Anno XLVI, 2004, Numero 3, Pagina 133
Oltre lo stato laico
Il lungo dibattito tuttora in corso in Francia sulla liceità da parte delle studentesse di religione islamica di indossare il velo nelle scuole porta sul tema dell’esibizione di simboli religiosi evidenti, e più in generale della tenuta di comportamenti che sottolineino ed esasperino differenze fondate su diverse appartenenze religiose, negli spazi pubblici, cioè in quei luoghi di incontro (scuole, ospedali, uffici pubblici, tribunali) in cui uomini e donne agiscono come cittadini, e come tali entrano in rapporto tra di loro e con i rappresentanti dello Stato. Si tratta del problema della laicità dello Stato, che costituisce una delle grandi conquiste della cultura civile francese. Peraltro una riflessione seria su questo problema porta al di là della stessa religione e mette in evidenza il fatto che la laicità dello Stato costituisce soltanto un aspetto di un problema di dimensioni più vaste.
E’ comunque un dato di fatto che il problema si è posto in passato, e in parte continua a porsi ancora oggi, a proposito della religione, e che sono i rapporti tra Stato e religione a dover essere esaminati prima di ogni altro. Va da sé che non è in discussione il problema della liceità delle pratiche religiose, fino a quando queste rimangono estranee alla politica e non sono in conflitto con i principi fondamentali dell’ordinamento liberal-democratico. La religione risponde ad un bisogno insopprimibile dell’uomo, che soltanto un regime totalitario potrebbe proporsi di soffocare.
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Ma le religioni costituite sono spesso andate al di là della loro sfera e hanno invaso l’ambito della politica. Esse sono state in passato, e sono in parte ancora oggi, un instrumentum regni. E il loro uso politico è radicato nella natura ambigua e contraddittoria dello Stato. Esso, da un lato, è la condizione della convivenza civile e della affermazione dei valori che vi sono connessi, e quindi il custode dell’ordinamento giuridico e il garante della pace sociale. Ma, dall’altro, esso si è sempre storicamente trovato a dover convivere con altri Stati e a fare i conti con disuguaglianze sociali profonde, che il processo storico ha attenuato, ma mai superato. Esso ha quindi sempre dovuto difendere con la violenza o la minaccia della violenza la convivenza civile contro i nemici esterni, esigendo spesso dai suoi sudditi — o cittadini — lo stesso sacrificio della vita, così come ha dovuto imporre ad essi l’accettazione dell’ingiustizia. Tutto ciò, unito allo stadio di sviluppo, ancora embrionale, della consapevolezza politica di gran parte del genere umano, ha fatto sì che finora lo Stato non abbia mai potuto legittimarsi, agli occhi dei suoi sudditi — o cittadini —, soltanto sulla base del lealismo fondato sulla ragione fondamentale della sua esistenza, cioè sulla consapevolezza che esso costituisce la garanzia della convivenza civile e promuove i valori che la fondano; ma abbia sempre avuto bisogno di un puntello esterno alla politica, che facesse riferimento ad altri lealismi e che gli consentisse di giustificare le sue contraddizioni. Questo puntello è stato, per un gran tratto della storia dell’umanità, la religione. Ed essa è ancora attivamente presente in questo ruolo nei paesi islamici, in Israele ed anche, sebbene in misura minore, in molti di quei paesi nei quali la maggioranza della popolazione è di fede cristiana. Lo dimostra l’onnipresenza del riferimento a Dio nella politica americana, ma anche la diffusione in molti paesi d’Europa di partiti di ispirazione cristiana e il ruolo che ancora gioca la religione nella ritualità delle grandi monarchie europee.
