Anno XXXIII, 1991, Numero 3 - Pagina 169
Il Vertice europeo di Maastricht
I punti decisivi sulla base dei quali devono essere valutati i risultati del Vertice di Maastricht sono due. Il primo è quello dell’Unione economica e monetaria, sul quale è stato raggiunto un importante accordo con la fissazione di una data certa per la creazione di una Banca centrale europea autorizzata ad emettere una moneta unica. Il secondo è quello del superamento del deficit democratico della Comunità, sul quale, come vedremo, sono stati compiuti passi avanti insufficienti, ma reali. Di fronte a queste decisioni, gli accordi relativi all’Europa sociale, alla coesione, alla politica di sicurezza e a quella interna, nonché all’allargamento dei settori di competenza della Comunità, non mettendo in gioco in misura rilevante la sovranità degli Stati, passano in secondo piano, malgrado l’accanimento con il quale sono stati dibattuti.
I risultati conseguiti nel campo monetario sono di per sé abbastanza importanti da giustificare una valutazione complessivamente positiva del Vertice. E’ vero che i tempi previsti per la realizzazione della moneta europea sono lunghi, tanto da indurre molti a temere che l’Unione non acquisisca in tempo la forza e la coesione sufficienti per affrontare con prospettive di successo la crisi economica e i fenomeni di disgregazione civile che si stanno manifestando ad un ritmo sempre più incalzante nei paesi dell’Europa dell’Est. Ma è anche vero che una decisione come quella di Maastricht, con la fissazione della data improrogabile del 1999 (che può essere anticipata al 1997) per la creazione della moneta e della Banca centrale europee, non può non esercitare un forte effetto di annuncio. Ciò è avvenuto nel caso del mercato unico, la cui instaurazione era stata prevista dal Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre dell’85 ad una scadenza appena più ravvicinata di quella della terza fase dell’Unione economica e monetaria (sette anni contro otto, peraltro riducibili a sei). Non può non avvenire nel caso delle ben più rivoluzionarie decisioni di Maastricht. E’ quindi inevitabile che la prospettiva del ’97-’99 incominci da subito a suscitare attese e quindi ad orientare un numero sempre crescente di comportamenti, sia degli operatori economici che degli Stati, creando così un intreccio indissolubile di decisioni politiche, strategie industriali, programmi di investimenti, contratti, che verosimilmente renderà insieme possibile e necessario anticipare l’inizio della fase conclusiva dell’Unione economica e monetaria.
Non bisogna dimenticare peraltro che l’Unione economica e monetaria non si può dissociare dall’Unione politica. E’ un dato di fatto che l’indipendenza della futura Banca centrale europea costituirà un pilastro essenziale dell’Unione economica e monetaria. Nella politica quotidiana la leva monetaria deve essere sottratta al potere politico e alla sua permanente tentazione di usare l’inflazione per nascondere i problemi – aggravandoli – invece di risolverli. Ma è altrettanto vero che lo strumento principale della politica economica non può rimanere sottratto in ogni circostanza al controllo degli organi attraverso i quali in democrazia si esprime la sovranità popolare; il che significa che, di fronte alle scelte cruciali, il potere politico deve prevalere nei confronti della Banca centrale, come è accaduto in Germania di fronte al problema vitale della riunificazione. Da un lato quindi la prospettiva della realizzazione dell’Unione economica e monetaria, in quanto comporta una importante cessione di sovranità da parte degli Stati membri, costituisce di per sé un decisivo passo in avanti sulla strada di una vera Unione federale. Dall’altro essa esaspera il deficit democratico della Comunità, drammatizza la necessità di superarlo mediante radicali trasformazioni istituzionali e, così facendo, rafforza il fronte di coloro che lottano per portare il processo alla sua conclusione politica.
Il Vertice di Maastricht ha comunque dato una risposta all’esigenza di democratizzare le istituzioni comunitarie, anche se si tratta di una risposta insufficiente. La partecipazione del Parlamento europeo al processo legislativo è stata ampliata, anche se in misura inferiore all’ampliamento delle competenze della Comunità e all’attribuzione di competenze alla neonata Unione, così come sono stati estesi, sempre in misura insufficiente, i campi nei quali il Consiglio decide a maggioranza (qualificata). La durata in carica della Commissione è stata fatta coincidere con la durata della legislatura del Parlamento, e la sua entrata in funzione è stata fatta dipendere dal voto di fiducia di quest’ultimo. Vero è che la Commissione è tuttora un organo dalla fisionomia ambigua e non è ancora un governo dotato della pienezza dei poteri esecutivi. Ma è altrettanto vero che i nuovi rapporti tra Parlamento e Commissione prefigurano la nascita di un vero governo parlamentare. E’ stato riconosciuto un ruolo (non istituzionale, e per questo tanto più importante) alla Conferenza interparlamentare (le Assise, che già a Roma nel ‘90 avevano dato una chiara dimostrazione di come i parlamenti nazionali siano importanti alleati del Parlamento europeo) ed è stato incoraggiato lo sviluppo e il consolidamento dei partiti europei. Anche se il termine di «Unione federale» è stato soppresso per non rompere con la Gran Bretagna, è stato sottolineato il carattere evolutivo dell’Unione, che deve diventare «sempre più stretta», e si è fissata una data (il 1996) per verificarne i progressi e per promuoverne di ulteriori. Si tratta certo di dichiarazioni, e si sa che il cammino del processo di integrazione europea è lastricato di dichiarazioni che sono rimaste lettera morta. Resta il fatto che si tratta di dichiarazioni che saranno incorporate in un trattato; che esse sono formulate in un linguaggio preciso e impegnativo; e che si innestano in un processo che comunque è spinto dal motore dell’Unione economica e monetaria, per la quale sono stati sottoscritti impegni e fissate scadenze precise.
