Anno XXXIII,1991, Numero 2 - Pagina 95
Federalismo e autodeterminazione
Il rischio di dissoluzione della Jugoslavia e il persistere delle tensioni tra il potere centrale e le repubbliche periferiche in Unione Sovietica mettono a dura prova il nuovo equilibrio europeo che sta nascendo dopo la fine della guerra fredda. Pretendere di prevedere oggi se, in queste due aree di crisi, il potere centrale riuscirà, dopo il tramonto del comunismo e nell’attuale situazione di collasso economico, a mantenere l’unità delle rispettive compagini statali, e a quale prezzo, sarebbe azzardato. Ciò che però si può prevedere con ragionevole certezza sono le conseguenze di una possibile disgregazione dell’Unione Sovietica e della Federazione jugoslava. Vero è che il grado di interdipendenza raggiunto oggi dai rapporti politici, economici e sociali in Europa consente di escludere che si possa ripetere la situazione esplosiva che si ebbe nella parte centro-orientale del continente nella prima metà del nostro secolo. Oggi nessuno Stato può garantire l’ordinato funzionamento e la sopravvivenza stessa della propria società civile se non è inserito in una rete di rapporti di collaborazione economica e in un sistema di sicurezza di dimensioni continentali. Ma questo non esclude che il moltiplicarsi, in una parte dell’Europa nella quale l’idea di nazione non si è consolidata e non identifica gruppi con confini anche soltanto approssimativamente definiti, di Stati sovrani di piccole o piccolissime dimensioni, il cui solo fondamento ideologico sarebbe proprio il mito della nazione, sarebbe destinato a generare una situazione di permanente tensione e di grave instabilità, e quindi a bloccare il processo di spoliticizzazione delle frontiere che ha i suoi motori nella Comunità europea e nella CSCE.
Se le spinte secessionistiche delle repubbliche baltiche e transcaucasiche dell’Unione Sovietica, della Moldavia, della Slovenia e della Croazia porteranno alla nascita di nuovi Stati sovrani, o alla modificazione dei confini tra gli Stati sovrani attualmente esistenti, avrà inizio una reazione a catena che non si fermerà certo alle frontiere dell’Unione Sovietica né a quelle della Jugoslavia. Basti ricordare, per quanto riguarda quest’ultimo paese, che la Bulgaria, che vanta pretese territoriali su di una parte della Macedonia, aspetta che l’indebolimento della Federazione le offra l’occasione per farle valere; che le popolazioni magiare della Vojvodina e quelle albanesi del Kosovo non potranno a loro volta che tentare di trarre profitto dalla crisi del potere di Belgrado; che in Istria si è riscoperta l’esistenza di una minoranza italiana, sulla quale i fascisti dall’altra parte della frontiera hanno incominciato ad esercitare una forte pressione propagandistica. Per quanto riguarda l’Unione Sovietica, l’esistenza di una maggioranza di lingua romena in Moldavia e di un’importante minoranza polacca in Lituania rischiano di coinvolgere nel processo di diffusione delle tensioni nazionalistiche la Romania e la Polonia. Una ripresa del nazionalismo polacco avrebbe ripercussioni immediate nell’Alta Slesia e nella Pomerania. Conseguentemente certe tendenze reazionarie, che sono ben vive in Germania, ma che la situazione attuale costringe a rimanere nel sottosuolo politico, riprenderebbero fiato, e ridarebbero un forte impulso alla sopita ma mai spenta diffidenza dei paesi dell’Europa occidentale nei confronti della Repubblica Federale. Lo stesso processo di unificazione europea rischierebbe la crisi, o comunque un grave rallentamento.
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Ma, si dice da molti, quali che siano le conseguenze di una possibile disgregazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, rimane per tutti il dovere imprescindibile di rispettare il diritto di autodeterminazione dei popoli. Le pretese delle repubbliche secessionistiche sono comunque legittime perché sono avanzate nell’esercizio di un elementare diritto democratico. Si tratta quindi di scegliere tra la democrazia e la ragion di Stato, e la prima deve far premio sulla seconda.