Soltanto nel cuore dell’Europa, attraverso un lento processo iniziato in Francia nel ‘500 e culminato con la Rivoluzione francese, lo Stato è riuscito ad emanciparsi dalla religione. Grazie alla Rivoluzione francese è nato, con la cittadinanza, un nuovo sentimento di appartenenza (anche se esso era stato anticipato, nell’antichità, in Grecia e a Roma), che lo Stato ha fatto prevalere nei confronti dell’appartenenza confessionale. Alla religione è stato assegnato il ruolo non politico che le compete. E’ in questo modo che è venuto faticosamente emergendo lo Stato laico, che ha imposto ai suoi cittadini, seppure con importanti limitazioni, un lealismo primario di natura soltanto politica, che è la garanzia esplicita del rispetto reciproco, dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e del riconoscimento del valore della giustizia sociale. La sua logica è quella di relegare tutti gli altri lealismi al ruolo di lealismi secondari, nei quali ciascuno può riconoscersi soltanto nella misura in cui essi non confliggono con la cittadinanza.
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L’emancipazione, anche se imperfetta, dello Stato dalla religione è stata una delle grandi tappe della cultura politica europea. Ma per questo non si deve dimenticare che con la creazione dello Stato moderno e, poi, con la Rivoluzione francese, non sono venute a cadere le ragioni che avevano reso impossibile l’emancipazione dello Stato da qualsiasi legittimazione di natura non politica. Per questo, dopo la liberazione, anche se parziale, dello Stato dalla religione, il ruolo di quest’ultima è stato assunto da un nuovo lealismo — peraltro in larga misura artificiale — nei confronti di una supposta comunità atavica, tenuta insieme da vincoli di sangue o da una comune cultura radicata in una storia millenaria, che darebbero una sua specifica identità al popolo che li condivide. La religione è stata così in parte sostituita dall’idea di nazione, che ha avuto nella storia una funzione insieme altrettanto nefasta e altrettanto indispensabile. L’idea di nazione ha introdotto così un grave elemento di corruzione nella concezione dello Stato laico, che viene misurato dalla circostanza che, a partire dalla Rivoluzione francese, quelli di cittadinanza e di nazionalità sono stati considerati, nell’uso comune, come due termini intercambiabili.
Per questo è necessario andare al di là del problema della laicità dello Stato ed allargare la riflessione a quello più generale dell’emancipazione dello Stato e della politica non soltanto dalla religione, ma da qualsiasi altro condizionamento esterno, quale che ne sia la natura, e quindi a quello della completa liberazione dell’idea di cittadinanza, come lealismo fondato su valori di natura esclusivamente politica, da ogni altro lealismo.
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Bisogna aggiungere peraltro che la religione, e più in generale i lealismi originariamente estranei alla politica, svolgono non soltanto la funzione di strumenti del potere ma anche quella, apparentemente antitetica, di fattori di corrosione dello Stato. Ciò è particolarmente evidente nella fase storica attuale in cui, sotto l’effetto della globalizzazione e dei fenomeni migratori che l’accompagnano, lo Stato tende ad indebolirsi, dando luogo alla nascita di fedeltà comunitarie in competizione con la cittadinanza, che la frammentano, mettono in discussione il valore dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, impediscono il dibattito politico confinando le diverse parti in cui si divide la società in ghetti isolati e senza comunicazione gli uni con gli altri e quindi interrompono il circuito del consenso che lega il potere ai cittadini. Si tratta di un fenomeno presente sia in Europa che negli Stati Uniti, e che va sotto il nome di multiculturalismo.