Anche la clausola dell’opting out, concessa alla Gran Bretagna e alla Danimarca con riferimento alla terza fase dell’Unione economica e monetaria, e l’esclusione concordata della Gran Bretagna dai futuri accordi in materia sociale devono essere considerati segnali positivi. La costruzione europea potrà avanzare in futuro soltanto se saprà liberarsi dall’ipoteca del veto dei governi più legati al mantenimento della propria sovranità. E potrà allargarsi all’Est e ai paesi dell’EFTA soltanto se riuscirà a creare meccanismi istituzionali che consentano ai nuovi Stati di godere dei benefici derivanti dall’appartenenza all’Unione senza paralizzarne i processi decisionali. Perché ciò accada è essenziale che si consolidi all’interno dell’Unione un «nucleo duro», formato dagli Stati che accettano senza riserve la «vocazione federale» dell’Unione, con proprie regole ed un proprio grado di autonomia, che disponga della libertà di decisione necessaria per darsi in tempi brevi una costituzione autenticamente federale, alla quale gli altri membri dell’Unione possano dare la loro adesione quando se ne saranno verificate le condizioni. Le decisioni di Maastricht costituiscono indubbiamente un passo avanti in questa direzione, e non resta che auspicare che la filosofia dei due cerchi che le ha ispirate sia estesa in futuro anche alle decisioni riguardanti l’Unione politica, e in particolare le riforme istituzionali.
Quello che manca del tutto nella bozza di trattato di Maastricht è invece il mandato costituente al Parlamento europeo. Peraltro era improbabile che una conferenza intergovernativa si spogliasse spontaneamente dei suoi poteri di fronte ad un Parlamento che, pur avendo avuto un promettente soprassalto di orgoglio nelle ultime settimane prima del Vertice, aveva rivendicato il suo ruolo costituente in rare occasioni e in modo assai flebile. La verità è che il suo ruolo costituente il Parlamento deve conquistarselo da solo, mostrando unità, combattività e determinazione. Dopo Maastricht esso dispone comunque di maggiori poteri, e quindi di strumenti di pressione più efficaci. Bisogna che esso li sappia impiegare per acquisire il ruolo, che gli compete in quanto espressione della legittimità democratica europea, di vero artefice dell’unità federale dell’Europa. In questa battaglia esso troverebbe preziosi alleati nella maggior parte dei parlamenti nazionali, che sono anch’essi l’espressione della volontà popolare, e il cui ruolo è altrettanto gravemente compromesso quanto quello del Parlamento europeo dal crescente deficit democratico della Comunità (e dell’Unione, della quale dopo Maastricht la Comunità è divenuta una parte).
Quanto ai federalisti, essi non hanno mai preteso di essere la sola forza motrice del processo di unificazione europea. Essi sanno che, per fare passi avanti sostanziali sulla strada dell’Unione politica, è necessario il contributo di molti attori, dai governi, al Parlamento europeo, alle forze politiche. Ciò che conta è che ognuno di essi giochi correttamente il proprio ruolo. I federalisti hanno giocato correttamente il loro, ed è lecito affermare che, senza la presenza di un’avanguardia capace di tenere vivo il tema dell’Unione federale dell’Europa quando esso sembrava definitivamente uscito dall’orizzonte dei politici nazionali e di mobilitare tutte le forze disponibili quando il momento della decisione si stava avvicinando, i risultati di Maastricht, come quelli raggiunti in ogni altro momento decisivo del processo, non si sarebbero ottenuti. I federalisti non devono quindi certo dimenticare che il loro obiettivo è ancora distante e che la strada che vi conduce è difficile e irta di ostacoli. Ma non devono dimenticare nemmeno che episodi come il Vertice di Maastricht dimostrano che il loro lavoro è determinante. Del resto, se ciò non fosse vero, il tema del federalismo, al quale per lunghi anni essi sono stati i soli a dare voce, non sarebbe entrato con forza, come è accaduto, nel dibattito politico. Non è che da questa duplice consapevolezza che essi potranno trarre le forti motivazioni necessarie per continuare in un impegno che, con l’avvicinarsi dell’obiettivo, promette di diventare sempre più gravoso.
Il Federalista