Anno L, 2008, Numero 1, Pagina 3
La politica al bivio
Tre grandi novità caratterizzano, rispetto al passato, l’epoca di inter-nazionalizzazione dell’economia e del commercio che stiamo vivendo.
La prima riguarda la scala ed i ritmi della globalizzazione. Non si era mai assistito ad un processo di integrazione nel commercio e nell’economia mondiale di così vasta portata per quanto riguarda il numero di individui coinvolti e in un arco temporale — poche decine d’anni — così breve da non consentire alle istituzioni di adattare i propri strumenti tradizionali di governo per rispondere efficacemente ai cambiamenti in atto.
La seconda novità riguarda il grado di frammentazione (anch’esso senza precedenti) sia nei processi produttivi sia nel settore dei servizi, che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere suddivisi in una miriade di sottoprocessi sparsi in tutto il mondo, minimizzando i costi di produzione. Questo fenomeno, insieme alla liberalizzazione del commercio e della circolazione dei capitali, sta minando il potere degli Stati di governare le proprie politiche economiche e fiscali. Il risultato di tutto ciò è un preoccupante indebolimento della loro legittimità di fronte ai cittadini e l’aumento dell’influenza politica al loro interno di oligarchie e gruppi di interesse.
La terza novità è di ordine ecologico. Il fatto che la crescita dell’economia globale rischi di rompere, nel giro di pochi decenni, gli equilibri climatici e naturali su cui si sono fondati per secoli la regolarità dei cicli vitali e la sicurezza degli insediamenti umani pone per la prima volta l’umanità di fronte al problema di stabilire quali devono essere i limiti della crescita e come questi devono essere applicati e fatti rispettare su scala globale.
Queste novità sono di portata tale, e l’inadeguatezza delle istituzioni e della politica è così evidente, che molti dubitano della possibilità stessa che l’integrazione economica possa approfondirsi ulteriormente e che sia pensabile un futuro di progresso e di pace per l’umanità. Ben altri erano gli sviluppi che erano stati previsti per la civiltà quando, nella seconda metà del secolo scorso, il nuovo modo di produrre frutto della rivoluzione scientifica e tecnologica aveva iniziato a manifestare i suoi effetti. Per cercare di rispondere a queste preoccupazioni e di restituire un ruolo alla politica occorre innanzitutto chiedersi perché la globalizzazione sta assumendo sempre più i caratteri del fallimento piuttosto che quelli del successo e come si è giunti a questo punto.
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Negli anni Cinquanta, l’aver compreso che gli Stati nazionali europei non erano più il quadro di riferimento e il motore dell’evoluzione storica in Europa e nel mondo aveva permesso al fondatore di questa rivista, Mario Albertini, di cogliere meglio di altri la portata della rivoluzione che si stava affermando in uno dei settori fondamentali del nuovo modo di produrre, quello dell’automazione. Egli, infatti, aveva innanzitutto previsto che questo tipo di progresso nell’organizzazione della produzione avrebbe potuto portare ad una rivoluzione della struttura della società e dei suoi costumi, ma anche ad una crisi profonda della civiltà se la politica non fosse stata in grado di elaborare strumenti teorici e pratici adeguati ai cambiamenti che si annunciavano. Ed aveva anche intuito sia le cause strutturali dell’inadeguatezza degli Stati europei e dell’URSS per far fronte alle esigenze poste dal nuovo modo di produrre (troppo piccoli e impotenti i primi e troppo accentrata ed autocratica la seconda), sia l’enorme vantaggio che gli USA stavano accumulando un po’ in tutti i campi nei confronti del resto del mondo.
