IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXVI, 2024, Numero 2-3, Pagina 67

L’ora della svolta

Mai come oggi, nella storia del processo di integrazione, gli europei si sono trovati sull’orlo del baratro. In un contesto globale in cui potenze di dimensioni continentali competono ferocemente tra loro per risorse, mercati e sfere di influenza politica, e caratterizzato da instabilità e guerre, l’Unione europea, disunita e debole, rischia di essere il vaso di coccio tra vasi di ferro e di dover scegliere, incapace di determinare il proprio destino, a quale padrone obbedire.

Se l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto andare in frantumi l’idea che una nuova guerra in Europa fosse impossibile, l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha dato il colpo di grazia alla visione di un mondo fondato sulla cooperazione pacifica tra Stati, nel quale l’Unione europea poteva permettersi di delegare la propria sicurezza ad altri, di limitarsi a sviluppare il mercato interno e di non porsi il problema di esercitare un potere politico. Mentre gli Stati Uniti hanno sostenuto e incoraggiato l’integrazione europea all’indomani della Seconda guerra mondiale e hanno garantito fino ad oggi la difesa del nostro continente, l’amministrazione Trump ha infatti oggi il chiaro obiettivo di dividere gli europei e indebolirli, per renderli, piccoli e in lotta tra loro, soggetti al servizio della politica di potenza americana.

L’immenso potere economico di Elon Musk, unito ai suoi tentativi di influenzare i risultati elettorali nei Paesi europei incoraggiando il sostegno ai movimenti di estrema destra e addirittura di creare un fronte unito sotto lo slogan “Make Europe Great Again”, la tentazione di alcuni Stati, in particolare l’Italia, di proporsi come migliori alleati degli Stati Uniti nell’illusione di trarre vantaggio da tale posizione, e il panico creato da un’amministrazione americana dai comportamenti imprevedibili sono tutti fattori che creano la tempesta perfetta. Una tempesta che travolgerà gli europei se non dimostreranno con decisione la volontà di unirsi politicamente e di compiere passi concreti in questa direzione.

Il campanello di allarme sull’urgenza per l’Unione europea di cambiare passo e sui rischi insiti nell’immobilismo nel quale gli Stati europei si sono finora cullati era già stato suonato dai rapporti Letta, Draghi e Niinistö. Si tratta di documenti che mettono in luce elementi di grande rilievo, e che indicano con forza l’urgenza di un cambio di passo da parte dell’Europa. Da un lato, infatti, sottolineano con chiarezza la mancanza di competitività e di incisività degli Stati europei quando agiscono divisi e in ordine sparso e l’insostenibilità della dipendenza dell’Europa da potenze esterne per quanto riguarda energia, difesa, materie prime, tecnologia. Dall’altro, fanno emergere le enormi potenzialità che l’Europa avrebbe se agisse unita e con una sola voce; potenzialità che, se sfruttate, non solo consentirebbero agli europei di difendere i propri valori di democrazia, libertà, uguaglianza, ma contribuirebbero alla creazione di un mondo fondato sul multilateralismo e sulla cooperazione, allo sviluppo di forme di democrazia internazionale e alla messa in atto di strumenti efficaci per far fronte alla crisi climatica e alla sfida ambientale.

L’elemento che emerge con chiarezza da questi rapporti è la profonda interconnessione tra i vari settori e la necessità dunque di affrontare i problemi ai quali l’Unione europea si trova di fronte con un approccio globale. Così, il rapporto Draghi sottolinea che “le politiche industriali — come quelle degli Stati Uniti e della Cina — comprendono strategie multi-politiche, che combinano politiche fiscali per incentivare la produzione interna, politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali all’estero e politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento”, che una reale difesa europea autonoma non è possibile senza politica industriale europea e un bilancio in grado di sostenere i costi di una simile trasformazione, e che l’Unione europea deve dunque sviluppare una vera e propria “politica economica estera”. Similmente, dal rapporto Niinistö emerge come il concetto di sicurezza abbracci non solo la sicurezza da un punto di vista militare, ma comporti la necessità di dotarsi di strumenti in grado di prevenire e contrastare la disinformazione e di garantire la cybersicurezza, di assicurare l’approvvigionamento di materie prime, di garantire il rifornimento di quantità sufficienti di prodotti alimentari, e come l’incapacità di far fronte a queste sfide metta in pericolo la stessa democrazia e  i valori sui quali l’Europa si fonda.

L’Europa si trova dunque di fronte a una sfida esistenziale, che potrà essere vinta solo se gli Stati membri e le istituzioni acquisiranno la consapevolezza della posta in gioco e saranno in grado di fare un salto verso la creazione di un’unione politica.

Se questa consapevolezza sembra almeno parzialmente farsi strada, non altrettanto può dirsi tuttavia della volontà di trasformare l’Unione europea in maniera strutturale, ponendo le basi di una trasformazione in senso federale.

