). I tedeschi sono materialmente i primi contribuenti dei vari fondi di salvataggio messi in campo per tamponare l’attacco ai debiti sovrani dei paesi più fragili dell’UEM; loro, che per vent’anni hanno cercato di creare paletti che impedissero la trasformazione dell’Unione monetaria in una transfer union, devono ora fare marcia indietro sulla clausola di no-bail out e sul coinvolgimento della BCE nel salvataggio dei titoli di Stato dei PIIGS. Ogni volta che decisioni di questo tipo, pur con fatica e lentezza, vengono prese dai governi sotto il ricatto dei mercati, in Germania si apre un dibattito lacerante, che è arrivato a chiamare in causa la Corte costituzionale tedesca. In questo momento il ricorso o meno all’emissione di Eurobonds come avvio, al di là delle possibili varianti tecniche, di un processo per mettere in comune il debito dei paesi dell’UEM, sembra la trincea su cui si attestano e si condensano i timori tedeschi, non solo contrari ad un aiuto al buio per i paesi che hanno accumulato debiti spropositati, ma anche preoccupati di essere trascinati a fondo dalla fragilità dei partner. Per molti aspetti è normale che questi sentimenti siano diffusi nell’opinione pubblica tedesca. I governi in tutti questi anni non hanno voluto prendere in considerazione un’evoluzione politica dell’Eurozona, e le regole cui è rimasta ancorata l’Unione monetaria non hanno unificato le politiche economiche, o creato convergenze effettive tra i diversi paesi. Il rapporto è rimasto quindi basato sulla competizione tra i paesi membri. Proprio questa è la contraddizione strutturale dell’Unione monetaria creata senza istituzioni politiche adeguate, che oggi i mercati mettono a nudo. Ma finché si rimane in questo quadro intergovernativo/comunitario è sempre il confronto tra interessi nazionali che prevale, e non sempre in modo razionale (la scommessa del potersela cavare meglio da soli può sempre sembrare vincente). La contraddizione tra l’esigenza (razionale e politicamente lungimirante) di mettere in atto forme di solidarietà che impediscano il crollo a valanga dei paesi più deboli (che, lo si è visto, arrivano passo a passo ad includere anche la Francia), e la lacerazione interna che questa produce in Germania è destinata a durare e a richiedere difficili acrobazie da parte del governo finché non la si saprà affrontare nella prospettiva di dare nuova “sostanza” alla costruzione europea attraverso la creazione di una Federazione, un vero e proprio Stato, per quanto “leggero”, come giustamente viene spesso ricordato, che trasformi gli europei in un popolo federale che vive all’interno della stessa comunità politica fondata su istituzioni capaci di governare in vista dell’interesse comune.
La seconda questione riguarda la necessità di limitare la sovranità dei paesi membri dell’UEM nelle politiche di bilancio. Va da sé che questa esigenza pone immediatamente il problema della legittimità democratica dell’organo cui verrà dato il potere di intervenire in una materia così delicata. Sotto la spinta dell’emergenza si è stabilito di accrescere i poteri di controllo della Commissione e di rendere più efficaci le sanzioni. Il meccanismo comunitario che verrebbe attivato non prevede forme di controllo democratico sovranazionali perché la Commissione agirebbe come un arbitro per far rispettare le norme decise all’interno del Consiglio dove non sono rappresentanti i cittadini europei in quanto tali ma sono i governi nazionali che negoziano accordi. I presupposti su cui si basa questa strategia sono, innanzitutto che il problema dei debiti sovrani dei paesi meno virtuosi sia esclusivamente legato alla cattiva volontà dei governi in questione; in secondo luogo che si possa sorvolare anche in questo caso sul problema del deficit democratico, usando il palliativo del coinvolgimento dei parlamenti nazionali nell’approvazione (sostanzialmente ex-post) delle decisioni prese a livello del Consiglio. Ed infine, come condizione essenziale, che tutto questo funzioni: vale a dire che gli Stati sotto tutela riescano a ridurre il loro debito, facciano riforme strutturali a livello nazionale per rilanciare la produttività, la crescita e la competitività del paese, e che quindi la divaricazione tra economie virtuose ed economie fragili all’interno dell’UEM possa diminuire.
