Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 3
La democrazia in crisi
si salva solo con l’Europa federale
Nelle ultime quattro settimane, tra il 6 giugno e il 7 luglio, si sono susseguite le elezioni europee e poi quelle legislative in Francia, precedute dal voto nel Regno Unito. Dopo il quadro preoccupante che ci hanno consegnato le europee, la riscossa democratica in Francia, che ha fermato l’ondata del Rassemblement national di Marine Le Pen e Bardella, ridà fiato e un po’ di fiducia alle forze democratiche, che festeggiano anche la vittoria del Labour Party di Keir Starmer. Si è scampato un grande pericolo in Francia, e si è guadagnato un po’ di spazio e di tempo per cercare di invertire in modo strutturale la rotta, intervenendo sulle cause alle origini della polarizzazione sempre più profonda delle nostre società, che premiano in modo crescente i populisti e il ritorno del nazionalismo.
L’aver evitato la vittoria dell’estrema destra alle legislative francesi è stata, infatti, una grande dimostrazione di capacità democratica da parte della società francese; ma questo non deve portare a dimenticare quanto invece ci hanno consegnato le elezioni europee, mostrando il divario crescente tra una larga parte dei cittadini e le istituzioni democratiche. Sono cresciuti nella maggior parte dei Paesi i consensi alla destra anti-europea e anti-sistema, nemica più o meno apertamente anche dello Stato di diritto e del sostegno all’Ucraina. Non solo in Francia, dunque, dove comunque la destra estrema, anche se al momento è stata fermata, resta ancora la prima forza per consensi nel paese, ma anche in Germania – dove Alternative für Deutschland, nonostante gli scandali e le chiare simpatie neo-naziste, ha ottenuto il 16% dei consensi superando l'SPD del cancelliere Scholz e diventando il partito più votato nei Länder dell’Est – e in molti altri Stati membri. Si tratta di un chiaro indicatore delle difficoltà dei governi nazionali di intercettare il consenso – e le esigenze – dei cittadini.
Per intervenire sulle ragioni profonde di questo smarrimento dell’opinione pubblica, è evidente che non basta migliorare la politica corrente, ma è necessario cambiare radicalmente la capacità di agire, rendendo nuovamente la politica democratica capace di offrire una visione positiva credibile ai cittadini riguardo al loro futuro. I cittadini devono tornare a sentire sia di poter controllare il proprio destino, sia di essere parte di una comunità per cui vale la pena impegnarsi in prima persona e di partecipare ad un progetto che lavora per migliorare il mondo e la società.
Una svolta così profonda non può venire dalle nostre deboli democrazie nazionali, proprio perché la loro spinta propulsiva si è esaurita nella prima metà del XX secolo. Tutto il progresso che abbiamo sperimentato dalla fine della Seconda guerra mondiale viene dal processo di unificazione europea, che ha ridato dignità e legittimità agli stessi Stati europei, i quali solo grazie al contesto comunitario hanno potuto garantire lo sviluppo economico e civile in tutti questi anni; ma l’Europa, come sappiamo, finora non si è sviluppata in modo compiuto, fino al punto da dar vita ad una nuova sovranità sovranazionale democratica e diventare il modello di comunità statuale che garantisce la dimensione democratica necessaria nel tempo dell’interdipendenza globale. Questo fa sì che, in un momento in cui le nostre società stanno attraversando una fase di cambiamento profondo e radicale che scuote le fondamenta del patto di cittadinanza e della percezione che le persone hanno della propria collocazione nella società e nel mondo, i cittadini continuino ad essere confrontati con la politica nazionale, sempre più misera e in crisi. L’Europa, viceversa, non arriva alle persone come dovrebbe nelle cose positive che fa, mentre i suoi limiti appaiono evidenti a tutti. In questo modo la stessa politica democratica appare debole e inadeguata.
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I federalisti stanno denunciando da sempre l’insufficienza del sistema politico-istituzionale europeo che ha adottato la via della integrazione attraverso la costruzione del Mercato comune, ed in particolare negli ultimi 25 anni hanno sottolineato l’errore del modello adottato dall’Unione europea con la svolta degli anni Duemila, quando è stato abbandonato l’obiettivo di far precedere l’allargamento dall’approfondimento. L’approfondimento significava costruire l’unità politica di un nucleo di Stati più coeso all’interno dell’Unione europea, allargandola al tempo stesso con il Mercato unico ai nuovi membri, con cui in questo modo diventava possibile anche condividere, oltre all’acquis communautaire, un percorso graduale verso una maggiore integrazione politica. Era l’idea della Federazione nella Confederazione di cui si discuteva a metà degli anni Novanta, ripresa l’ultima volta da Fischer nel 2000 con il suo discorso alla Humboldt Universität; un’idea che avrebbe permesso all’Europa di avere una politica estera, una politica economica, una politica interna all’altezza delle nuove sfide che si aprivano sul piano della sicurezza con il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo, sul piano economico, commerciale, finanziario e industriale con la globalizzazione e l’avvio della moneta unica, e sul piano tecnologico con l’avvento di internet e del digitale.
