Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 83
Unire l’Europa per salvare la democrazia
Il 2016 è stato sicuramente un anno difficile, e per molti aspetti traumatico, che ha visto esplodere il malcontento e la reazione di protesta delle opinioni pubbliche in Europa e negli Stati Uniti, con le relative conseguenze in quasi tutti gli appuntamenti elettorali importanti che ci sono stati.
Le radici e le ragioni di tanta rabbia e di tanta frustrazione, che alimentano una crescita apparentemente inarrestabile dei movimenti nazional-populisti e xenofobi, sono state ormai analizzate e descritte in modo approfondito. L’Occidente soffre innanzitutto gli effetti di una globalizzazione che ha promosso e guidato con troppa arroganza, sulla base di una previsione dei trend che ne sarebbero scaturiti e di un modello di divisione internazionale del lavoro che si sono rivelati affrettati e inadeguati; e soprattutto sulla base di un errore madornale in termini di impostazione ideologica e di pensiero politico che hanno sorretto e giustificato le scelte di governo e le politiche adottate. Si tratta di un errore riconosciuto ormai da tutte le forze e le correnti di pensiero liberal-democratiche, che, dopo la crisi, i governi hanno tentato di correggere almeno in parte sia negli USA, sia in Europa, a partire dalle diverse emergenze che i due sistemi presentavano, e con risultati diversi.
Sia chiaro che la globalizzazione ha rappresentato un enorme chance per il mondo nel suo insieme, che ha permesso di sviluppare i 4/5 dei paesi fino a vent’anni fa fermi allo stadio del sottosviluppo e di strappare i 5/6 dell’umanità dalla situazione di indigenza e di povertà assoluta in cui si trovavano. Ma, sul piano psicologico, per chi nel vecchio mondo deteneva il monopolio della ricchezza, il passaggio è delicato, specie perché si somma ad una serie di altre sfide estremamente complesse. La principale è quella dell’impatto, in realtà molto più forte rispetto a quello provocato dalla competizione globale, della rivoluzione tecnologica sul mercato del lavoro. Le nuove tecnologie presentano enormi potenzialità per il miglioramento della qualità della vita delle nostre società, ma, come accade sempre in ogni cambiamento profondo, nello stadio iniziale hanno effetti molto destabilizzanti sui diversi segmenti della popolazione e sui territori, effetti che ancora non si riescono a gestire in modo soddisfacente. A tutto ciò si aggiunge il problema demografico che, nei sistemi occidentali, e soprattutto in Europa, inizia a gravare pesantemente per quanto riguarda la tenuta dei sistemi di welfare e la loro sostenibilità. E infine, per completare il quadro, vi è un ulteriore, drammatico fattore che contribuisce ad aggravare i precedenti, ossia quello dell’instabilità geopolitica e dell’assenza di un ordine internazionale capace di promuovere un equilibrio cooperativo in un mondo ormai interdipendente; un’anarchia che è frutto innanzitutto della debolezza politica dell’Occidente, e che spaventa per le sfide che pone in termini di sicurezza e di gestione dei flussi migratori.
È inevitabile che questo cocktail esplosivo di sfide e trasformazioni provochi reazioni di paura e di ansia nell’opinione pubblica, specie in quella meno attrezzata culturalmente a gestire i cambiamenti. Spesso si fa riferimento ai ceti più colpiti dalla crisi per spiegare le ragioni delle scelte di protesta, della sfiducia nelle istituzioni e della virata verso il nazionalismo che sono emerse dagli esiti recenti del voto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, persino nel referendum costituzionale in Italia. Ma, cercando di andare oltre le impressioni, emerge abbastanza chiaramente che, al di là delle specificità di ciascun caso, non c’è una sovrapposizione precisa tra chi subisce maggiormente la crisi o l’impoverimento e il voto di protesta. La linea di divisione è soprattutto culturale, tra chi percepisce sfide e cambiamenti rispetto ai quali si sente indifeso e minacciato e che non sa (e quasi sempre neppure vuole) comprendere – anche perché la comprensione richiede uno sforzo complesso di analisi –, e chi invece, per diverse ragioni, è in grado sia di cogliere la natura dei processi in corso, sia di attrezzarsi di fronte al nuovo, anche quando questo comporta degli svantaggi nell’immediato.