Inutile dire che si tratta di uno scenario del tutto irrealistico. Sotto i colpi della crisi i paesi indebitati possono prendere misure per portare in pareggio il bilancio corrente (a prezzo di tagli e austerità, di fatto, e non solo per incapacità: sono i tempi dell’urgenza imposti dai mercati che non lasciano molto spazio), ma a detrimento degli investimenti e della capacità di dare sostegno all’economia. Se ci si limita a questo, il circolo che si innesca è vizioso, non virtuoso: non che Stati come l’Italia e la Grecia non debbano cogliere questa occasione per risanare i conti e soprattutto per riorientare radicalmente la politica e la società. Ma questo salto di qualità diventa pensabile solamente in una prospettiva politica nuova: non più confinata in un quadro nazionale, ma nell’ambito di un processo di creazione di una nuova statualità democratica europea. Inoltre, il deficit democratico creato dalla limitazione di sovranità in campo di bilancio, rischia di diventare insostenibile anche per la Germania che sta reclamando queste misure. I paletti posti dalla Corte costituzionale tedesca, finché il quadro democratico esclusivo di riferimento resta quello nazionale, possono infatti creare tensioni gravi: la contraddizione tra il controllo democratico affidato ad un Bundestag legittimato solo a vigilare sull’interesse nazionale tedesco e le esigenze di “governo” europeo possono diventare esplosive.
La terza questione si collega direttamente alla precedente: i paesi dell’eurozona devono trovare gli strumenti per promuovere a livello europeo un piano per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Proprio perché a livello nazionale non ci sono le risorse – per non dire, a volte, le capacità – per affrontare la questione del rilancio economico, e poiché questa rimane la condizione necessaria anche per risolvere il problema del debito, è vitale che un simile piano venga promosso a livello europeo. La effettiva realizzazione di un piano europeo di investimenti strutturali e di stimolo per l’economia nei settori cruciali richiede però a sua volta condizioni politiche “minime”: quelle che sono mancate fin qui in Europa. I piani elaborati dalla Commissione europea negli ultimi due decenni, infatti, costituivano delle ottime basi di rilancio per il nostro continente, ma sono rimasti lettera morta. Sono mancati innanzitutto gli investimenti, che spettavano direttamente agli Stati; e questo perché sono stati anni di scarsa crescita e di pochi fondi disponibili, ma soprattutto perché, in un’area così integrata sul piano economico, ma divisa su quello politico, l’interesse di ciascuno è di aspettare che siano agli altri ad investire, per poterne a propria volta godere i benefici, senza correre il rischio di farlo per primi.
Se, pertanto, questa volta un piano europeo deve passare dalla carta ai fatti, la prima condizione è che sia in larga parte finanziato con fondi europei indipendenti. Questo pone il duplice problema delle risorse proprie per il livello europeo, e di un bilancio che lasci spazio agli investimenti strutturali (ossia decisamente più ampio di quello attuale dell’UE). Si tratta di questioni che implicano una visione politica del processo europeo e che diventano realizzabili solo se è effettiva da parte dei governi la volontà di traghettare l’Europa verso un’unione federale. Le risorse proprie del livello europeo, infatti, erano già previste dai trattati, e non è un caso che, sotto il peso di difficoltà materiali, siano state man mano cancellate, consegnando il bilancio dell’Unione nelle mani degli Stati e dei loro trasferimenti diretti, che ne hanno stravolto le finalità (sotto questo profilo l’analisi contenuta nel rapporto dei parlamentari europei Haug, Lamassoure e Verhofstadt è chiarissima). Con l’attribuzione a livello europeo di un potere di imposizione, si pone di fatto una delle basi dell’unione fiscale (essendo l’altra data dall’unificazione del debito pubblico): si tratta quindi di un atto politico, recepibile e realizzabile solo nella misura in cui esiste la volontà politica – appunto – di compierlo.