Non aver capito che era venuto il momento di completare la costruzione dell’unione politica europea (come gi stessi padri della moneta unica pensavano ai tempi del Trattato di Maastricht, a partire da Jacques Delors), ha portato l’Europa a subire i contraccolpi di molteplici crisi rispetto alle quali non aveva gli strumenti adeguati per reagire e ancor meno per prevenirle. Il Next Generation EU è stato una boccata d’ossigeno, fondamentale, ma il fatto di mantenerlo come un atto straordinario in risposta ad un periodo eccezionale ha indebolito la sua carica positiva verso l’opinione pubblica. È vero che ha fermato temporaneamente l’avanzata dei nemici dell’Europa e li ha costretti a cambiare pelle per farsi apparentemente più presentabili – abbandonando le “exit” dopo che quella del Regno Unito si è dimostrata così dannosa e adottando la visione dell’ “Europa delle nazioni” –; ma il loro cammino in questo modo non si è arrestato, anzi, la loro retorica ha continuato a far breccia in un’opinione pubblica disorientata e priva di punti di riferimento forti.
La lezione da trarre è quindi chiarissima. Il nodo cruciale è che questa Unione europea non può continuare a vivacchiare come tenta di fare da troppo tempo. C’è bisogno e urgenza di poter fare politiche efficaci internamente ed esternamente in quella lunga serie di ambiti economici e politici in cui le politiche nazionali sono assolutamente insufficienti. Si tratta di un passaggio indispensabile per il rilancio della politica democratica di cui si diceva poco sopra; ma per poterlo fare, serve creare un livello di governo europeo autonomo (nelle competenze, nelle risorse, nella capacità di agire). Non farlo, condannandoci all’immobilismo, ci lascia in balia della sempre più evidente inadeguatezza del livello nazionale che al tempo stesso rimane il centro della vita democratica e della dialettica politica, creando l’impressione che il coordinamento che si cerca a livello europeo tra Stati membri su tutte le materie più cruciali sia un vincolo odioso, e non la risposta sbagliata alla necessità ineludibile di agire come Europei uniti nel mondo. Questo sistema rimanda l’impressione di uno svuotamento della democrazia stessa, e questa impressione sarà sempre più forte finché non sarà creata una sovranità europea democratica.
Questi, del resto, sono i punti fatti emergere dal processo della Conferenza sul futuro dell’Europa, con la richiesta di un’Europa più capace di agire e più democratica e vicina ai cittadini, che chiedono maggiori possibilità di partecipazione, sia diretta, sia attraverso un rafforzamento dell’organo istituzionale che li rappresenta, il Parlamento europeo. Questo è anche il senso e la ragione del lavoro fatto dal Parlamento uscente con la proposta di riforma dei Trattati trasmessa insieme alla richiesta di avviare una Convenzione (come previsto dai Trattati) tramite la presidenza spagnola del Consiglio dell’UE al Consiglio europeo a dicembre del 2023, e ora nelle mani del Consiglio europeo, ossia dei governi. Questa strada della Convenzione indicata dal Parlamento europeo è l’unica percorribile per rilanciare l’Unione europea, come abbiamo già evidenziato negli scorsi numeri della nostra rivista.
In questo quadro, dobbiamo essere consapevoli che i nostri nemici – i nemici dell’Europa – sono due: i nazionalisti, da un lato, e i “realisti” dall’altro. Questi ultimi sono quelli che, visti i risultati delle elezioni, sostengono la necessità di abbandonare l’ipotesi della riforma dei Trattati per avanzare – dopo 15 anni di vita del Trattato di Lisbona – sfruttando le opportunità di riforma contenute nei Trattati esistenti, ossia la possibilità di un accordo intergovernativo unanime per sbloccare l’unanimità (sic!); tutto questo mentre nel Consiglio cresce il peso dei nazionalisti rispetto al passato, passato in cui non si è mai trovato un accordo. Per i realisti, dunque, è più facile che i governi si accordino all’unanimità di privarsi del controllo su materie fondamentali e del potere di veto, piuttosto che accettare a maggioranza semplice di avviare la Convenzione in cui i giochi sarebbero comunque aperti; è come dire che è meglio arrendersi per evitare la possibilità di essere sconfitti.
Dal canto loro, i nazionalisti, con la loro ideologia di smantellamento dell’UE, sono un enorme pericolo a causa del consenso che guadagnano nell’opinione pubblica e dello sconcerto che creano nella percezione dei cittadini; ma la loro ricetta per l’UE di per sé è impraticabile. La loro vera forza, perciò, viene proprio dal fatto di dare fiato a quei realisti che si nascondono dietro di loro per dire che non è il momento di affrontare il cambiamento di cui l’UE ha bisogno e che si deve temporeggiare ancora; i cosiddetti realisti in questo modo alimentano lo scontento e lo smarrimento dell’opinione pubblica di cui si nutrono le forze nazionaliste antidemocratiche bloccando la possibilità di intervenire sulle cause del malessere sociale.
In conclusione, in questa nuova legislatura la strada per la riforma dell’Unione europea è diventata sicuramente più stretta, ma è altrettanto vero che è ancora più importante e necessaria, e che, soprattutto, non ha alternative – perlomeno alternative positive. Per questo le forze pro-europee devono aumentare i loro sforzi ed essere più determinate che mai. La loro maggioranza all’interno del Parlamento europeo rimane solida; da qui devono partire per costruire un’alleanza con la Commissione europea e costringere il Consiglio europeo a pronunciarsi. Il tempo non gioca a favore della tenuta delle nostre democrazie; guerra e impoverimento le minacciano. Solo un’Europa più unita, un’Europa federale, può ridare speranza nel futuro e ridare slancio alla democrazia.
Il Federalista