Oggi, grazie alla conoscenza di fatti che mezzo secolo fa erano ancora in incubazione, è facile constatare ciò che Albertini aveva potuto intuire e prevedere solo a grandi linee. A conferma della portata delle dinamiche di sviluppo che si stavano instaurando in Nord America e che si sarebbero poi irradiate verso il resto del mondo basti considerare le due innovazioni — Internet e il traffico con i container — che erano allora in gestazione e che avrebbero successivamente caratterizzato la globalizzazione. Il modo e l’ambito in cui queste innovazioni sono nate sono emblematici degli effetti e delle trasformazioni che, in determinate circostanze, l’interazione tra scienza, tecnologia e ragion di Stato possono innescare. I prodromi di Internet e dei container hanno trovato infatti nello Stato e nel mercato continentale americano, nella democrazia ancora politicamente vitale e culturalmente propulsiva degli USA, e nelle esigenze strategiche generate dalla competizione fra questi e l’URSS il terreno ideale per lo sviluppo delle sorprendenti applicazioni tecnologiche rese possibili dalle scoperte scientifiche del ventesimo secolo.
Per quanto riguarda Internet, la sua concezione originaria era il tentativo di realizzare il disegno, solo abbozzato dagli enciclopedisti nell’epoca dell’Illuminismo, di offrire ad ogni individuo la possibilità di accedere, in qualsiasi momento e luogo, all’insieme delle conoscenze raggiunte dall’umanità. Senza questa profonda motivazione intellettuale, il gruppo a quel tempo incaricato dal Pentagono di gettare le basi di una rete affidabile di scambio di informazioni — innanzitutto fra laboratori di ricerca, prima ancora che fra punti di comando militare — difficilmente avrebbe ideato uno strumento con le potenzialità di sviluppo che tutto il mondo ha poi potuto sperimentare. Le origini di Internet furono accompagnate da un’elaborazione teorica che si poneva l’obiettivo di creare non una semplice rete nazionale chiusa, ma un galactic network, grazie al quale sarebbe stato possibile condividere in tempo reale la conoscenza su scala planetaria.
Il traffico commerciale dei container, invece, è nato dalla trasposizione in campo civile della esperienza logistica militare maturata dagli USA nell’Atlantico e nel Pacifico. Il secondo dopoguerra e le guerre in Corea e in Vietnam sono state il banco di prova di quel sistema di trasferimento su grandi distanze di enormi quantità di materiale per rifornire basi e truppe che avrebbe costituito più tardi la spina dorsale del commercio globale basato sulla riapertura, dopo secoli di stasi, dei grandi traffici tra Occidente e Oriente. Traffici che a loro volta non avrebbero potuto essere garantiti e sostenuti senza il governo di un’agenzia federale diretta da Washington, la Defense Logistic Agency, che può essere considerata a tutti gli effetti il prototipo delle grandi catene commerciali di distribuzione e vendita di beni di consumo.
Le aspettative e il fermento di idee prodotte dalle prime applicazioni, ancora su scala limitata, delle innovazioni nate dalla crescente interazione tra scienza e tecnica erano dunque ben lontane dai timori odierni.
Alla fine degli anni Sessanta la maggiore disponibilità di tempo libero e di beni sembrava ormai accessibile a tutti. L’era descritta nella Politica di Aristotele in cui le spole avrebbero tessuto da sole, le cetre avrebbero suonato senza plettri e in cui sarebbe stato possibile abolire la schiavitù dell’uomo dall’uomo e dalle macchine, stava per uscire dal mito e diventare realtà, o almeno così auspicavano diversi studiosi nel mondo industrializzato.
Le aspettative suscitate da questa prospettiva nei paesi democratici e in quelli a regime socialista andavano ben al di là dei benefici commerciali e produttivi. Innanzitutto si poteva ipotizzare un accrescimento illimitato del benessere materiale dei singoli individui, ma soprattutto diventavano pensabili una maggiore democratizzazione delle istituzioni a tutti i livelli e una rivoluzione urbana che avrebbe reso le città sempre più a misura d’uomo, organizzandole attorno allo sviluppo delle istituzioni educative e di quelle dell’autogoverno. Il tema all’ordine del giorno, in Occidente come a Oriente, non era, come avviene ai nostri giorni, quello di aumentare l’orario di lavoro, bensì quello di ridurlo drasticamente — ben al di sotto delle trenta ore settimanali —, e persino quello di abolire il rapporto dirigente-diretto nel sistema produttivo scientifico-tecnologico. Oggi tutto ciò sembra il frutto di astrazioni e ingenuità, ma basta rileggere gli scritti del 1968 del filosofo Radovan Richta Sulla rivoluzione scientifica e tecnologica, per rendersi conto di come molte di quelle aspettative avessero già assunto la forma e la sostanza di veri e propri progetti e proposte rivolti alle classi politiche di allora.