Infine, la necessità di avviare trasformazioni profonde nell’assetto europeo per la nascita di un’unione economica e fiscale non può non accompagnarsi all’esigenza di dotarsi anche di strumenti adeguati per avere una politica estera e di sicurezza unica, e quindi un ruolo di reale potere (e responsabilità) nel mondo. Le finte soluzioni tentate in questi anni dagli europei, in particolare con le ultime riforme previste dal Trattato di Lisbona – che hanno istituito la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza e la possibilità delle cooperazioni strutturate per i paesi che volevano progredire sulla via della più stretta cooperazione nel campo della difesa –, hanno dimostrato ancora una volta che se non si scioglie il nodo dell’unità politica, ossia della messa in comune della sovranità a livello europeo, nessuna forma, per quanto articolata, di cooperazione tra Stati riesce a produrre dei risultati. Al di là della retorica, infatti, la perdita di influenza dell’Unione europea sulla scena mondiale conferma che anche su questo punto, e quindi non solo su quello della tenuta economica (posto che le due cose sono complementari) si gioca il futuro del nostro continente.
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Se il fatto che qualsiasi intervento si pensi di mettere in opera in questa fase rimanda immediatamente al problema della mancanza di unità politica degli europei, è anche cruciale ricordare che il quadro in cui questa esigenza si manifesta non è quello dell’Unione a ventisette, ma quello più ristretto dell’Eurogruppo. Sotto questo aspetto, il fatto che Germania e Francia stiano pensando alla necessità di un trattato parallelo rispetto a quello di Lisbona per i paesi dell’Eurozona permette di evidenziare il punto decisivo. Ormai, il primo passo indicativo della reale volontà di andare oltre i limiti dell’Unione così come è oggi e di voler far compiere effettivamente un salto di qualità al processo di unificazione coincide con il superamento dell’idea che i cambiamenti debbano partire dal quadro comunitario a ventisette e dalla riforma dei trattati esistenti. Infatti, se si resta invischiati nell’idea secondo la quale la creazione di un governo economico dell’Eurozona deve essere concepito e negoziato insieme a paesi, come la Gran Bretagna, che non solo non ne fanno parte, ma che, soprattutto, sono contrari a qualsiasi rafforzamento istituzionale (e che, nel quadro comunitario, mantengono un potere di veto), è evidente che si ricade nelle stesse contraddizioni che hanno portato l’Unione a discutere per dieci anni su una riforma minimale dei trattati e che hanno alla fine partorito il topolino del Trattato di Lisbona, rivelatosi subito totalmente inadeguato.
Non sarà dunque sul terreno della convocazione di una Convenzione a ventisette per discutere la riforma del Trattato di Lisbona, bensì su quello della creazione di un quadro europeo più ristretto rispetto a quello dell’Unione, che si giocherà la prima battaglia decisiva. Un quadro definito dal fatto di fronteggiare insieme la stessa minaccia mortale e dalla volontà di reagire uniti.
Molti sinceri sostenitori del progetto comunitario, e le stesse istituzioni dell’Unione, potranno reagire con timore a questa ipotesi: sia gli uni sia gli altri potrebbero vederlo come un terremoto che metterebbe a rischio la costruzione europea così come si è delineata nel corso dei decenni. In realtà, proprio perché la crisi ha dimostrato che l’equilibrio raggiunto dall’Europa comunitaria è insostenibile, per salvare quanto già costruito a livello europeo l’unica possibilità è quella di riprendere il cammino verso una maggiore unificazione; e per poterlo fare, l’unico modo è partire dai paesi più interdipendenti e più pronti, sul piano politico, a compiere un simile passo.