In realtà le cose non sono così semplici. E non lo sono perché il contenuto del diritto di autodeterminazione è assai oscuro. La sua oscurità risiede essenzialmente nell’indeterminatezza del soggetto che dovrebbe esercitarlo. Questo soggetto è, secondo la comune definizione che si dà del diritto, il «popolo». Ma la nozione di «popolo», in questo contesto, è essa stessa inafferrabile. Nel caso dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, per esempio, non è affatto chiaro quali popoli siano titolari del diritto di autodeterminarsi. Un referendum sull’opportunità di salvaguardare l’integrità territoriale dell’Unione Sovietica darebbe risultati del tutto contraddittori a seconda che venisse proposto al «popolo» dell’Unione Sovietica nel suo complesso; o al «popolo» della Lituania, della Moldavia o della Georgia; o infine al «popolo» delle regioni bielorusse o polacche della Lituania, o a quello della Gagauzia o dell’Ossezia meridionale. Lo stesso vale per la Jugoslavia. Perché il «popolo» croato avrebbe il diritto di autodeterminarsi, e non anche il «popolo» della Krajina, la regione a maggioranza serba che è conglobata nella Repubblica croata? Il fatto è che la decisione che riguarda l’identità del gruppo che si deve autodeterminare non è presa dai cittadini nell’esercizio del diritto di autodeterminazione, ma è il risultato di equilibri di potere che con il diritto di autodeterminazione non hanno nulla a che fare, ed è spesso imposta da demagoghi senza scrupoli pronti a sfruttare situazioni di crisi strumentalizzando, per acquisire potere, sentimenti che, se gestiti responsabilmente, si esaurirebbero in rivalità compatibili con una normale dialettica politica.
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Gli uomini posseggono per natura molteplici identità culturali e sentimenti di appartenenza nei confronti di diverse comunità territoriali, fino alle più piccole, alle quali sono più strettamente legati dai loro affetti, consuetudini e ricordi. In questa molteplicità sta la ricchezza spirituale del genere umano, la radice del pluralismo e della libertà. Ma quando una singola comunità, qualunque essa sia, diviene il punto di riferimento esclusivo del lealismo dei suoi membri e ad essa viene attribuita la prerogativa della sovranità, si introduce nella convivenza civile, attraverso il nazionalismo, il principio della disgregazione. Vero è che nel corso del diciannovesimo secolo l’idea di nazione è servita – anche se soltanto in una parte dell’Europa occidentale – come giustificazione ideologica dell’allargamento dell’orbita dello Stato e della creazione di vasti mercati liberati dagli impedimenti della società feudale. Ma oggi, nell’epoca dell’estensione dell’interdipendenza a dimensioni continentali e planetarie, l’idea di nazione non è rimasta che un mito reazionario, la cui funzione è soltanto quella di dividere, non di unire. Grazie ad essa, la legittima aspirazione di ogni essere umano ad esprimersi liberamente nella propria lingua e a vivere secondo i propri costumi, nell’apertura alle altre culture e nel rispetto dei costumi altrui, si trasforma in intolleranza e in aggressività nei confronti di chi parla un’altra lingua e vive secondo altri costumi. E si deve notare che intolleranza ed aggressività nei confronti delle minoranze tendono ad esasperarsi tanto più quanto più piccole sono le «nazioni» che conquistano la sovranità. La difficoltà di farsi riconoscere nella loro specificità – dovuta appunto alle loro piccole dimensioni – rende per esse intollerabile e minacciosa la presenza di gruppi che non si identificano con i loro simboli ed i loro riti. Basti ricordare il rifiuto assoluto della «nazione» georgiana di riconoscere l’esistenza all’interno della repubblica di comunità «diverse», come quelle degli Osseti e degli Akbazi; o quello dei Croati di riconoscere ai Serbi che vivono nel territorio della loro repubblica gli stessi diritti di cui essi chiedono il riconoscimento a Belgrado.
