IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVIII, 2006, Numero 1, Pagina 3

 

 

Problema energetico e nazionalismo economico
  
 
Da qualche tempo a questa parte si assiste ad una inquietante ripresa del protezionismo nei rapporti fra gli Stati europei (ma anche nei rapporti fra l’Europa e il resto del mondo) definito un po’ enfaticamente patriottismo economico, un termine che viene impiegato perché conserva ancora una patina di nobiltà, ma che non riesce a nascondere la realtà sottostante rappresentata da un insidioso rigurgito di nazionalismo. I fatti che si sono susseguiti a ritmo incalzante negli ultimi mesi non lasciano dubbi al riguardo. La direttiva Bolkestein, che si proponeva di aprire il mercato del lavoro ai paesi dell’Est e di liberalizzare il settore dei servizi, è stata ridimensionata. Più recentemente il Primo ministro francese Dominique de Villepin ha compiuto una plateale irruzione sul mercato dell’energia per impedire all’Enel di acquisire una società transalpina — la Suez — annunciando, con inconsueta precipitazione, la sua fusione con Gas de France. Qualche settimana prima il governo spagnolo si era mosso nella stessa direzione bloccando l’Opa della società tedesca E.ON sulla Endesa, il maggior produttore nazionale di energia elettrica. In precedenza la Germania aveva approvato una normativa che rende particolarmente difficile l’ingresso di società straniere in aziende ritenute strategiche. E per quanto riguarda l’Unione europea, essa, incalzata da vicino dai governi nazionali, ha deciso di imporre un dazio sulle scarpe importate dalla Cina e dal Vietnam nel tentativo, destinato al fallimento, di limitare il loro ingresso sui nostri mercati.

   La difesa dei «campioni nazionali», come vengono definiti con un eccesso di enfasi, è soltanto la punta dell’iceberg di una realtà molto più aggrovigliata che sta creando ripetuti ostacoli alla nascita del mercato unico sul quale si puntava per far crescere l’economia europea e per consentire alle sue imprese di raggiungere una dimensione sufficiente per competere con i colossi mondiali. Oggi le grandi imprese del vecchio continente si contano sulle dita di una mano, e le maggiori fra esse hanno una dimensione che è pari al 60% di quelle americane.

   La frammentazione nazionale dell’economia comporta costi elevati sia per i consumatori, vittime designate dei monopoli, sia per le imprese. Ma al di là di questi costi, il nazionalismo economico ha conseguenze assai più rilevanti quando sono in gioco settori strategici come quello dell’energia dal quale dipendono il benessere e la sicurezza delle future generazioni.

   Non a caso, alle origini della Comunità economica europea non c’era soltanto l’idea di una progressiva integrazione delle economie nazionali, ma anche l’avvio di un programma energetico comune, incarnato dall’Euratom, che avrebbe dovuto rendere l’Europa sempre meno dipendente dal petrolio. Nell’avanzare questa proposta, Jean Monnet aveva identificato uno dei problemi cruciali dello sviluppo economico europeo, trascurato poi dai governi, rassicurati dal basso costo del petrolio e dalla continua scoperta di nuovi giacimenti che non lasciavano presagire la crisi energetica che si sarebbe abbattuta quindici anni più tardi sulle economie occidentali.

   Quando l’embargo petrolifero e il vertiginoso aumento dei prezzi hanno investito i paesi industrializzati provocando gravi squilibri nei conti con l’estero, facendo esplodere l’inflazione, costringendo le monete più deboli alla svalutazione e creando le premesse per una severa recessione, i governi europei non hanno serrato le fila come molti si attendevano, ma hanno agito in ordine sparso, cercando di limitare, per quanto possibile, i danni peggiori ai loro cittadini. Osservando il desolante spettacolo della Comunità europea che si stava sfaldando sotto i colpi delle prime avversità, Le Monde pubblicò un amaro commento di André Fontaine intitolato «Ciascuno per sé e Dio per tutti».

   Quello scenario si sta riproponendo in questi mesi, sia pure con connotati diversi ma molto più preoccupanti. Da una decina d’anni gli esperti avevano messo in guardia i paesi importatori di petrolio che il «picco di Hubbert» si stava rapidamente avvicinando, che l’incremento dell’offerta non era più in grado di tenere il passo della domanda, che le economie emergenti erano assetate di greggio con l’ovvia conseguenza di un inasprimento della competizione per accaparrarsi il petrolio sempre più scarso e di una nuova impennata dei prezzi.