Nel mondo globale, interconnesso e interdipendente, la vera divisione che si inizia pertanto a delineare rispetto ai comportamenti politici e che definisce il progresso rispetto alla volontà di restaurare il passato, è quella che Altiero Spinelli aveva già identificato nel Manifesto di Ventotene: quella tra chi, più o meno coscientemente, persegue l’integrazione e prepara la creazione di istituzioni sovranazionali in grado di governare in nome dell’interesse collettivo e in modo democratico l’interdipendenza (riferendosi di fatto al federalismo sovranazionale come teoria e come pratica politiche) e chi si richiama invece al nazionalismo – che, al contrario, esalta la ricerca da parte di ciascun paese del proprio interesse particolare, vuole conservare la divisione e si oppone all’integrazione. È la linea di demarcazione che, di fatto, segna anche il confine tra chi vuole rafforzare e sviluppare la democrazia e chi si fa invece affascinare dai modelli autocratici, e tra chi vuole costruire la pace e chi, magari inconsapevolmente, crea le condizioni che rendono possibile la guerra. Il nazionalismo nell’epoca dell’interdipendenza conduce, infatti, in un vicolo cieco, perché non esiste una ricetta nazionale per lo sviluppo: il tentativo di tenere fuori dai propri confini la globalizzazione ha come solo risultato quello di aggravare i problemi di ciascun sistema e di ciascuna società, approfondendone la crisi e producendo anarchia. La globalizzazione è una realtà da cui non si può tornare indietro cercando di rifugiarsi nel mito di un passato che, oltretutto, non ha mai avuto i caratteri idilliaci che gli si vogliono attribuire. Viceversa, è un fatto con cui ci si deve misurare, e che bisogna imparare ad affrontare e gestire con gli strumenti politici e culturali adeguati.
Questi strumenti sono appunto quelli del federalismo. Sono gli stessi che hanno ispirato e sorretto il processo di unificazione europea, anche se finora sono riusciti ad affermarsi solo parzialmente, e in modo ancora insufficiente e inadeguato. Ma la politica potrà ritrovare i punti di riferimento per gestire e governare il nuovo mondo solo sviluppandoli pienamente e portandoli a compimento. Per questo quanto accade in Europa ha un valore così profondo per lo sviluppo di tutta l’umanità: perché l’Europa è stata, e continua ad essere, il laboratorio del governo democratico dell’interdipendenza.
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Europa e Stati Uniti affrontano in questo momento due crisi profondamente diverse, anche se i problemi alla base di entrambe sono comuni. La specificità della crisi americana è dovuta al fatto che gli USA devono gestire il declino della loro egemonia, il passaggio da unica superpotenza, vincitrice del confronto della Guerra fredda e dominus incontrastato del processo di avvio dell’attuale globalizzazione, a paese che, pur essendo ancora relativamente più forte rispetto a qualsiasi altro nel mondo, non è più in grado di esercitare una supremazia assoluta e deve ridefinire le proprie priorità strategiche.
Le ragioni più profonde dell’elezione di Trump devono essere ricercate proprio in questa impasse in cui si sono venuti a trovare gli Stati Uniti soprattutto sul piano geopolitico, pur senza sottostimare il forte impatto che stanno avendo i contraccolpi della competizione globale e gli effetti dello sviluppo tecnologico sul sistema economico-sociale. Lo dimostra il fatto che sul piano economico le scelte e le politiche dell’Amministrazione Obama sono comunque state efficaci, sia nel senso del riequilibrio del sistema, in cui si è avviato un maggiore controllo sul settore finanziario e si è incentivato il settore manifatturiero, sia nel senso del tentativo di affrontare la questione della crescente divaricazione sociale tra la esigua minoranza dei più ricchi e il resto della popolazione. Per quanto il suo governo sia stato in gran parte bloccato da un Congresso ostile, i numeri parlano di uno sforzo considerevole fatto per incrementare la redistribuzione, e mostrano un aumento consistente (e a tassi sconosciuti sin dagli anni Settanta) delle entrate delle famiglie del ceto medio e medio-basso americano, e un forte miglioramento delle condizioni economiche delle classi più disagiate (il numero dei poveri negli ultimi 25 anni è calato dal precedente 40% all’attuale 10%); la disoccupazione, poi, è tornata a tassi fisiologici, anche se permane il problema della qualità di molti tipi di impiego.
