Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 195
La guerra del Golfo
Gli avvenimenti drammatici che si vanno succedendo nel Golfo Persico costituiscono un’ennesima prova — se mai ve ne fosse bisogno — della totale impotenza dell’Europa. Nello stesso tempo essi danno una eloquente testimonianza della crescente incapacità dell’equilibrio bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale di garantire un ordine internazionale pacifico e compatibile con il progresso economico e civile del mondo, e in particolare della sua parte sottosviluppata. D’altra parte, la logica obiettiva dell’equilibrio bipolare è quella di autoperpetuarsi, impedendo la nascita di nuovi poli autonomi di sviluppo. Ed è ciò che fanno Stati Uniti e Unione Sovietica — coadiuvati dai loro rispettivi satelliti — fornendo a Iran e Iraq gli strumenti della loro reciproca distruzione. Incoraggiando le tensioni nella regione che va dal Mediterraneo al Golfo, le superpotenze e i loro satelliti impediscono la nascita di una spinta all’integrazione della regione medio-orientale, alla quale esse potrebbero invece efficacemente contribuire, in collaborazione con i paesi direttamente interessati, orientando verso progetti comuni di sviluppo le immense risorse che vengono quotidianamente distrutte nel fornire ai governi coinvolti le armi con le quali sono stati fino ad oggi sacrificati milioni di vite umane.
Non si dimentichi che lo stesso sviluppo del fondamentalismo islamico, che sta mettendo seriamente a repentaglio la stabilità del mondo musulmano, è un risultato anche dell’equilibrio bipolare, della sua decadenza e della sua attuale mancanza di alternative. L’Iran non ha soltanto il volto feudale che ha messo in vista il governo degli ayatollah. In un quadro mondiale diverso, con un equo ordine economico internazionale, esso avrebbe in sé le potenzialità per diventare gradualmente un paese moderno, laico e progredito. Ma ogni volta che c’è stata una scelta, sin dai tempi di Mossadeq, il gioco della politica internazionale ha gettato il paese sulla via peggiore. Persino dopo la caduta dello Scià, l’Iran aveva sperimentato diverse soluzioni laiche e virò definitivamente verso la teocrazia soltanto dopo che i numerosi appelli rivolti all’Europa dai suoi governi per ricevere aiuto e solidarietà erano fatalmente caduti nel vuoto. L’incitamento e lo sfruttamento del fanatismo religioso sono quindi l’estrema risorsa delle forze che non volevano il ritorno della monarchia e degli Americani per dare una base all’indipendenza del paese.
Sperare oggi che l’equilibrio della regione possa essere ripristinato con una prova di forza militare da parte degli Americani e di alcuni loro alleati significa ritenere possibile che un assetto internazionale sia in grado di risolvere i problemi che esso stesso provoca. Si aggiunga che, se la presenza navale americana nel Golfo, per quanto inutile, è la conseguenza inevitabile delle responsabilità mondiali che gli Stati Uniti — in mancanza di alternative — sono comunque costretti ad esercitare, le spedizioni inglese, francese e italiana testimoniano soltanto di un anacronistico soprassalto di orgoglio nazionale, quando non sono il frutto di puro velleitarismo o di calcoli interni di potere.
E’ evidente che una soluzione in tempi brevi del problema non può oggi dipendere che dalla presa di coscienza, da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica della necessità di un’azione convergente, esercitata sia sull’Iran che sull’Iraq, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Senza questo impegno delle due superpotenze, qualunque appello all’ONU è destinato a cadere nel vuoto ed a servire da alibi per tranquillizzare la propria coscienza. E che un’azione congiunta USA-URSS possa prendere corpo nel prossimo futuro è possibile — a causa degli enormi pericoli per entrambe le due superpotenze che sono insiti nel conflitto — anche se non facile, per l’intrinseca logica conflittuale dell’equilibrio bipolare.
La buona volontà di Gorbaciov è ormai indiscutibile. Ma rimane il fatto che non è certo l’equilibrio bipolare — con il suo corollario, i blocchi militari — la base dalla quale è pensabile partire per fare progressivamente delle Nazioni Unite un organismo capace di mobilitare energie per esercitare un’azione efficace di pacificazione internazionale e quindi l’embrione di un governo mondiale. Perché ciò accada, è necessario che prenda corpo sulla scena internazionale un nuovo attore, strutturalmente interessato alla pace e alla collaborazione, che sia in grado di fare da mediatore tra le due superpotenze, di rompere la logica concorrenziale dell’equilibrio bipolare che rischia di spingere il mondo alla catastrofe, di incoraggiare con una politica di apertura e di cooperazione nuove tendenze all’integrazione regionale e di impegnarsi efficacemente per il disarmo e la distensione. E’ necessario soprattutto che questo nuovo attore dia, con la sua nascita, l’esempio del superamento della sovranità nazionale. Ne nascerebbe un nuovo scenario che modificherebbe in modo decisivo le aspettative degli uomini, dirigendole verso l’ideale del governo mondiale. L’ONU tenderebbe sempre più a divenire il quadro giuridico di questa nuova fase dell’equilibrio internazionale, nella quale la collaborazione prevarrebbe sulla competizione.
Questo nuovo attore non può essere altri che l’Europa. E’ ormai un dovere indilazionabile delle classi politiche europee prendere coscienza della necessità di dedicare al progetto di un’unione democratica degli Stati della Comunità le energie che sperperano nell’inutile tentativo di avvalorare l’idea, nella quale ormai nessuno più crede, che le «medie potenze» dell’Europa occidentale abbiano ancora un ruolo da giocare nella politica internazionale che non sia quello — cinico — di gettare, con la fornitura di armi, benzina sul fuoco di conflitti come quello del Golfo.
Il Federalista