Il contributo maggiore che potrà dare chi rappresenta le istituzioni dell’Unione e chi crede nella validità del modello comunitario sarà quello di partecipare alla riflessione in vista della elaborazione delle disposizioni per rendere compatibili le norme del nuovo trattato dell’Eurogruppo con quelle dei trattati in vigore nell’Unione e della ridefinizione delle istituzioni nel nuovo duplice quadro. Si tratta di opzioni che erano già state studiate, anche se in modo embrionale, nel passato, in particolare nella metà degli anni Ottanta, quando il tentativo costituente del Parlamento europeo e l’opposizione britannica avevano posto la questione di studiare, in caso di ratifica da parte dei paesi fondatori di un Trattato-costituzione, la compatibilità di quella che allora sarebbe diventata l’Unione rispetto alla Comunità europea, in cui sarebbero sicuramente rimaste la Gran Bretagna, la Danimarca e la Grecia. Così pure il problema si è riproposto sotto il profilo politico, come già si ricordava, a metà degli anni Novanta con la prospettiva dell’entrata in vigore dell’euro e dell’allargamento.
Le ipotesi presentate proprio su questa rivista, sul n.2 del 1986, prevedono (adattandole alla terminologia odierna) che, nel costituire un’Eurogruppo più coeso nell’ambito dell’attuale Unione europea: a) questo sia aperto a successive adesioni da parte dei paesi che manifestino la volontà di entrare a farne parte, posto che ne rispettino le condizioni e che siano pronti ad adottarne le nuove regole; b) si garantisca il rispetto, nei rapporti con i paesi membri solo dell’Unione europea e non dell’Eurogruppo, delle regole e delle procedure dell’Unione; c) si valuti se, nei rapporti intergovernativi e comunitari nell’ambito dell’Unione europea, i membri dell’Eurogruppo debbano agire uti singuli o attraverso organi comuni (in ogni caso, nelle votazioni a maggioranza del Consiglio dei Ministri e nella determinazione del numero dei membri della Commissione spettanti a ciascun paese, l’Eurogruppo dovrebbe contare sempre in proporzione al numero degli Stati membri); d) si studi la composizione degli organi, seguendo il criterio che questi ultimi non debbano essere duplicati, ma possano agire nelle due funzioni di organi del nuovo Eurogruppo e dell’Unione. Il Parlamento e la Commissione, in particolare, potrebbero mantenere la composizione attuale ma, quando essi agissero in qualità di organi dell’Eurogruppo, i rappresentanti dei paesi membri solo dell’Unione europea presenzierebbero in qualità di osservatori, con diritto di parola, ma non di voto; e) il bilancio dell’Eurogruppo sia separato da quello dell’Unione (che dovrebbe mantenere il bilancio in essere) e fondato su risorse proprie.
Ovviamente, oltre a questi punti-cardine, si ponevano e si pongono moltissime altre questioni, che sollevano problemi tecnico-giuridici di non facile soluzione; ma certamente, a fronte della volontà politica di risolverli, non si tratta di problemi impossibili. Inoltre, rispetto al passato in cui si studiava una simile ipotesi, oggi, a rendere più plausibile e necessaria una procedura di questo tipo, c’è l’elemento unificante per l’Eurogruppo della moneta unica e c’è l’urgenza posta dalla crisi. Questo fa sì che sia anche necessario pensare all’elaborazione del nuovo trattato mediante una procedura che non associ inizialmente i paesi esterni all’Eurozona, ma che li coinvolga solo nella definizione relativa ai rapporti tra Unione e Eurogruppo; e che, soprattutto, non dia loro potere di veto, come succederebbe restando all’interno dei trattati esistenti.