Molto meno positivo, invece, il bilancio della politica estera dell’era Obama. Anche se alcuni successi sono stati importanti, e anche se il declino americano risale alla fine degli anni Novanta ed è stato accelerato dalle scelte nefaste della presidenza Bush, è stato Obama il primo a scontrarsi con la perdita di autorevolezza degli USA a livello globale. E’ stato lui ad assumersi la responsabilità di cercare di inaugurare una nuova epoca in cui gli Stati Uniti prendevano atto di non essere più in grado di gestire da soli l’equilibrio geopolitico. Ed è stato sempre lui a sperimentare personalmente a nome degli USA il nuovo atteggiamento dei partner. Gli episodi di vera e propria mancanza di rispetto nei confronti di Washington sono stati numerosi, in particolare da parte dei BRICS o di vecchi alleati diventati ostili. Altrettanto evidenti e gravi sono state la perdita di controllo progressiva su tradizionali aree di influenza e le incertezze manifestate e le contraddizioni suscitate nel tentativo di perseguire il disegno della nascita di un ordine multipolare senza riuscire a rielaborare le vecchie tendenze strategiche ereditate dalla dottrina della Guerra fredda.
Gli Stati Uniti faticano a ridisegnare il proprio ruolo globale, nella consapevolezza di essere ancora il paese più influente (nelle parole di Obama: “if we don’t set the agenda, it doesn’t happen. There is not a summit I’ve attended since I have been president where we are not setting the agenda, where we are not responsible for the key result”), ma di doversi al tempo confrontare con il fatto che gli USA “can’t fix everything”. Sicuramente pesa su questa difficoltà americana – e Obama lo ha spesso denunciato – il vuoto politico e militare lasciato dagli europei, che non sono in grado di aiutare gli Stati Uniti a condividere la responsabilità di costruire un nuovo equilibrio globale cooperativo. E il risultato è quello di un’evidente impasse che accresce le paure dei cittadini e decreta la loro sfiducia nel sistema e nella politica “liberal”, di cui Obama ha cercato di essere un interprete convinto, impegnandosi per riportare la ragione dell’influenza americana nel mondo nella forza del suo modello, dei suoi valori e dei suoi ideali.
Non è un caso, pertanto, che l’analisi del voto alle elezioni presidenziali mostri che le classi più disagiate hanno sostenuto in maggioranza la Clinton, e che l’elettorato di Trump è invece identificabile non tanto con il disagio economico, quanto con quello sociale e culturale di chi teme di perdere lo status acquisito in un mondo in rapida trasformazione che pone sfide sconosciute. Si spiega così il consenso raccolto con la retorica anti-establishment (“i politici che non sanno difendere i cittadini americani”), con il motto nazionalista “America First”, con le accuse lanciate contro il libero commercio (visto come causa della delocalizzazione della produzione e inteso solo come concorrenza sleale). Culturalmente è il trionfo dei rigurgiti xenofobi, e razzisti, ancora così forti in una parte della società americana; politicamente è l’adesione acritica ad un programma che pretende di rompere con l’ideologia della responsabilità liberal-democratica americana nel mondo e di rispondere alle sfide globali sfruttando la supremazia relativa degli Stati Uniti a scapito di tutti i partner. Un progetto di nuova egemonia esclusivamente rapace, in cui non c’è spazio per un disegno win-win.