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Si deve sottolineare che l’esistenza all’interno dello Stato di lealismi, o di sentimenti di identificazione di gruppo, di natura originariamente non politica, ma che assumono rilevanza pubblica e che prevalgono sulla cittadinanza — cioè su di un sentimento di appartenenza fondato esclusivamente sulla fedeltà alla costituzione e sulla condivisione dei valori che fondano la convivenza nel suo quadro — sono in contraddizione con la natura stessa dello Stato. Essi ne inquinano la natura nei regimi che se ne servono e ne minano la consistenza laddove si pongono in concorrenza con il lealismo che fonda la comunità dei cittadini. Il primato della cittadinanza su ogni altro vincolo è quindi un requisito essenziale dello Stato nel senso compiuto del termine. Ciò significa che uno Stato la cui autonomia viene messa in discussione dall’esistenza di altri lealismi di cui esso si serve per legittimarsi o che comunque entrano in concorrenza con la cittadinanza è comunque uno Stato incompleto. E questo spiega l’importanza della laicità, che pure non è che una tappa nel processo di liberazione della politica da ogni vincolo esterno, nel concetto francese della statualità. Questa affermazione deve peraltro essere fatta nella piena consapevolezza del carattere di concetto-limite delle idee di Stato e cittadinanza e quindi della natura tendenziale della loro affermazione. Se è vero infatti che l’essenza profonda della statualità è incompatibile con la necessità in cui lo Stato si è sempre trovato di difendere la convivenza contro la minaccia proveniente da altri Stati e con quella di giustificare l’ingiustizia, ne consegue che lo Stato, nel significato pieno del termine, si può realizzare compiutamente soltanto una volta che siano state superate la divisione del mondo in Stati sovrani e le più gravi tra le disuguaglianze che separano tra loro le classi, i ceti e le nazioni. Ciò significa che la realizzazione piena dello Stato e della cittadinanza potrà avvenire soltanto nel quadro di uno Stato federale mondiale che abbia saputo ricondurre le disuguaglianze sociali entro limiti compatibili con il sentimento di una comune appartenenza. Il che evidentemente non toglie che il progressivo radicamento dell’idea di cittadinanza — pur nei limiti che lo hanno storicamente frenato — costituisca una leva essenziale per l’ulteriore realizzazione della pienezza della statualità.
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Da quanto si è detto discende che l’autonomia dello Stato — e quindi la laicità come sua componente — non può essere concepita come una sorta di neutralità passiva, che si limiti a consentire la convivenza, all’insegna della tolleranza, tra comunità che si ispirano nei loro comportamenti collettivi a valori primari radicalmente diversi. Se così fosse, i valori, anche quelli che costituiscono il fondamento della convivenza civile, sarebbero un patrimonio esclusivo di comunità non politiche, diverse dalla comunità dei cittadini, e la cittadinanza sarebbe un’appartenenza priva di contenuto. Lo Stato sarebbe soltanto un freddo organo di mediazione, che risolve i conflitti tra valori che gli sono estranei in nome di una astratta imparzialità. Ma in realtà è vero il contrario. La convivenza civile si fonda sui valori primari della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale e lo Stato può superare i conflitti tra le comunità in cui si articola la società soltanto in quanto esso sia l’espressione di valori che i cittadini riconoscono come superiori a tutti gli altri.
Si noti che questo problema emerge spesso in rapporto alla definizione dell’obiettivo della fondazione della Federazione europea. Questa viene vista correttamente come qualcosa che trascende le nazioni. Ma le nazioni, e gli Stati nazionali che ne sono l’espressione istituzionale, vengono spesso percepiti come i custodi e i punti di riferimento dei principi fondamentali della convivenza, come il compendio di tutti i valori che danno un senso alla vita quotidiana dei cittadini attraverso l’unità di lingua, di costumi, di tradizioni, ecc.: mentre la comunità che dovrebbe riunirle in un quadro politico e giuridico più vasto troverebbe la sua ragion d’essere soltanto nella necessità di assicurare la loro coesistenza nel quadro di un unico ordinamento. Numerosi dibattiti che hanno avuto come oggetto il problema dell’esistenza o della non esistenza di un popolo europeo hanno fatto emergere l’idea che nessuna istituzione che nell’una o nell’altra forma fosse in grado di realizzare l’unione politica dell’Europa potrebbe dar corpo ai valori che danno calore alla vita sociale e vitalità al dibattito politico. Le istituzioni europee, quale che sia, o sia per essere, la loro natura, sarebbero quindi condannate ad essere una sorta di fredda sovrastruttura, un puro potere arbitrale privo di connotazioni di valore, che non sarebbe il punto di riferimento di alcun lealismo ed avrebbe soltanto la funzione puramente tecnica di risolvere problemi specifici comuni alle comunità che ne fanno parte. Di fatto la conclusione cui si giunge in questo modo è che quello della Federazione europea è semplicemente un obiettivo impossibile, oppure che la Federazione europea sarà destinata a rimanere un quasi-Stato, uno Stato senza popolo, senza anima e quindi senza potere.
