IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXVI, 1984, Numero 1, Pagina 3

 

 

Verso un governo mondiale
 
 
 
La nostra rivista, che si pubblica ormai da più di venticinque anni, esce ora anche in inglese per non restare confinata nel solo ambito italiano (o francese, lingua nella quale è uscita dal 1962 al 1974). Nell’era nucleare, che è quella del potere del genere umano di autodistruggersi, le ricerche e le discussioni politiche limitate a singoli ambiti nazionali non hanno più senso. E non è affatto vero che sarebbe possibile superare questo ostacolo con traduzioni da ogni lingua in tutte le altre. Il numero delle lingue nazionali è ormai così alto da rendere impensabile questa prospettiva. Ma c’è un fatto ancora più grave. Con le traduzioni non si può in alcun modo garantire né la precisione verbale indispensabile per una ricerca teorica unificata anche nei campi politico, storico e sociale, né la diffusione universale dei risultati della ricerca necessaria per fondare le decisioni politiche su una base sempre più oggettiva e sempre meno immaginaria.
È per questo limite delle traduzioni che le scienze più avanzate – le scienze della natura, dalla fisica alla biologia – hanno quasi universalmente adottato non solo un lessico minimo comune di termini cruciali, ma addirittura una lingua comune, l’inglese. E vada sé – ma deve essere sottolineato per mettere in evidenza il nesso tra lingua comune e impiego ottimale del lavoro mentale – che senza l’uso comune dell’inglese queste scienze non avrebbero certamente ottenuto né sul piano teorico, né su quello pratico (diffusione ampia e rapida delle nuove teorie e delle nuove tecnologie) i risultati che hanno effettivamente conseguito.
Nonostante ciò, persino in Europa – dove la cultura ha tra i suoi fondamenti il latino come lingua comune (e come orizzonte internazionale della formazione delle stesse lingue nazionali) – l’esigenza di una lingua mondiale non si è ancora manifestata in modo efficace nella sfera della conoscenza politica (in senso lato, comprensivo di tutte le scienze storiche e sociali, anche e soprattutto nella loro relazione con i problemi dell’azione). In questa sfera, che è anche quella del comune sentire, vale ancora il pregiudizio nazionalistico del rifiuto della lingua universale – generalmente umana – come se la partecipazione diretta di tutti al pensiero mondiale con una lingua mondiale fosse un danno, e non un vantaggio, anche per le stesse comunità nazionali e per le loro lingue, che non potrebbero certo prosperare nel mondo a paratie stagne del nazionalismo linguistico. Eppure una lingua universale è ancora più necessaria nella sfera della politica che in quella delle scienze della natura.
Mai come ora gli uomini hanno avuto bisogno di intendersi. La specie umana costituisce ormai una sola comunità di destino, e può salvarsi solo con un mutamento politico (una rivoluzione) pari al cambiamento intervenuto nei termini stessi della sua sopravvivenza. Il fatto, noto a tutti, è questo: la catastrofe nucleare e/o ecologica è possibile, e diventerà certamente inevitabile se non si perverrà ad istituire un controllo politico mondiale efficace. Solo in questo modo la scienza potrà essere usata esclusivamente come uno strumento di vita, di libertà e di uguaglianza e non come uno strumento di morte. Ma se il fatto è questo, e se c’è solo questa risposta, allora bisogna tener presente che questo obiettivo – un controllo politico mondiale efficace – non potrà essere raggiunto senza azioni in comune, decise in comune sulla base di una informazione comune. E ciò non è praticamente possibile senza una lingua comune. A questo riguardo vale una analogia con il passato. Come con l’estensione a tutta la società delle lingue nazionali di cultura si è creato il presupposto linguistico indispensabile per le prime forme democratiche di controllo degli stati (unità dell’informazione e della comunicazione a livello nazionale), così con l’estensione graduale dell’uso dell’inglese ad un numero sempre maggiore di persone – nel quadro di un bilinguismo generalizzato anche come differenziazione tra l’inglese comune e l’inglese parlato nel Regno Unito, negli USA, ecc. – si potrà creare il presupposto linguistico (unità mondiale dell’informazione e della comunicazione) indispensabile per il controllo mondiale.
 