La realtà è che, fino a che si insiste nel ritenere che il genere umano si divide per natura in nazioni esclusive, non ci si può sottrarre alla constatazione che non vi è comunità, per piccola che sia, che non comprenda in sé delle minoranze, ognuna delle quali può vantare, allo stesso titolo di ogni altra, il diritto di autodeterminarsi. In questo modo il principio di autodeterminazione svela il proprio carattere di principio della dissoluzione della convivenza civile, del ritorno allo stato di natura, della guerra di tutti contro tutti.
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Molti giornali occidentali, come abbiamo ricordato, considerano i separatisti delle repubbliche periferiche dell’Unione Sovietica o quelli sloveni e croati come democratici in lotta contro un potere oppressivo. Ed è un dato di fatto che l’Unione Sovietica di Gorbaciov non può essere ancora considerata un regime liberal-democratico (pur avendo compiuto passi giganteschi in questa direzione) così come la Serbia di Milosevic (che peraltro non è la Jugoslavia) è oggi senza dubbio uno dei regimi dello scacchiere europeo-orientale nel quale il processo di democratizzazione è meno avanzato. Ma il dato di fondo del problema è costituito dal fatto che il processo di democratizzazione è in corso ovunque in Europa orientale, e che soltanto la follia degli uomini potrebbe arrestarlo. Molti tendono a dimenticare che quella che è culminata negli avvenimenti del 1989 grazie alla straordinaria opera di Gorbaciov è stata una trasformazione globale, che ha risvegliato le stesse «identità nazionali» della Lituania, della Georgia, della Slovenia, ecc., soltanto perché, da un lato, ha dato inizio al cammino della democratizzazione dell’Unione Sovietica e perché, dall’altro, ha cambiato radicalmente i dati dell’equilibrio mondiale liberandolo dalla gabbia del bipolarismo e in particolare scongelando la situazione di potere in Europa orientale.
Che l’impresa di Gorbaciov sia di immensa difficoltà è un fatto, come è un fatto che essa è lontana dal traguardo. Ma una cosa è certa: che dopo il grande disgelo imposto da questo storico personaggio la lotta per la democrazia nel mondo non è più, sia nei fatti che nella testa degli uomini, la lotta di una superpotenza contro l’altra nel quadro dell’equilibrio del terrore, ma ha come presupposti la sicurezza reciproca e la crescente comprensione e la collaborazione economica e tecnologica tra i popoli. La democrazia di domani non si potrà realizzare che attraverso l’instaurazione di un nuovo ordine europeo stabile e pacifico, i cui pilastri siano una Federazione europea estesa fino ai confini occidentali dell’Unione Sovietica ed un’Unione Sovietica che abbia completato il suo cammino verso il federalismo, il pieno riconoscimento dei diritti civili e l’economia di mercato. Mentre quella della creazione di nuovi piccoli Stati sovrani, instabili e aggressivi, è soltanto la strada dell’autoritarismo e della dissoluzione della convivenza civile. Le sorti della democrazia in Lituania, in Georgia, in Slovenia e in Croazia dipendono esclusivamente dall’evoluzione del quadro europeo, e non certo dalla prospettiva puramente illusoria del recupero della sovranità nazionale. La stessa Serbia potrà evolvere verso la democrazia soltanto se una Jugoslavia che abbia mantenuto la propria integrità territoriale si avvicinerà sempre più alla Comunità, con la quale intrattiene già rapporti di crescente intensità, e ne subirà l’influenza politica fino a mettersi in condizione di divenirne uno Stato membro. Mentre una Serbia separata dalle due repubbliche secessioniste e condannata a cercare il consenso dei suoi cittadini sulla base di motivazioni nazionalistiche, non potrebbe che esasperare le sue tendenze espansionistiche e autoritarie, e costituirebbe così una minaccia permanente per i suoi vicini ed una fonte perenne di instabilità per i Balcani e per l’Europa.
Oggi quindi è democratico soltanto chi lavora per l’unità, mentre chi lavora per la divisione sta obiettivamente dalla pane della dittatura.