Se è vero, infatti, che il processo di integrazione, di fronte a crisi che colpiscono tutti gli Stati membri, ha mostrato che gli interessi di questi tendono a convergere, e dunque l’Unione, tramite decisioni adottate all’unanimità in seno al Consiglio europeo o al Consiglio, è stata in grado di reagire (come è stato il caso della crisi del Covid, quando è stato deciso di finanziare un piano di aiuti tramite l’emissione di debito — il NextGenerationEU — o quando l’UE ha fatto fronte comune, pur con difficoltà dovute alla posizione dell’Ungheria, in difesa dell’Ucraina dopo l’invasione da parte della Russia), non bisogna dimenticare che si tratta di decisioni di carattere intergovernativo che poggiano su un allineamento temporaneo di interessi nazionali, e dunque su basi fragili. Sono dunque decisioni in grado di garantire una certa forza di resistenza dell’Unione a minacce esterne, ma manifestano al contempo l’incapacità dell’Unione europea di adottare decisioni politiche di lungo respiro che non siano solo il frutto della convergenza temporanea di ventisette interessi nazionali.

La reazione degli Stati membri alle recenti minacce di dazi da parte di Trump sono indicative di questa difficoltà. Nonostante, infatti, sia interesse di tutti gli Stati membri difendere l’economia europea e dunque reagire in modo unitario a queste minacce, il diverso atteggiamento dei vari Paesi non ha tardato a manifestarsi. Nel vertice informale del 3 febbraio scorso convocato da Antonio Costa per discutere delle prospettive di difesa europea, infatti, mentre alcuni Stati come Francia e Germania si sono schierati a favore di un atteggiamento di fermezza nei confronti degli Stati Uniti, altri hanno manifestato la volontà di tenere un atteggiamento più morbido e aperto alla negoziazione, attraverso l’offerta di acquistare più armi e più gas liquido dagli Stati Uniti nella speranza di una retromarcia di Trump sui dazi.

È su questa divisione che contano le grandi potenze esterne all’Europa, una divisione che ha carattere strutturale ed è legata ai meccanismi istituzionali dell’Unione europea i quali, ancora profondamente dipendenti da un accordo tra governi legittimati democraticamente a livello nazionale, per loro natura favoriscono la frammentazione e la divergenza tra interessi nazionali anziché favorire soluzioni comuni. Fino a quando dunque l’Unione non si doterà di una testa politica, di un bilancio degno di questo nome finanziato attraverso un sistema fiscale europeo e di meccanismi decisionali democratici e non più basati sull’accordo unanime tra i governi, essa non uscirà dalla spirale di impotenza e sfiducia nella quale è avvitata.

Questi obiettivi potranno essere raggiunti solo se si aprirà una discussione su una profonda revisione dei meccanismi e della struttura istituzionale dell’Unione, e quindi su una riforma complessiva dei Trattati esistenti. Si tratta di un obiettivo difficile, che non è incompatibile con passi avanti in singoli settori per far fronte alle emergenze e preparare il terreno per un salto politico (come dotare l’Unione di strumenti di difesa o di fondi aggiuntivi o di un nucleo di politica industriale, o completare il mercato dei capitali e l’unione bancaria). Ma affinché questi passi rafforzino la prospettiva di un’Europa politica e non costituiscano invece semplicemente soluzioni di ripiego destinate a procrastinare la situazione di impotenza nella quale gli europei si trovano, è necessario che gli Stati membri e le istituzioni manifestino con forza la volontà di procedere uniti per dar vita a un’Europa in grado di tutelare gli interessi dei suoi cittadini e di giocare un ruolo di equilibrio sulla scena mondiale, e dunque per creare un potere europeo in grado di rapportarsi su un piede di parità con le altre potenze di dimensione continentale. Solo se saranno viste come passi di un processo coerente e complessivo verso la creazione di una struttura istituzionale di carattere federale — una struttura sicuramente frutto dell’iniziativa di un’avanguardia di Stati membri volonterosi, e che verosimilmente dovrà sapersi strutturare su due diversi cerchi di integrazione — le soluzioni che saranno adottate potranno costituire un deterrente non solo nei confronti di minacce militari al territorio dell’Unione, ma anche rispetto ai tentativi di dividere tra di loro gli Stati membri, o addirittura minare i principi democratici, i valori e i diritti che sono alla base del modello europeo.

Come è stato sottolineato da Lorenzo Marsili sul Guardian il 4 febbraio scorso, non si tratta di una questione di destra o sinistra, di liberalismo o populismo, né di una rinuncia alle identità nazionali a favore di una burocrazia centralizzata a Bruxelles: si tratta piuttosto di voler essere un soggetto, e non un mero oggetto, della storia. 

4 Febbraio 2025

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