Gli effetti che il nuovo atteggiamento americano produrrà sugli equilibri internazionali saranno pesanti. Per quanto sia impossibile prevedere i dettagli o le scelte specifiche che la nuova Amministrazione porrà in essere, finché Trump non sarà in qualche modo sconfitto dai fatti, o nel corso della prossima competizione elettorale, il suo tentativo sarà sicuramente quello di usare il potere americano – politico, economico, militare – per cercare di ottenere un immediato vantaggio nazionale. Già lo si vede dagli annunci riguardo agli accordi globali sul commercio internazionale, ripudiati in blocco, con l’idea di sostituirli con negoziati bilaterali tra USA e i singoli paesi in cui la forza americana possa farsi valere; o dalla intenzione di drenare risorse dal resto del mondo per finanziare gli investimenti interni, accrescendo il debito e sfruttando il vantaggio del dollaro come moneta di riferimento mondiale; oppure dall’atteggiamento di assoluto disprezzo verso l’Unione europea (inclusa la mano tesa al Regno Unito, risalita, al contrario di quanto sostenuto da Obama, in cima alle priorità della nuova Amministrazione) e dall’ostilità manifestata nei confronti della Cina. Sono tutti atteggiamenti destinati ad avere impatti molto negativi, anche sulla stessa situazione interna statunitense, dopo vent’anni di crescita e sviluppo creati e garantiti – al di là degli errori commessi – dalla ricerca dell’integrazione del mercato mondiale; e, soprattutto, che creeranno instabilità ulteriore e che indeboliranno il potere americano nel mondo, suscitando reazioni di ostilità e contrapposizione.
Resta solo da sperare che la solidità del sistema americano, e la forza della sua cultura e della sua opinione pubblica democratiche, permettano di invertire questo stato di cose in tempi rapidi, prima che i danni siano troppo gravi. La speranza deriva dalla constatazione che, nonostante la difficoltà di ridefinire il proprio ruolo strategico e la propria identità nel mondo, gli Stati Uniti restano un grande paese fondato su istituzioni solide e profondamente democratiche, e rimangono ricchissimi di risorse umane e culturali, oltre che politiche. Ma anche il modo in cui le potenze maggiormente sfidate da questo nuovo ciclo politico americano risponderanno sarà decisivo. La capacità della Cina di reagire a questo nuovo tentativo egemonico americano, ma soprattutto la capacità dell’Europa di rendersi indipendente e di giocare un ruolo di responsabilità globale saranno determinanti.
Perché l’Europa possa raccogliere la sfida che l’arrogante presidenza di Trump le pone e smettere di abdicare ai propri doveri nel campo della politica estera e di sicurezza, il salto che deve compiere è quello dell’unità politica, come ormai riconosce – perlomeno da quando è scoppiata la crisi finanziaria ed economica che ha messo a nudo le fragilità di un sistema costruito solo a metà – chiunque non sia faziosamente nazionalista. Il problema europeo, diversamente da quello americano, è pertanto quello di accettare la sfida di crescere, ed è un problema la cui soluzione dipende solo dalla volontà degli europei. Anche se apparentemente sono più deboli di altre aree del mondo in questo momento, la verità è che gli europei potrebbero rafforzarsi in maniera esponenziale semplicemente portando a compimento con l’unità politica l’edificio comunitario. E’ dal 2012 che le istituzioni europee preparano rapporti che indicano gli obiettivi da perseguire a tale scopo, e le relative possibili roadmaps e iniziative. In questo momento, ancor di più, il Parlamento europeo si sta facendo portatore di un progetto complessivo di enorme valore politico: la Commissione affari costituzionali ha appena approvato due rapporti, quello redatto dai parlamentari Mercedes Bresso e Elmar Brok (rispettivamente del PSE e del PPE) e quello preparato da Guy Verhofstadt, del gruppo ALDE, che verranno discussi in seduta plenaria a febbraio e che dovrebbero così essere pronti per il Consiglio europeo di fine marzo a Roma. Il primo dimostra che il Trattato di Lisbona offre già gli strumenti che possono essere utilizzati immediatamente per rafforzare e approfondire l’integrazione dell’Unione economica e monetaria, per incrementare l’efficacia della Politica estera e di sicurezza comune e per iniziare ad adeguare gli strumenti comuni per la tutela della sicurezza interna. Il secondo richiama la necessità di riformare i trattati per dare all’Unione europea gli strumenti per agire in modo efficace, eliminando l’abuso degli opting-outs e delle deroghe, e creando invece due differenti livelli di partecipazione nell’Unione europea. Il primo sarebbe limitato al Mercato unico, l’altro sarebbe incentrato sull’appartenenza all’Unione economica e monetaria, che diventerebbe il nucleo centrale del sistema europeo, con un’Eurozona fortemente integrata e dotata di una sua capacità fiscale, di risorse autonome, di un Tesoro europeo e di un sistema decisionale federale e non più intergovernativo, in cui la Commissione europea diventi un vero e proprio governo europeo.