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Si dice spesso che rifiutarsi di sostenere le aspirazioni all’indipendenza che si manifestano in Unione Sovietica e in Jugoslavia sarebbe colpevole perché in ultima analisi i gruppi separatisti non agiscono per spirito nazionalistico, ma soltanto per liberare i loro paesi dei vincoli che impediscono loro di avvicinarsi all’Europa comunitaria. La loro aspirazione profonda sarebbe soltanto quella di uscire da una compagine multinazionale di carattere imperiale per entrare in un’altra compagine multinazionale di carattere democratico (e assai più sviluppata economicamente). Ora, che processi del genere si possano di fatto manifestare in un futuro più o meno lontano non è impossibile. La Comunità europea possiede una grande forza di attrazione e ne possiederà una ben maggiore negli anni a venire se saprà darsi istituzioni democratiche e federali. Se qualcuna delle repubbliche sovietiche occidentali o jugoslave riuscirà nell’improbabile tentativo di affermare in qualche modo la propria indipendenza senza gettare l’intera Europa nel caos, essa sarà attratta prima o poi nell’orbita della Comunità. Rimangono da fare però alcune importanti riserve. La prima è che il comportamento dei gruppi secessionistici e dei loro leaders appare improntato ai canoni più classici del nazionalismo, ai suoi miti e ai suoi riti, alla violenza e all’odio del vicino. Presentarli come federalisti virtuali appare quindi come puro wishful thinking. La seconda è che la prospettiva di un ingresso delle repubbliche secessioniste in una Comunità trasformata in Unione federale è comunque incerta e lontana, perché potrà concretizzarsi soltanto se e quando saranno state superate gravi crisi politiche interne e internazionali, che le loro lotte per la conquista della sovranità non mancheranno di provocare. E’ quindi pretestuoso invocare un’eventualità così improbabile per sostenere rivendicazioni che in tempi prevedibili non possono produrre che tensione e instabilità. La terza è che è certo comprensibile, se si adotta un punto di vista strettamente egoistico, che una parte dei cittadini di certe repubbliche sovietiche e jugoslave relativamente prospere rispetto alle altre regioni dello Stato di cui fanno parte voglia liberarsi del peso costituito dalla necessità di contribuire in proporzione alle proprie risorse allo sviluppo del resto del paese e sia irritata dal fatto che il frutto del suo lavoro sia in parte dissipato da una classe politica e da una burocrazia corrotte e inefficienti. Ma l’applicazione coerente del principio secondo il quale ogni regione sarebbe legittimata a lasciare a proprio arbitrio lo Stato cui appartiene e ad entrare in un altro Stato per ragioni di convenienza economica comporterebbe semplicemente la soppressione, nella sfera della politica, della dimensione della solidarietà, che costituisce l’essenza stessa della democrazia: quella dimensione che viene negata, in Italia, dal falso federalismo delle leghe. Il vero federalismo si propone, al contrario, di allargare, rafforzando nel contempo il pluralismo, la dimensione della solidarietà, prima al livello continentale e poi a quello mondiale.
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Tutto ciò non compromette minimamente il diritto di ogni comunità territoriale, a partire dalla più piccola – villaggio o quartiere – all’autogoverno. L’elemento che distingue il diritto all’autogoverno dal cosiddetto diritto all’autodeterminazione è l’assenza del legame con la sovranità, cioè del carattere dell’esclusività. L’autogoverno è un aspetto imprescindibile della democrazia. Gli uomini hanno bisogni comuni all’intera specie e bisogni specifici delle comunità di diverse dimensioni delle quali essi si trovano a far parte. E’ naturale che ad essi debbano provvedere livelli di governo organizzati nello stesso quadro territoriale nel quale i bisogni si manifestano e quindi si pongono i problemi. Per i bisogni fondamentali che hanno la loro espressione ideale nei valori della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della pace la dimensione della solidarietà deve essere planetaria. Ciò sta a significare che gli stessi Stati sovrani oggi esistenti sono arbitrari, e devono essere superati nella prospettiva della Federazione mondiale. Altri bisogni, come quelli collegati alla cultura, alla qualità della vita, alla pianificazione del territorio, al rapporto tra spesa pubblica e spesa privata, devono trovare la loro soluzione in ambiti istituzionali più ristretti. La pluralità degli ambiti di governo, indipendenti ciascuno nella sua sfera e coordinati tra di loro, costituisce l’essenza del federalismo. In un sistema federale che dia espressione reale al principio di sussidiarietà, ogni comunità umana, anche la più piccola, può far valere la propria individualità, grazie alla tutela dei suoi diritti garantiti dalla costituzione, senza per questo cessare di far parte di un popolo più grande e, in prospettiva, del popolo mondiale.