Ma negli anni Sessanta e Settanta, né il mondo democratico occidentale né quello socialista orientale seppero capire che il sistema di potere mondiale bipolare, che aveva acquisito agli occhi del mondo il merito storico e politico di aver sconfitto il nazifascismo e aveva favorito la nascita di innumerevoli innovazioni, cominciava a mostrarsi incapace di guidare razionalmente lo sviluppo. I segnali del fatto che le istituzioni esistenti e le dimensioni degli Stati non erano adeguate per governare il progresso, sia sul fronte degli squilibri che si andavano approfondendo in campo economico ed ambientale, sia su quello della corsa agli armamenti, non furono colti. La politica, sia nel campo democratico che in quello socialista, non trovò gli strumenti all’altezza di queste sfide. Sarebbe stato necessario, infatti, porre le basi di un nuovo sistema di governo mondiale e di un nuovo modello di Stato. La responsabilità dell’iniziativa avrebbe dovuto essere dei paesi europei che, completando sul piano politico il processo di unificazione iniziato nel 1950, avrebbero potuto spezzare la rigidità del sistema bipolare — restituendo fluidità ai rapporti internazionali —, e soprattutto avrebbero potuto indicare al mondo il modello per costruire istituzioni statuali sovranazionali. Gli europei, invece, anziché superare il modello intergovernativo su cui si fondava il funzionamento della Comunità europea, continuarono a progredire gradualmente sulla strada dell’integrazione economica e monetaria, preferendo conservare il più a lungo possibile le rispettive sovranità e rimanere agganciati al quadro produttivo, di crescita e di sicurezza garantito dagli USA. Essi scelsero, così, di affrontare il nuovo che avanzava ancora divisi ed impotenti, mentre gli USA e l’URSS, costretti dalla logica del confronto testa-a-testa, continuarono a bruciare ingenti risorse materiali e finanziarie in una competizione geopolitica che alla fine avrebbe visto i primi vincere la guerra fredda, ma al prezzo di perdere gran parte della loro identità federale e molti connotati di una democrazia, e la seconda addirittura soccombere come Stato e come guida del processo di emancipazione politica e sociale dei lavoratori.
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Passata l’euforia per la fine della guerra fredda e per l’avvento, a seguito della globalizzazione, di una sorta di società universale del commercio con poche regole e nessuna autorità giuridica vincolante, qual è oggi la situazione sul piano dell’avanzamento del processo di liberazione degli individui dalla dipendenza del lavoro manuale ripetitivo, su quello delle prospettive di crescita economica e su quello del perfezionamento della democrazia?
Paradossalmente, dal punto di vista del processo di robotizzazione dell’industria, il fattore che forse ha contribuito maggiormente a frenarne lo sviluppo è stato quello della progressiva integrazione nell’economia globale dell’enorme serbatoio di manodopera a basso costo di paesi in via di sviluppo come la Cina e l’India, e di paesi industrializzati arretrati come quelli dell’Europa centrale ed orientale. Secondo le stime della International Federation of Robotics, infatti, nonostante il dimezzamento del costo dei robot industriali negli ultimi vent’anni, l’ascesa del fenomeno dell’automazione auspicata negli anni Settanta e Ottanta non si è verificata. L’unico paese che fa eccezione, sotto questo profilo, è il Giappone. In Germania, il paese europeo guida negli anni Ottanta per la riduzione dell’orario di lavoro in aziende come la Volkswagen, la densità di robot industriali è ancora circa la metà di quella raggiunta in Giappone. Invece negli USA, cioè nel paese leader dell’innovazione tecnologica nell’ultimo mezzo secolo, la densità di robot industriali in relazione ai lavoratori impiegati (novanta robot ogni diecimila lavoratori) è oggi inferiore del 90% rispetto a quella che si registra in Germania. Nei maggiori paesi asiatici (Cina compresa), in America Latina e in Africa, poi, c’è una bassissima densità di robot, e questo dato non sembra destinato a cambiare in modo significativo nei prossimi anni.