   La previsione si è puntualmente avverata cogliendo di sorpresa gli europei che si stanno muovendo in ordine sparso come trent’anni fa. Con l’aggravante che oggi l’Europa non deve più fare i conti soltanto con gli Stati Uniti ma anche con l’India e con la Cina il cui bisogno di energia cresce in misura esponenziale. Ma mentre le due potenze asiatiche si stanno preoccupando di allacciare solide relazioni politiche ed economiche con i paesi produttori di ogni parte del mondo ponendo la questione energetica al centro dei negoziati, l’Unione europea sta a guardare, come testimoniano le scialbe conclusioni del Vertice straordinario del 23 e 24 marzo che avrebbe dovuto dare una risposta ai problemi energetici e che invece si è risolto in un vuoto chiacchiericcio.

   Eppure, di fronte alla dura realtà delle cose, non sono mancate le reazioni che indicano con chiarezza la via da seguire. Sul Corriere della Sera del 26 marzo Tommaso Padoa-Schioppa ha denunciato l’inconsistenza di qualsiasi politica energetica che si limiti al quadro nazionale. «Per ogni paese, ha scritto, la questione energetica riguarda la sicurezza e i rapporti internazionali, non solo le scelte industriali. Poco importa che petrolio, gas, elettricità, reti di distribuzione siano in mani pubbliche o private. Politica energetica e politica tout court sono inscindibili, anche se non è sempre chiaro quale guidi l’altra...

   Per una efficace politica energetica i paesi europei sono troppo piccoli; vale per Germania o Francia, non solo per Estonia o Irlanda. Stati Uniti, Cina, India sono — come l’Europa — importatori di energia e la sicurezza degli approvvigionamenti è al centro della loro strategia internazionale, politica e militare. Tenere la politica energetica alla dimensione dei piccoli Stati membri dell’Unione sfiora il ridicolo».

   È difficile immaginare un atto d’accusa meglio argomentato. A conclusioni non diverse, sia pure con toni più sfumati, è giunto il Ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier: «Sviluppo economico pacifico e sicurezza energetica sono inestricabilmente legati», ha scritto sull’International HeraldTribune del 16 marzo. «La sicurezza energetica implica la partecipazione di tutti gli interessati — i paesi produttori, gli Stati attraverso i quali transitano gas e petrolio, e i consumatori. Questa dimensione globale mette in luce come gli sforzi dei singoli paesi europei sono inadeguati e che è necessario trovare un approccio alternativo a questi problemi». Anche il Commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, ha riconosciuto che «l’energia è diventata un aspetto importante della nostra politica estera. Quando affronta i negoziati sull’energia, l’Europa ha bisogno di parlare con una voce comune e risoluta» (International Herald Tribune, 21 marzo 2006).

   Questi richiami alla necessità di una politica europea dell’energia costituiscono una implicita condanna del nazionalismo economico che aumenta gli attriti fra gli Stati, penalizza i consumatori, favorisce i monopoli e impedisce alle imprese di raggiungere una dimensione adeguata. Ma come non sottolineare che, di fronte alla consapevolezza del problema, e dell’ostacolo al suo superamento, il nazionalismo appunto, nessuno, e in particolare nessun uomo politico, sa indicare la soluzione? Si considera quasi con meraviglia che, in una fase molto avanzata del processo di integrazione, l’Europa non sia in grado di «parlare con una sola voce» e ricada nelle antiche contrapposizioni. Lo stesso Presidente della Commissione europea ha affermato che «il nazionalismo economico non è mai stato una soluzione» e che «è assurdo che i paesi europei si proteggano l’uno dall’altro» (Le Monde, 23 febbraio 2006).

   In realtà questi ricorrenti passi indietro, che hanno segnato anche altre fasi del processo di unificazione europea, non devono affatto meravigliare. Finché sussistono tanti governi nazionali quanti sono gli Stati dell’Europa, il loro compito prioritario è, e rimane, quello di affrontare i problemi che emergono di volta in volta, di compiere delle scelte, e anche quando non sono in grado di risolverli sono comunque costretti a dare ai propri cittadini l’illusione di difendere i loro interessi.

   Se in passato ciò produceva solo uno sterile immobilismo, nel mondo interdipendente di oggi, dove gli equilibri politici ed economici si vanno riconfigurando con una ampiezza e una velocità senza precedenti, ciò potrebbe avere come conseguenza il tramonto del progetto europeo e l’emarginazione dell’Europa. A nulla valgono, dunque, le reciproche accuse di nazionalismo e di protezionismo. L’unica via d’uscita è il superamento degli Stati nazionali con la creazione dello Stato federale europeo, il cui governo avrebbe gli strumenti per affrontare le sfide del nuovo equilibrio mondiale in formazione.