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Una delle critiche che sicuramente potrà venir rivolta alla proposta da parte di Germania e Francia di dar vita ad un nuovo trattato per l’Eurozona sarà quella di essere, ancora una volta, il frutto di una decisione unilaterale dei due paesi leader (un risultato, quindi, del “direttorio” franco-tedesco) che non sapranno andare oltre a indicazioni di tipo intergovernativo. Si tratta di critiche in parte sicuramente fondate. Proprio per il fatto di essere ancora un’organizzazione di fatto intergovernativa – come ripete sempre la Corte costituzionale tedesca –, l’Unione nella sostanza procede in base alle iniziative e soprattutto alla volontà degli Stati. E’ quindi un segno della natura reale dell’Europa oggi, e dei suoi limiti politici, il fatto che l’impulso debba venire ancora dai due paesi che hanno costituito sin dalle origini il motore del processo di unificazione e che tale impulso abbia ancora natura confederale. Ma non bisogna farsi ingannare: la nuova realtà che si verrebbe a creare non potrebbe essere altro che una sorta di governo provvisorio, destinato a mettere in luce tutti i limiti d una soluzione che non affronta la questione della legittimità democratica e del passaggio di sovranità; e, paradossalmente, renderebbe finalmente possibile riaprire la battaglia costituente democratica per la fondazione di una vera e propria Federazione nell’ambito dell’Unione.
E’ questa la battaglia cui bisogna prepararsi, e bisogna farlo sin da ora: la nascita del nuovo quadro ristretto va sostenuta con la consapevolezza che prepara il terreno per la vera lotta politica. Le forze politiche e sociali, le associazioni e la società civile non possono più stare a guardare, e non possono più pensare al problema in termini vaghi e di semplice prospettiva. Per andare oltre l’attuale organizzazione intergovernativa e per rispondere all’esigenza di fondare una nuova legittimità democratica, bisogna che entri in gioco il popolo, e quindi bisogna mobilitare il consenso dei cittadini su un progetto preciso (quello della Federazione nella Confederazione) e con motivazioni politiche ed ideali forti e ben definiti. Sarà il popolo europeo a fondare la legittimità del nuovo potere statuale europeo cui si dovrà riuscire ad approdare per raggiungere finalmente un punto di stabilità. E al tempo stesso il popolo si definirà e si darà una vera identità federale proprio nel corso di questo processo in cui dovrà rivendicare, davanti ai governi nazionali, la nascita di una nuova sovranità europea, e dovrà spingerli a dar vita a questo nuovo potere politico. Prima la politica e le forze sociali capiranno che devono impegnarsi per orientare in questo senso la mobilitazione dell’opinione pubblica, indicando un obiettivo concreto e ideale al tempo stesso, e prima si potrà invertire il processo di degenerazione in corso nei nostri paesi, degenerazione che è destinata a non arrestarsi finché non si rimetterà al centro del dibattito e della lotta un progetto credibile per il futuro.
In questa ottica i federalisti stanno preparando il terreno per il lancio di un’Iniziativa dei cittadini europei (come previsto dal Trattato di Lisbona) per chiedere un Piano europeo di sviluppo sostenibile per la crescita, il risanamento economico e l'occupazione, sostenuto da finanziamenti per gli investimenti strutturali frutto di entrate fiscali autonome dell’Unione. Si tratta di una proposta che va incontro ad una delle questioni cui gli europei non possono sfuggire, e che ha come reale obiettivo un’iniziativa nell’ambito dell’Eurogruppo. Ma poiché, al momento, non esistono gli strumenti per indirizzarsi verso un quadro più ristretto rispetto all’attuale, si rivolge all’Unione per mettere in evidenza l’importanza e i vantaggi di un simile Piano e, al tempo stesso, l’impossibilità di realizzarlo nel quadro a ventisette. L’evoluzione del dibattito istituzionale deciderà anche in quale ambito questa rivendicazione potrà essere perseguita, ma il fatto fondamentale non cambia: ed è il segnale che, se esiste la volontà di incominciare ad orientare la volontà dei cittadini verso soluzioni europee che riaprano prospettive per il futuro, si può iniziare a farlo subito. Non esistono più alibi: prima avverrà questo salto culturale e politico e ci si metterà all’opera, e prima si potranno scongiurare le ipotesi più drammatiche di un crollo dell’edificio europeo.
Il Federalista