L’altro aspetto cruciale dello sviluppo, quello del proseguimento della crescita economica globale, è invece di fronte a due prospettive, entrambe allarmanti. Se la crescita prosegue ancora per qualche lustro ai ritmi e con i consumi di risorse attuali, gli equilibri ecologici globali rischiano di essere compromessi in modo forse irrimediabile. Se invece la crescita si dovesse arrestare, il mondo rischierebbe di essere investito dalle conseguenze di una feroce competizione fra Stati per accaparrarsi un benessere e una sicurezza sempre più scarsi e incerti.
A proposito della prima prospettiva bisogna considerare che lo sviluppo economico di circa due terzi dell’umanità porta inevitabilmente con sé un’inarrestabile rivoluzione dei consumi il cui ordine di grandezza è ben superiore rispetto a quello già vissuto in campo occidentale. Vi sono segnali evidenti a questo proposito. C’è voluto quasi un secolo perché il numero di automobili nel mondo passasse dalle poche centinaia di migliaia degli inizi del ‘900 al mezzo miliardo di fine secolo, e meno di mezzo secolo per passare nel traffico aereo da qualche decina di miliardi a migliaia di miliardi di miglia percorse in un anno dai passeggeri di tutto il mondo. Con gli attuali ritmi di crescita dei consumi in Cina e India basteranno pochi anni per far impallidire queste cifre.
E’ del resto impensabile che i cittadini dei paesi che sono giunti solo ora alla soglia della rivoluzione dei consumi siano disposti a limitare, in un quadro internazionale caratterizzato da una forte competizione e conflittualità tra vecchie e nuove grandi potenze, quella corsa al benessere che l’opulento Occidente, con meno del 15% della popolazione mondiale e i due terzi del parco automobilistico globale, non ha saputo o voluto contenere in condizioni ben più favorevoli dal punto di vista della cooperazione internazionale e della coesistenza pacifica.
Dal punto di vista della prospettiva di un possibile arresto della crescita, è proprio la possibilità di una gravissima crisi ecologica globale che la rende ipotizzabile. E’ ormai una previsione accettata e condivisa dalla comunità scientifica il fatto che, nel momento in cui l’umanità dovesse raggiungere nel suo complesso la capacità di emissione pro capite di anidride carbonica che hanno oggi i cittadini statunitensi, le emissioni globali di gas ad effetto serra salirebbero di cinque volte rispetto a quelle attuali, con inevitabili ripercussioni sul clima e quindi sulle economie; e lo stesso vale sul terreno dei consumi di energia. Come si è già accennato, lo sviluppo della Cina e dell’India basta da solo a rendere plausibile ed imminente — entro l’arco di vita naturale delle generazioni già nate — il tradursi in realtà di un simile scenario. E poiché non è oggi possibile separare in un sol colpo le politiche di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra da quelle della crescita, ne consegue che solo bloccando subito la crescita mondiale, e solo tenendola bloccata fino a quando non diventasse possibile l’abbandono su larghissima scala dell’uso di combustibili fossili, si interromperebbe davvero il processo di surriscaldamento del pianeta. Ovviamente ciò non può accadere e non accadrà, perché nessun governo di nessuno Stato, come nessun organismo internazionale, al di là della retorica ecologista che permea ormai ogni schieramento politico, vuole o può decretare un simile blocco. Tuttavia l’arresto prolungato della crescita può comunque imporsi nei fatti proprio per il groviglio di emergenze globali in cui l’umanità rischia di trovarsi impigliata e che dovranno essere tamponate.
