Anno XL, 1998, Numero 1, Pagina 3
L’Europa e l’emigrazione
I recenti sbarchi in Italia di grossi gruppi di emigranti clandestini, e le tensioni che ne sono seguite, suggeriscono alcune riflessioni sull’incapacità dell’Europa di affrontare in modo efficace, nelle sue cause e nelle sue manifestazioni, uno dei fenomeni più imponenti e drammatici della nostra epoca.
Lo spostamento di grandi masse di uomini e di donne in fuga dalla povertà e in cerca di lavoro dai paesi economicamente svantaggiati verso i paesi industrializzati uno degli aspetti del processo di globalizzazione. Si tratta di un fenomeno che, oltre ad essere storicamente inevitabile, potenzialmente benefico sia per i paesi di provenienza che sono sovrappopolati, e nei quali viene in questo modo alleggerita la pressione demografica che destabilizza le loro società — che per quelli verso i quali la migrazione diretta, e in particolare per i paesi dell’Europa occidentale, che si trovano in una fase di profonda trasformazione strutturale e di grave crisi demografica e la cui forza lavoro non è più in grado di far fronte ad una serie di bisogni di cui invece si potrebbe far carico la manodopera importata.
Ma l’immigrazione può produrre i suoi effetti benefici soltanto se essa viene orientata e disciplinata da un potere politico capace di condurre una politica economica coerente, che disponga di un saldo controllo del territorio e che intrattenga stretti rapporti di collaborazione con i paesi dai quali l’immigrazione proviene. Se ciò non accade, i flussi migratori rischiano di depauperare le economie dei paesi in via di sviluppo proprio di quella parte della forza-lavoro di cui esse avrebbero maggior bisogno, senza che peraltro gli emigrati trovino accomodamenti decorosi nei paesi in cui si trasferiscono, dove molti di essi vanno incontro al destino dell’emarginazione contribuendo all’aumento della delinquenza e al degrado delle città.
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Resta il fatto che il presupposto di una disciplina razionale del fenomeno dell’immigrazione, che ne valorizzi gli aspetti positivi e ne riduca quelli negativi è il contenimento delle sue dimensioni, ottenuto non attraverso provvedimenti limitativi, ma con misure che incidano sulle sue cause. Si tratta in particolare di portare il capitale e l’iniziativa imprenditoriale là dove esiste manodopera in eccedenza, per limitarne il flusso verso le aree industrializzate. Si deve sottolineare che il problema non riguarda tanto la misura e l’orientamento dei tradizionali aiuti statali allo sviluppo, che hanno nel passato dimostrato la loro inefficacia, e che spesso sono stati addirittura controproducenti. Ciò che si deve fare è mettere a profitto una tendenza che la globalizzazione tende spontaneamente a produrre, e che costituisce un fenomeno speculare rispetto a quello dell’emigrazione: la cosiddetta delocalizzazione delle attività produttive, cioè l’istallazione da parte di imprese dei paesi industrializzati di impianti ad alta intensità di manodopera in paesi nei quali questa è abbondante e a basso costo. In questo modo si consente ad una parte — talvolta la migliore e la più intraprendente — dei popoli dei paesi meno fortunati di evitare il dramma dello sradicamento che accompagna inevitabilmente l’emigrazione e di imboccare senza traumi la strada della costruzione del proprio benessere. Contemporaneamente si aumenta, nei paesi esportatori di capitali, la competitività delle imprese che esportano attività produttive grazie ai bassi costi di produzione delle realtà sociali ed economiche nelle quali quelle attività vengono trasferite.
Ma anche l’esportazione di opportunità di lavoro deve essere sostenuta da un’azione efficace dei pubblici poteri che la orienti e la garantisca. L’assenza, o l’inefficacia, di quest’ultima lascia gli operatori nell’incertezza ed esaspera i fattori obiettivi di rischio che caratterizzano ogni investimento estero, e soprattutto quelli fatti in contesti politici, sociali e culturali radicalmente diversi: il che, da una parte, scoraggia in generale gli investimenti e, dall’altra, favorisce l’imprenditorialità di rapina che punta su alti profitti a breve termine sfruttando gli uomini e depauperando l’ambiente. Nel contempo, la conseguenza immediata che la delocalizzazione produce nei paesi esportatori di attività produttive, in mancanza di una politica di investimenti interni e di riqualificazione della manodopera, è un aumento della disoccupazione nei settori direttamente interessati, che colpisce in particolare i lavoratori meno qualificati.