Ma ciò significa rendere equivoci i termini del problema. In realtà non vi può essere Stato senza popolo, né vi può essere popolo senza una generale condivisione dei valori fondamentali della convivenza civile. E’ vero che è possibile che l’Europa non si faccia. Ma è anche vero che ormai gli Stati nazionali hanno cessato di essere i punti di riferimento di quei valori. E’ quindi un dato di fatto che, se non si farà l’Europa, i popoli europei saranno condannati alla dissoluzione e alla perdita di identità nell’anarchia. Ma l’Europa si farà soltanto se nascerà un popolo europeo e quindi uno Stato federale che ne sarà l’espressione. E i valori che lo fonderanno si riassumeranno, almeno in tendenza, nella sua capacità di catalizzare il consenso dei cittadini non già attraverso il ricorso a forme di legittimazione esterne alla politica, come la religione o la nazione, ma attraverso l’affermazione di una forma superiore di convivenza, indipendente — anche se con le limitazioni che abbiamo visto — da ogni altro lealismo.
Ciò dà di per sé una risposta alla richiesta avanzata da più parti di menzionare, nel preambolo della “Costituzione” europea, le radici cristiane dell’Europa tra i fondamenti della sua identità. E’ un dato di fatto che il Cristianesimo ha avuto un ruolo essenziale nella formazione della civiltà e della società europee, e che una versione aperta del Cristianesimo, inteso come amore del prossimo e come disponibilità al dialogo, è ancora importante nei rapporti privati come antidoto contro il dilagare del darwinismo sociale, la disumanizzazione dei rapporti economici e l’indebolimento della solidarietà. Ma è anche un dato di fatto che l’Europa nascerà all’insegna dell’allargamento degli orizzonti e del superamento delle barriere tra le culture. Così come è un dato di fatto che il modello europeo dello Stato è nato come emancipazione dalla religione e che la Federazione europea è chiamata a far avanzare questo modello, sottolineandone la laicità e mettendo in rilievo il valore dell’uguaglianza tra i cittadini, nel rispetto della Costituzione e delle leggi, quale che sia la loro appartenenza religiosa. Qualunque documento che si proponga di definire l’identità dell’Europa deve quindi mettere in rilievo il carattere rigorosamente laico del potere politico come condizione dell’uguaglianza tra i cittadini.
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L’indipendenza dello Stato, di cui la laicità costituisce un aspetto, è quindi un atteggiamento attivo, il cui compito è quello di abbattere gli steccati che dividono la società creando spazi pubblici nei quali i cittadini trovino un terreno comune di discussione e contraggano la consuetudine non certo di limitarsi a tollerare le differenze che li separano, ma di confrontare le rispettive convinzioni e di esercitare la reciproca solidarietà. Se ciò non accade, il solo strumento al quale lo Stato può ricorrere per far coesistere concezioni incompatibili della convivenza civile non può che essere quello di tentare di isolare l’una dall’altra le comunità che a queste diverse concezioni si ispirano. Ma questo isolamento, oltre ad essere la negazione del pluralismo, in quanto giustappone culture incompatibili e insieme fortemente omogenee al loro interno, è impraticabile, perché i confini tra le comunità restano inevitabilmente porosi, e il tentativo di isolarle non fa che alimentare il risentimento e la violenza. Non si deve quindi avere paura di riconoscere che la pura e semplice tolleranza del potere nei confronti delle differenze religiose e culturali porta alla ghettizzazione della società e alla disgregazione del popolo, con le inevitabili esplosioni di violenza che ne conseguono. Allarmanti manifestazioni di questa tendenza si sono ormai ampiamente fatte strada nel paesi anglosassoni. In realtà, il vero problema dello Stato, di fronte alla realtà del multiculturalismo, deve essere quello di farsi guidare dall’idea di un’unica grande comunità di comunicazione, nella quale tutti i cittadini parlino lo stesso linguaggio — anche se non la stessa lingua —, siano legati alla costituzione e ai suoi valori dalla stessa lealtà e sentano di formare un unico popolo, unito da vincoli assai più forti di tutti quelli che fondano la sua articolazione in comunità di altra natura: e nella quale le stesse differenze tra le religioni si stemperino nell’idea di un’unica religione universale della moralità, confinando ad una sfera secondaria le specificità dogmatiche e rituali delle religioni storiche. Lo Stato non deve quindi fermarsi alla tolleranza, ma deve attivamente perseguire l’ideale dell’integrazione.