Dal punto di vista ecologico, quindi, è indispensabile prendere atto del fatto che il problema oggi non consiste tanto nell’ignoranza della situazione di allarme ambientale in cui versa il nostro pianeta — situazione che tutto sommato è ormai ben studiata, ben documentata e persino autorevolmente divulgata —, ma piuttosto nel fatto che l’umanità si trova già nella fase in cui occorre prepararsi a governare le conseguenze dei cambiamenti climatici, in quanto essa ha già fallito il tentativo di prevenirle. La vera sfida consiste dunque nel creare subito il miglior governo possibile del mondo per affrontare le imminenti crisi, nella consapevolezza che ogni esitazione e ritardo al riguardo non può che aumentare i rischi di disordine e anarchia fra gli Stati, peggiorare le emergenze ecologiche e, parallelamente, compromettere in modo traumatico le prospettive di crescita.
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Problemi della portata di quelli brevemente presi in considerazione, in una situazione di assoluta interdipendenza di tutta l’umanità come quella che viviamo oggi, non possono essere efficacemente affrontati e risolti da singoli leader politici o governi, per quanto illuminati essi possano essere, ma solo da un sistema di governo mondiale sufficientemente forte e articolato, capace di elaborare dei piani di lungo periodo e di attuarli su vasta scala. Bisogna cioè pensare ad un governo fondato sul più ampio consenso e sulla più articolata partecipazione possibili di tutti i cittadini, cioè sulla democrazia. Oggi l’ipotesi di un simile governo non è all’ordine del giorno perché gli squilibri nel mondo sono ancora troppo forti e perché il processo di affermazione delle nuove potenze è ancora in fieri e rende impossibile una convergenza delle rispettive ragion di Stato che possa portare in questa direzione. Né è pensabile un’evoluzione degli organismi internazionali in questo senso, visto che essi in questa fase sono lo specchio dei mali e della divisione del mondo e non certo l’espressione di una embrionale democrazia internazionale in formazione. Ma tutto ciò non toglie che sia indispensabile cercare di orientare la politica in questa prospettiva se si vuole davvero garantire un futuro di civiltà all’umanità, anche perché sono già evidenti alcuni segnali che dimostrano quanto sia urgente avviare questo tentativo. L’assenza prolungata di uno sbocco realmente sopranazionale per lo sviluppo della democrazia sta già producendo, infatti, degli effetti negativi sul terreno del funzionamento delle democrazie anche in quei paesi dove gli ideali dell’eguaglianza politica e della libertà sono nati e si sono sviluppati, e non solo laddove questi ideali non si sono ancora affermati (come in Russia e in Cina). La situazione in Nord America e in Europa è in proposito indicativa.
Il degrado a cui sono giunti il federalismo e la democrazia negli USA ha ormai raggiunto livelli tali da aver suscitato una forte corrente di contestazione anche in alcuni settori dell’opinione pubblica americana. Lo sbilanciamento del potere legislativo e di quello giudiziario a favore del potere esecutivo centrale ha enormemente compromesso il funzionamento su basi federali e democratiche del sistema statunitense e non ci sono reali possibilità che questo trend degenerativo possa essere invertito nell’immediato futuro, anche con un cambio dell’Amministrazione a Washington. Solo riducendo l’enorme pressione creata dall’esercizio della politica estera ed il suo corollario interno — la sottomissione di tutto il sistema di governo alle esigenze della sicurezza militare —, la società americana potrebbe sviluppare al suo interno le energie necessarie per rafforzare nuovamente le istituzioni democratiche federali e tornare così in prima linea nella battaglia per affermare un governo democratico del mondo.