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Il traguardo è lontano, ma noi pensiamo che un esame ragionevole permetta di affermare che la direzione di marcia può essere stabilita, e presa, sin da ora. Secondo il nostro parere – che coincide con quello di tutti coloro che si sono occupati davvero della pace, e non soltanto, col pretesto della pace, del successo della propria parte – l’obiettivo finale è il governo mondiale. Bisogna però chiarire che non si può avere un governo mondiale senza rifiutare la concezione esclusiva della nazione e senza adottare i principi del federalismo. La nazione esclusiva (fusione di nazione e stato, svuotamento dell’idea di umanità) conduce inevitabilmente allo stato nazionale come livello supremo del controllo politico (monopolio dell’uso legittimo della forza fisica), e quindi all’impiego della forza nei rapporti fra le nazioni, all’anarchia internazionale e al mondo come mondo della guerra (mondo delle nazioni armate). D’altra parte, solo con il federalismo come nuovo mezzo di governo – cioè con l’allargamento della sfera d’azione del governo democratico dal territorio di uno stato a quello di una pluralità di stati indipendenti e coordinati – si può disporre del mezzo istituzionale indispensabile per trasferire a livello mondiale il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica, stabilire un controllo politico mondiale, disarmare gli stati e proibire la guerra nel quadro di una effettiva eguaglianza politica e giuridica – e in prospettiva economica e sociale – di tutte le nazioni, piccole o grandi che siano (mondo della pace, cioè delle nazioni disarmate) .
Precisata la natura dell’obiettivo finale, si tratta di vedere se esistono obiettivi intermedi, e quali sono. Per fare questo esame bisogna partire, a nostro parere, da questo dato di fatto: nella realtà storica ha già preso forma da tempo il processo di superamento degli stati nazionali esclusivi. Questa tendenza si manifesta sia a livello regionale, sia a livello mondiale. A livello regionale il processo ha già raggiunto uno stadio molto avanzato in Europa occidentale, dove il diritto di voto ha già oltrepassato i confini nazionali (Comunità europea), e si è già esteso alle altre aree regionali frammentate in molti stati, come mostrano le iniziative e le organizzazioni unitarie in Africa, America latina, Vicino oriente ecc. A livello mondiale, invece, la tendenza è meno netta anche perché le grandi potenze – gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica – così come la Cina e l’India, presentano già, sia pure in modo imperfetto, il carattere di formazioni multistatali e/o multinazionali. Bisogna però tener presente che, nonostante il fallimento clamoroso della Società delle Nazioni, il mondo ha ripreso, con l’ONU, la stessa strada, quella dell’unità. Ciò mostra che la tendenza è attiva anche a livello mondiale, dove può prendere la sua forma definitiva come unità delle grandi regioni del mondo sulla base della sempre maggiore unità del mercato mondiale e della crescente interdipendenza di tutti gli uomini e di tutti i paesi.
La presa in considerazione di questo processo (che in questa luce comincia a rivelare il suo carattere di annuncio di una nuova era storica) è decisiva ai fini del nostro esame per questa ragione: il processo di superamento degli stati nazionali esclusivi è, ipso facto, il processo di superamento della divisione, cioè di avvicinamento al governo mondiale. Ne segue, ovviamente, che le tappe di questo processo costituiscono gli obiettivi intermedi della marcia verso il governo mondiale. Ne segue anche che, avendo identificato questi obiettivi, possiamo ora chiederci in che modo possono essere perseguiti, e con quali risultati. La prima cosa da constatare è che questi obiettivi rientrano già nell’ambito delle scelte politiche che tutti fanno e non possono non fare. In ogni paese ogni uomo si trova sempre, in effetti, di fronte alle scelte pro o contro i progressi dell’unificazione regionale alla quale partecipa il proprio paese, e/o pro o contro il rafforzamento dell’ONU, ed è vero che può, se lo vuole, sostenere non solo la propria unificazione regionale (dove ciò è possibile), ma anche, in termini di politica estera, le unificazioni regionali delle altre aree e il rafforzamento dell’ONU. Ciò significa che tutti gli uomini hanno già la possibilità di attribuire alle proprie scelte politiche il carattere di passi avanti lungo la via che può portare la umanità sino al governo mondiale.
La seconda cosa da constatare è che queste scelte non si sovrappongono a quelle nazionali ma le orientano e consentono di realizzare la migliore politica nazionale possibile, quella della collaborazione con tutti i paesi per lo sviluppo equilibrato del mercato mondiale e la soluzione dei problemi internazionali con il metodo del negoziato. La terza cosa da constatare è che questa ricerca comune del progresso politico, economico e sociale è concepibile solo se con l’inizio della marcia verso il governo mondiale, e la formazione di questo nuovo punto di riferimento per la pubblica opinione e la cultura, acquisterà peso, nella bilancia mondiale delle aspettative, che è gran parte della bilancia mondiale del potere, la prospettiva di un mondo unito, in sostituzione di quella attuale di un mondo che non sa superare le sue divisioni e quindi condanna tutti all’egoismo nazionale.
 