Il federalismo consente di dare espressione politica al fatto che gli uomini sono insieme uguali nella loro dignità morale di esseri liberi e infinitamente diversi nelle loro specificità culturali. La diversità, nell’ambito della fraternità universale, non è certo un vizio delle minoranze, ma un pregio di ciascuno. E ciò non può trovare un riconoscimento nella convivenza civile che attraverso una forma di Stato che non cerchi il fondamento della propria legittimazione negli impulsi tribali che albergano nella parte peggiore dell’anima di ognuno, ma nel consenso liberamente prestato da individui che sentano come loro identificazione primordiale quella della comune appartenenza al genere umano.
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Ci si chiede spesso che cosa dobbiamo rispondere agli amici baltici, croati o sloveni che si dichiarano motivati insieme dall’ideale federalista e dal sentimento nazionale nei confronti delle loro repubbliche. Noi dobbiamo rispondere loro che i peggiori servizi che potrebbero essere resi alla causa del federalismo in Europa e nel mondo sarebbero la disgregazione dell’Unione Sovietica e la guerra civile in Jugoslavia. Oggi il fronte sul quale si gioca il futuro dell’umanità è quello dello scontro tra federalismo e nazionalismo. Quali che siano i sofismi con i quali si tenti di conciliare l’inconciliabile, e fatta salva la buona fede della maggior parte di coloro che li accettano, non si può essere insieme nazionalisti e federalisti. Il che non impedisce che si possano amare le proprie, molteplici piccole patrie: ma soltanto nel quadro di un sistema istituzionale che garantisca insieme la pace e il pluralismo. Oggi un buon federalista in un paese baltico dovrebbe mettersi – sfidando l’impopolarità, come i federalisti hanno sempre fatto – alla ricerca delle migliaia di cittadini delle altre repubbliche sovietiche che sono insieme sensibili ai valori della solidarietà e a quelli del pluralismo e impegnarsi con loro per trasformare l’Unione Sovietica in una vera federazione democratica, capace di dare un contributo decisivo, nel quadro degli accordi di Helsinki e in collaborazione con una Unione europea capace di agire, alla creazione di un ordine europeo e mondiale pacifico e democratico. Così come un buon federalista croato o sloveno dovrebbe cercare, sfidando anch’egli l’impopolarità, persone animate dagli stessi valori all’interno delle altre repubbliche jugoslave per far avanzare il processo di democratizzazione in tutto il paese e per portare quest’ultimo, senza comprometterne l’integrità, nell’Unione europea, dando in questo modo, insieme alla Repubblica Federale di Germania, l’esempio di come uno Stato federale possa diventare esso stesso membro di una federazione più grande, garantendone così il decentramento e il pluralismo.
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Resta il fatto che gli Europei occidentali non possono pretendere di dare lezioni di federalismo agli Europei dell’Est se essi stessi si dimostrano impotenti a creare, nel quadro della Comunità, un vero Stato federale, capace di usare la propria ricchezza per contribuire a creare, in Europa e nel mondo, un equilibrio stabile e pacifico; di offrire l’adesione ai propri vicini senza mettere in pericolo la propria coesione interna e la propria efficacia decisionale; e di presentare al mondo un modello di convivenza civile basato sulla tolleranza, che faccia da alternativa al mito distruttivo della nazione. I drammi che si stanno vivendo in Unione Sovietica e in Jugoslavia costituiscono un permanente, grave atto d’accusa nei confronti degli uomini di governo dei Dodici che, posti di fronte alla possibilità concreta di realizzare questa trasformazione, sembrano una volta di più paralizzati dalla preoccupazione di difendere sovranità nazionali percepite ormai dalla grande maggioranza dei loro stessi cittadini come insensate e antistoriche.
Il Federalista