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Nel caso dell’Europa, la mancanza di una coerente politica dell’Unione è drammaticamente evidente. Le strategie dei governi degli Stati membri (sempre che di strategie si possa parlare) per quanto riguarda i problemi dell’immigrazione e i rapporti di collaborazione con i paesi da cui essa proviene sono deboli e divergenti, e quindi tutte inefficaci. Di fatto la risultante di queste strategie è una sola: la politica della chiusura. Una efficace politica di inserimento e di impiego degli immigrati richiederebbe una economia in espansione, e quindi un grande piano di riconversione dell’economia europea e di investimenti nelle grandi infrastrutture e nella tecnologia d’avanguardia. Questo piano era stato proposto nel 1993 dall’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors, ma esso è rimasto lettera morta. L’economia europea ha continuato ad essere condizionata dalla cosiddetta disinflazione competitiva, prodotta dall’imperativo (peraltro di per sé assolutamente imprescindibile) della convergenza delle politiche di bilancio dei paesi dell’Unione in vista della creazione della moneta unica. Ed essa seguirà lo stesso binario, a meno di radicali cambiamenti politici, anche dopo l’entrata in vigore dell’Unione monetaria, quando il solo orientamento della politica economica europea sarà quello ispirato alla filosofia e ai vincoli del Patto di stabilità, che esclude qualunque politica europea di bilancio e rende ciascuno dei governi dell’ Unione, sotto pena di pesanti sanzioni, responsabile esclusivo del mantenimento dell’equilibrio dei propri conti pubblici. Così la politica dell’immigrazione dei governi europei si è limitata finora, e si limiterà in futuro, fino a che radicali mutamenti politici non interverranno, al tentativo di arginare il fenomeno chiudendo le frontiere. Si tratta evidentemente di una politica destinata al fallimento, a causa della porosità delle frontiere europee, ma che consegue comunque due effetti disastrosi: quello di impedire ai governi europei di concentrarsi sul problema di disciplinare l’immigrazione valorizzandone le potenzialità positive, a beneficio sia degli immigrati che delle proprie economie, anziché su quello, peraltro insolubile, di bloccarla; e quello di far apparire l’Unione europea come un club chiuso e ingeneroso di paesi ricchi, preoccupati soltanto di non condividere con altri la propria ricchezza aprendosi alla collaborazione con il mondo che li circonda.
A tutto ciò si aggiungono i problemi causati dall’applicazione dell’accordo di Schengen e delle norme del cosiddetto terzo pilastro del Trattato di Maastricht. Quelli del rilascio dei visti e dei permessi di soggiorno ai cittadini dei paesi extra-comunitari, della concessione del diritto d’asilo, del mantenimento dell’ordine pubblico, della lotta alla criminalità e alla droga e di una politica comune della giustizia sono considerati dai governi dei paesi dell’Unione come problemi che investono direttamente la sovranità nazionale stono direttamente la sovranità nazionale, e che come tali devono essere gelosamente conservati nelle mani degli Stati attraverso la loro esclusione dal campo delle decisioni a maggioranza in seno al Consiglio dei Ministri e dal controllo del Parlamento europeo. Ma nelle condizioni attuali l’attaccamento dei governi alla sovranità nazionale si rivelata come un boomerang: il loro rifiuto di qualsiasi cessione di sovranità ha creato una situazione nella quale, con la scomparsa delle frontiere interne, il controllo dei flussi migratori e le decisioni sulla concessione dell’asilo politico e dei permessi di soggiorno, l’assunzione e l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione sono demandati allo Stato attraverso il quale gli immigrati entrano nel territorio dell’ Unione. Ciò comporta che ognuno dei governi dell’Unione deve di fatto rinunciare a una propria politica di regolamentazione dei flussi migratori che lo riguardano e si trova a dipendere dal grado di capacità di ciascuno dei suoi partners di applicare le regole decise a livello europeo e dalle interpretazioni che ciascuno di essi ne dà. In questo modo, anziché dipendere dall’ Unione, ciascuno dei governi firmatari dell’accordo di Schengen dipende di fatto da quelli tra gli altri che hanno frontiere esterne più estese e meno controllabili. Ne deriva la perdita da parte di tutti di ogni effettivo controllo del territorio, e quindi la totale abdicazione a quella stessa sovranità che tanto gelosamente si voleva difendere.