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Sino ad ora nessuno si è proposto questo programma d’azione. L’umanità conosce il rischio nucleare, ma non sa ancora che esiste la possibilità di eliminarlo, e perciò non riesce a tradurre questa possibilità in un principio direttivo dell’azione. E potrà riuscirei solo se cesserà di subire passivamente la situazione creata dalle armi nucleari (che resta oscura anche perché viene ancora analizzata, a torto, con i principi nazionali del passato) e cercherà di trasformarla in una situazione riconosciuta dal pensiero e quindi affrontabile con l’azione. Il primo passo deve farlo la volontà. Bisogna agire per il mondo, e non solo per il proprio paese. Bisogna cioè assumere come priorità di azione la marcia dell’umanità verso il governo mondiale, e non la fortuna esclusiva del proprio paese, che in un mondo diviso non potrebbe comunque sfuggire, nonostante ogni contraria intenzione, a un destino di morte.
Il secondo passo deve farlo la ragione. Sino ad ora il pensiero politico effettivo, quello che guida l’azione, non è ancora riuscito ad assumere il controllo della realtà internazionale, e quindi del corso della storia. Dopo il liberalismo e la democrazia, anche il socialismo (in Europa con il fallimento della II Internazionale di fronte alla prima guerra mondiale, in Russia con il prevalere del principio della costruzione del socialismo in un paese solo) è rimasto prigioniero della concezione esclusiva della sovranità nazionale e della ragion di stato, ed è divenuto così un ulteriore elemento costitutivo dell’anarchia internazionale come perpetua prova di forza tra gli stati, cioè come situazione nella quale non esiste la possibilità di precostituire, con un indirizzo ragionevole della volontà, il corso dei fatti.
Non si giunge sino al cuore della crisi delle ideologie, cioè della crisi del pensiero del futuro, senza tener presente questo limite del pensiero politico tradizionale. Le grandi ideologie hanno sviluppato la capacità di concentrare l’attenzione e l’azione degli uomini sui problemi del miglioramento del proprio stato, ed hanno avuto il merito di condurre i paesi più fortunati sino al livello dello stato di diritto, e delle prime forme rudimentali di libertà e di eguaglianza. Ma non hanno ancora la capacità – e non possono svilupparla senza aggiungere ai loro principi quelli del federalismo – di concentrare l’attenzione e l’azione degli uomini sui problemi del superamento del mondo della guerra, che sono, nella loro connessione, quelli della organizzazione politica del genere umano, dell’affermazione della democrazia a livello internazionale e della trasformazione del sistema degli stati – basato sui rapporti di forza e sulla ineguale distribuzione del potere – in un sistema federale fondato sul diritto e sulla volontà generale dell’umanità. Solo con il federalismo, le cui prime forme esplicite stanno nella filosofia della storia di Kant e nel pensiero costituzionale di Hamilton, il pensiero umano ha cominciato ad analizzare questi problemi, dalla soluzione dei quali dipende ormai la sorte dell’umanità.
 
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Con l’orientamento teorico e pratico descritto in queste pagine, la nostra rivista si propone il compito di lavorare per l’unità mondiale dei federalisti e di costituire a questo scopo un punto di riferimento e di scambio di informazioni. Molte persone si rendono conto della necessità del federalismo. Con il rischio nucleare, e l’incapacità del pensiero tradizionale di scongiurarlo, il numero di queste persone è destinato a crescere. Ma senza unità organizzativa, cioè senza la possibilità di sapere che ciò che si sta facendo nella propria regione del mondo, nel proprio paese o nella propria città, si sta facendo anche in altre parti, paesi o città del mondo, non si può acquistare fiducia nella propria azione, e restare sul campo contribuendo così a fare del federalismo una forza.
Le difficoltà sono molte. Il federalismo come scelta politica prioritaria è un fatto storico nuovo e quindi non è ancora, come il liberalismo, la democrazia e il socialismo, una istituzione del pensiero, cioè un orientamento che si produce e si riproduce spontaneamente. Il federalismo ha come teatro il mondo, e non solo la propria nazione. Il federalismo non ha, come traguardo politico, la conquista del potere nazionale con il mezzo del voto, della violenza o della rappresentanza di interessi corporativi. Ne segue che il federalismo si può affermare solo se può riuscire il tentativo di fare della forza morale, sostenuta dalla ragione e dalla conoscenza, una forza politica. Ma questa debolezza del federalismo è, nel contempo, la sua forza. Proprio perché dipende esclusivamente dalla morale e dalla scienza (ivi compreso il senso comune nei limiti del suo accordo con la scienza) il federalismo è alla portata di tutti, e può sviluppare la sua unità sulla sola base dell’unità che si manifesta spontaneamente nella morale e nella scienza, senza doverla fondare, come le forze politiche tradizionali, sulla spartizione del potere nazionale. E c’è di più. Proprio perché non ha come punto di riferimento un qualsiasi governo nazionale, il federalismo consente di estendere l’unità dell’azione politica sino al mondo intero, e pertanto di costruire, con un massimo di spontaneità, e con il minimo di organizzazione indispensabile per far sì che il lavoro di ciascuno si sommi con quello di tutti gli altri, una avanguardia politica mondiale per il grande compito mondiale della costruzione della pace.
Si può assumere come proprio orientamento politico la marcia dell’umanità verso il governo mondiale. Si può sottoscrivere un accordo con tutti coloro che fanno la stessa scelta politica. Dunque le condizioni per tentare esistono. Dunque bisogna tentare.
 
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