   Se questo è l’obiettivo da perseguire, è necessario esaminare con molto realismo quali possibilità concrete offre la fase attuale del processo di unificazione europea, per identificare ostacoli e potenzialità. Ciò di cui si sta prendendo sempre più coscienza, è che l’ultimo allargamento della Comunità ha creato un quadro europeo molto eterogeneo, e che la maggior parte dei suoi componenti rifiuta la prospettiva dell’unificazione politica. Questo è l’ostacolo più grave da superare. Ma non è una novità. Al contrario, esso si era già profilato durante i negoziati per il primo allargamento della Comunità, ed è stato immediatamente denunciato dai federalisti. Nel 1966, a proposito dell’ingresso nella Comunità della Gran Bretagna, Albertini scriveva in una lettera a Spinelli: «La CEE, da situazione che spinge l’unità europea verso l’approfondimento dell’integrazione grazie al quadro a sei (l’unico che ha dato frutti), si trasforma in situazione che spinge l’unità europea solo verso l’allargamento, e la conseguente degradazione in una unità puramente diplomatica». E in effetti la Gran Bretagna ha fatto di tutto per ridurre la Comunità al rango di una alleanza diplomatica spargendo ostacoli a non finire sul cammino dell’Europa. Nonostante ciò, e nonostante i successivi allargamenti, ci sono stati molti progressi: la nascita dello SME, l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, la creazione dell’euro. Ma essi sono sempre stati il frutto dell’iniziativa di una avanguardia guidata da Francia e Germania. Non dobbiamo dimenticare questa lezione.

   La necessità di creare un’avanguardia decisa a non marciare alla velocità del convoglio più lento, si è imposta con la forza delle cose, e oggi è ampiamente condivisa da intellettuali di punta come Jürgen Habermas e da personalità lungimiranti come Carlo Azeglio Ciampi che nel corso della sua ultima visita a Berlino non ha esitato ad affermare: «L’obiettivo è di progredire a venticinque, ma non è accettabile che, in assenza di unanimità, il progetto politico europeo venga snaturato. Ben vengano dunque le avanguardie: non sono il simbolo di egoismo, di divisione, ma di fiducia nella capacità di tradurre in atto le potenzialità dell’Europa. Ne abbiamo già degli esempi eccellenti: la zona euro, il sistema di Schengen-Prüm. Gruppi di punta dell’avanzamento europeo — che restino aperti a tutti gli altri Stati membri — possono promuovere la realizzazione di ulteriori obiettivi concreti, essenziali al successo dell’Europa».

   L’idea dell’avanguardia viene ormai osteggiata soltanto dai nemici dell’Europa, che si trincerano spesso e volentieri dietro il falso argomento che ogni iniziativa non condivisa da tutti i paesi provocherebbe una lacerante divisione in seno all’Unione. La stragrande maggioranza è invece del parere opposto. La questione decisiva è quindi diventata il progetto intorno al quale deve nascere l’avanguardia. Molti pensano che dovrebbe essere la «costituzione» europea, opportunamente ritoccata per superare il voto negativo di francesi e olandesi. Un referendum europeo sul nuovo testo servirebbe a dividere i buoni dai cattivi europei e a legittimare la sua entrata in vigore nei paesi favorevoli. In questo modo nascerebbe spontaneamente — dal basso, come si usa dire — l’avanguardia.

   Si tratta, però, di un’illusione che avrebbe il solo effetto di rinviare nel tempo la soluzione del vero problema, che non è quello di scrivere una costituzione, buona o cattiva che sia, bensì quello di creare uno Stato federale. Sottoporre ai cittadini un quesito che elude questo problema equivarrebbe a perdere colpevolmente del tempo proprio nel momento in cui l’Europa viene sempre più sospinta ai margini della storia.

   La scala delle priorità andrebbe dunque rovesciata, mettendo al primo posto l’obiettivo della Federazione europea e individuando il nucleo di paesi che, per la loro responsabilità e la loro storia, potrebbero, più di altri, assumere l’iniziativa che separerebbe davvero i buoni dai cattivi europei. Questa iniziativa dovrebbe assumere la forma concreta di un patto federale in cui vengano delineati i principi costituzionali ai quali dovrà ispirarsi la Federazione europea. Allora sì che avrebbe senso indire un referendum e chiedere ai cittadini se sono favorevoli o meno alla creazione degli Stati Uniti d’Europa fondati sulla costituzione delineata nel patto federale. Questo, e non altro, era il significato della consultazione alla quale vennero chiamati gli abitanti dei tredici Stati dopo la Convenzione di Filadelfia. E da questo insegnamento dovrebbe ripartire la battaglia per l’unità europea.

  

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