Il problema è dunque solo di volontà politica, di coraggio e capacità da parte delle leadership nazionali di fare il passaggio di condivisione della sovranità; ma i segnali di tensione che sotto questo profilo giungono dalle riunioni del Consiglio, e soprattutto del Consiglio europeo, non sono certo incoraggianti. I governi nazionali sembrano prigionieri dell’attuale stato di divisione che enfatizza la loro debolezza e quella delle istituzioni europee, mettendo a repentaglio la stessa democrazia nel nostro continente. Laddove la sfida nel quadro attuale è quella della capacità decisionale per rispondere con prontezza ed efficacia alle crisi multiple, gli europei sono completamente spiazzati. Il sistema politico è costruito per continuare a funzionare a livello nazionale, ma a quel livello non ci sono risposte efficaci ed autorevoli da dare; e al livello europeo, dove le risposte invece si potrebbero dare davvero, non esistono i meccanismi decisionali e gli strumenti politici per metterle in pratica. Il risultato è che la democrazia è sotto assedio nei nostri paesi e la stessa sopravvivenza dell’Unione europea è minacciata. Per resistere bisogna saper dare risposte concrete alle ansie e alle paure dei cittadini, e non spaventarsi e indietreggiare di fronte alla situazione di caos crescente.
La Brexit, come anche la schiacciante vittoria del No al referendum italiano, dimostrano, al di là delle rispettive specificità, che la paura e l’incertezza che spingono a bloccare il cambiamento sono fortissime nell’opinione pubblica e si manifestano, appena è possibile, in scelte che non si fondano sull’adesione ad un vero e proprio progetto alternativo – che non esiste – ma sulla (momentanea) fuga dalla realtà. Momentanea, però, perché come ci aveva insegnato la Grecia, e come ha confermato il caso delle elezioni presidenziali in Austria, quando ci si trova di fronte alle implicazioni (devastanti) che derivano da questa fuga dalla realtà il consenso per un progetto ragionevole torna ad essere vincente. Tutti i sondaggi dimostrano che continua ad esserci il favore dell’opinione pubblica dei paesi chiave dell’eurozona per un’Europa che sia davvero capace di agire e di dare risposte concrete alle crisi, e che sia capace di dare un nuovo orizzonte ideale e di battersi per affermare un modello di valori nel mondo. Questo consenso non deve essere disperso, ma deve diventare la base per scelte coraggiose che cambino la percezione dell’opinione pubblica e rovescino le aspettative.
Questa è un compito innanzitutto dei governi nazionali, che devono saper coniugare responsabilità al proprio interno, correttezza e solidarietà reciproche, e coraggio europeo per salvare la democrazia in Europa; e di tutte le forze consapevoli, che devono imparare a non aver paura di battersi per il cambiamento, che è necessario in ciascun paese ma prima di tutto in Europa. L’anniversario della firma dei Trattati di Roma il prossimo 25 marzo a Roma, se si vuole, può diventare l’avvio della riscossa europea. E’ responsabilità di tutti che ciò avvenga.
Il Federalista