In Europa la prolungata dipendenza degli Stati europei dalla superpotenza americana ha fortemente indebolito la legittimità delle loro istituzioni democratiche e dei loro governi, la cui sicurezza e il cui benessere dipendono da troppo tempo da un potere extra-nazionale, che sfugge al controllo degli europei. Questo fenomeno è stato in parte temperato dall’integrazione europea finché questa ha rappresentato un canale credibile per la realizzazione della prima democrazia sopra-nazionale. Ma oggi questa prospettiva è palesemente bloccata da un lato dal fatto che sono state create delle istituzioni europee senza attribuire loro né i poteri, né i compiti esecutivi, legislativi e giudiziari propri di un governo, di un Parlamento e di una Corte, dall’altro dalla circostanza per cui il disegno di un’Europa politica è stato via via svuotato dal processo di allargamento e di diluizione dell’Unione europea in un’area di libero scambio.
In questo scenario, le speranze sono riposte nel fatto che esiste ancora uno spazio per proporre un’alternativa politica che può orientare in senso positivo le aspettative e gli atteggiamenti dell’opinione pubblica, dei governi e degli Stati. Per gli europei, come per gli americani, il recupero della democrazia e di un ruolo nella promozione di un governo mondiale responsabile e giusto passa da un profondo cambiamento del quadro di potere internazionale. Ma, a differenza dei cittadini americani — e in verità dei cittadini di tutti gli altri continenti, in questo momento — gli europei potrebbero, se volessero, prendere un’iniziativa decisiva per cambiare il modo stesso in cui gli uomini pensano e agiscono nel mondo, creando un nuovo potere in grado di modificare radicalmente il quadro esistente. Dipende infatti solo da loro, e innanzitutto dagli europei che hanno dato vita alle prime Comunità con l’obiettivo dichiarato di realizzare una federazione europea, decidere di superare le sovranità nazionali a favore della costruzione di un nucleo di Stato federale europeo, cioè di quell’elemento senza il quale la transizione verso un ordine multipolare più equilibrato e quindi più favorevole al rilancio del progetto di creare un governo democratico mondiale, è per il momento impensabile.
Se lo Stato non ha la dimensione e gli strumenti per affrontare i problemi che il corso della storia e la trasformazione della società gli pongono, e quindi se esso è sempre più sentito come inadeguato dai cittadini e sempre meno riesce ad essere un meccanismo di partecipazione democratica, ciò accade innanzitutto perché in Europa, cioè nel continente in cui lo Stato è nato nella sua forma moderna e consapevole, il processo di evoluzione democratica e di estensione delle dimensioni degli Stati si è bloccato.
Se il mondo si trova nella situazione di rischio in cui è, questo deriva in larga parte dal fatto che gli europei non hanno finora contribuito in modo sostanziale a promuovere la creazione di un assetto più governabile del mondo.
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In conclusione, la politica è al bivio. O essa imbocca la strada della costruzione di un sistema di governo responsabile su scala mondiale, oppure essa è destinata a subire le conseguenze distruttive dell’uso incontrollato dell’enorme potere che l’uomo ha ormai acquisito sulla natura e sull’evoluzione degli equilibri ecologici del pianeta. Ciò implica, sul piano delle responsabilità individuali, che chi si propone di far politica e di contribuire con il proprio impegno a migliorare in qualche misura il mondo in cui vive, deve prender coscienza che le priorità da affrontare oggi sono legate innanzitutto all’arretratezza del sistema di governo mondiale, all’inadeguatezza dello Stato in gran parte dei continenti e in primo luogo in Europa e alla necessità di creare una leva europea per spostare il peso delle emergenze mondiali dal punto di accertata ingovernabilità in cui si trovano attualmente ad uno di potenziale governabilità.
Il primo compito della politica è dunque, in Europa, quello di fondare al più presto lo Stato federale europeo e, al di fuori di essa, quello di favorirne la nascita.
Il Federalista