La politica dell’integrazione comporta, da un lato, il divieto di alcuni comportamenti che violano principi fondamentali della convivenza civile (per esempio la poligamia, l’infibulazione o altre pratiche lesive della dignità umana) e, dall’altro, la regolamentazione di spazi pubblici (scuole, ospedali, tribunali, uffici statali) nei quali l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sia rigorosamente tutelata e la ghettizzazione sia bandita. Quest’ultimo orientamento implica la fiducia nel fatto che la frequentazione reciproca tende a cancellare le differenze che non siano secondarie (quali lo sono espressioni diverse di comportamenti ispirati agli stessi valori o comportamenti ispirati a valori percepiti come relativi e non assoluti) o individuali (che vengono anzi esaltate in quanto non sono cancellate nella artificiale uniformità dei comportamenti dei membri della stessa comunità).
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Tutto ciò non significa evidentemente che il pluralismo non sia una connotazione importante di una società aperta. Ma è essenziale che esso rimanga compatibile con la condivisione senza riserve dei valori primari che fondano la convivenza nell’ambito di uno Stato e quindi costituisca il fondamento non certo della contrapposizione frontale, e potenzialmente violenta, di opinioni inconciliabili perché sottratte alla regola della ragione, ma di un dialogo tra punti di vista diversi che si serva di un comune linguaggio per superare le differenze, anche se per riprodurle a un livello superiore. Allo stesso modo la presa d’atto della necessità di superare il multiculturalismo non legittima certamente una politica di oppressione, o addirittura di soppressione, della minoranze che non condividono i valori primari della maggioranza. In questo caso il rimedio sarebbe peggiore del male. Il problema è piuttosto quello di mettere in atto una politica, difficile e che spesso deve adattarsi alle caratteristiche del caso singolo, che scoraggi la ghettizzazione e promuova il contatto e il confronto tra concezioni profondamente diverse della famiglia e dello Stato avendo in vista l’obiettivo dell’integrazione, pur senza dimenticare la necessità di realizzarla progressivamente, impedendo che la violenza esploda nei rapporti sociali e cercando di limitarla al minimo nei rapporti tra potere e cittadini. Resta il fatto che su certi comportamenti il potere non può comunque transigere, per non mettere a rischio le basi stesse del consenso che lo sostiene. Si tratta di quei comportamenti che mettono in gioco l’uguaglianza e il rispetto reciproco tra cittadini, in particolare negli spazi pubblici, e così facendo costituiscono focolai di violenza. Tra questi va sicuramente annoverata l’esibizione in luoghi pubblici di simboli di appartenenza religiosa. Essi, esasperando le differenze che uniscono i membri di una comunità e ne escludono gli altri, diventano di fatto una provocazione, e costituiscono potenziali fonti di disordine, che lo Stato deve impedire.
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La fondazione della Federazione europea, se essa non sarà impedita dall’attuale insensibilità, inerzia e miopia dei leader politici, sarà un passo decisivo nel cammino della realizzazione delle virtualità insite nell’idea di cittadinanza. L’Europa nascerà, se nascerà, come paese di molte religioni e di molte lingue e questa sua caratteristica andrà accentuandosi nel corso del processo della sua estensione. Il prevedibile ingresso, nel corso degli anni, di paesi islamici come la Turchia e la Bosnia ne costituirà un momento importante. La sua creazione avrà il significato simbolico di negazione delle nazioni come comunità esclusive. Il suo carattere federale e la sua estensione costituiranno un argine invalicabile nei confronti della prevalenza di un’unica religione o di un’unica cultura. Nello stesso tempo, l’enorme importanza del suo ruolo nel mondo e la sua capacità di mobilitare il consenso dei suoi cittadini le consentirà di opporsi efficacemente alla disgregazione prodotta dal multiculturalismo. Essa segnerà una grande stagione nel processo di emancipazione del genere umano.
Il Federalista