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Alla chiusura nei confronti dell’immigrazione fa riscontro l’incapacità dell’Unione di esprimere un disegno coerente in politica estera che le consenta, tra l’altro, di creare i presupposti di una politica razionale di esportazione di attività produttive e di sviluppo dei paesi dai quali l’immigrazione proviene.
Questo disegno dovrebbe comprendere una attuazione rapida del progettato allargamento dell’ Unione all’Europa orientale e un forte impegno per favorire, attraverso una collaborazione attiva e mirata, il processo di pace in Medio Oriente con, a termine, l’obiettivo di promuovere nell’area un progetto di unificazione federale. Ma la realizzazione dell’allargamento dipende dalla capacità dell’Unione di affrontare i molteplici e difficili problemi che essa comporterà potenziando radicalmente la propria capacità decisionale: in mancanza di che essa rimarrà chiusa nei suoi attuali confini, o si dissolverà in una evanescente area di libero scambio, e i suoi Stati membri perderanno i benefici già acquisiti con l’integrazione anziché estenderli ad altri. E in Medio Oriente l’Europa, che pur impiega nella regione mezzi finanziari superiori a quelli stanziati dagli Stati Uniti, rimane subordinata all’iniziativa di questi ultimi (un’iniziativa che, per di più, si rivela del tutto incapace di rilanciare il processo di pace). Del resto l’impotenza e l’egoismo dell’Unione si sono recentemente confermati nella loro luce più cruda nel deplorevole trattamento riservato alla Turchia dal Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997, che ha escluso persino dalla lista dei paesi candidati all’adesione uno Stato legato all’ Unione (e prima alla Comunità) da un Trattato di associazione stipulato fin dal 1963. L’atteggiamento miope e ingeneroso dell’Europa rischia così di frustrare le spinte alla modernità e alla democrazia che sono presenti e vive nella società turca e di incoraggiare quelle all’autoritarismo e al radicamento del fondamentalismo islamico.
Resta il fatto che, quale che sia l’aspetto dell’inerzia e dell’irresponsabilità dell’Europa che viene di volta in volta in primo piano, l’incapacità di agire dell’Unione ha sempre la sua radice nella mancanza di istituzioni democratiche e federali che consentano di dare espressione all’interesse generale europeo e di promuovere con ciò stesso quello dei popoli con i quali l’Europa ha la vocazione a collaborare più strettamente in ragione della loro prossimità geografica. Fino ad oggi le fasi di stallo, i rallentamenti e le crisi del processo di unificazione europea sono stati giustificati dai governi che li hanno provocati in nome dell’interesse nazionale. Ma ormai il solo vero interesse nazionale di tutti gli Stati dell’Unione quello di fare l’Europa, rinunziando alla loro sovranità e mettendola in comune nel quadro di uno Stato federale europeo. Quello che oggi si continua a chiamare interesse nazionale soltanto quello di una parte delle classi politiche, delle burocrazie e delle diplomazie a conservare le istituzioni alle quali legato il loro potere, più l’insieme degli interessi corporativi dei settori più parassitari della società, che da quelle dipendono per la loro sopravvivenza. Il problema dell’Europa è costituito dal fatto che questi interessi dispongono di strumenti politici e istituzionali consolidati per la loro formulazione e la loro espressione, mentre il bene comune dell’Europa privo di questi strumenti e quindi condannato a rimanere nel limbo indistinto degli ideali. La lotta per l’Europa l’impegno a far sì che questi ideali assumano la concretezza di motivazioni del comportamento reale degli uomini.
Il Federalista