IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LV, 2013, Numero 1, Pagina 3

 

 

Non c’è più tempo da perdere
 
 
"Quel che non va in Europa è chiaro come la luce del giorno... Se si vuole una moneta comune, occorre un’unione bancaria; il che significa dotarsi di un meccanismo europeo di supervisione bancaria, di garanzie di deposito e di un sistema di governo delle crisi. Ma a sua volta tutto ciò implica tasse e politiche fiscali comuni… Per ovvie ragioni tutte queste cose possono essere governate solo da istituzioni legittimate democraticamente di fronte ai cittadini, non solo nel momento in cui avvengono le elezioni, ma in ogni momento del processo decisionale ed esecutivo". Così scrive Jose Ignacio Torreblanca, in uno dei tanti commenti sulla crisi dell’euro che mettono in evidenza la necessità ineludibile di completare l’unione monetaria con l’unione politica (Europe's misgovernment, European Council on Foreign Relations, www.ecfr.eu, 5 aprile 2013). Ed è questa la semplice verità con la quale i responsabili dei governi nazionali e delle istituzioni europee, i parlamentari europei e quelli nazionali, i partiti politici e le forze rappresentative degli interessi di categoria e della società, le stesse opinioni pubbliche, devono fare i conti.
Finché ciò non accadrà, nella maggior parte dei paesi, a partire da quelli più in difficoltà, inevitabilmente la disoccupazione aumenterà e la capacità produttiva di beni e servizi diminuirà; le tensioni sociali cresceranno, mentre il populismo guadagnerà terreno ovunque; e lo spettro dell’aggravamento della crisi del debito sovrano continuerà ad incombere sul futuro dell’eurozona. Questo pericolo del resto è una minaccia anche per la stabilità di quei paesi, come la Gran Bretagna, che non hanno adottato l’euro, e che, non a caso, vogliono ritagliarsi un ruolo nel riordino degli assetti europei. Il primo Ministro britannico David Cameron ha ricordato più volte ai paesi dell’eurozona che sono necessari cambiamenti dei trattati per far sopravvivere l’euro. È in questa ottica che il Regno Unito ha posto il problema della ridefinizione dei rapporti tra le diverse categorie di paesi che fanno parte dell'Unione europea: i cosiddetti ins, quelli pre-ins e gli outs rispetto all'Unione economica e monetaria. “I have a plan”, ha ammonito Cameron: un piano britannico per rinegoziare i trattati, il ritorno a livello nazionale di alcune competenze europee, la riduzione dei contributi finanziari nazionali, la salvaguardia dei vantaggi del mercato unico per tutti i paesi membri di un’Unione europea rinnovata. E per sottoporre a referendum i risultati di questi negoziati.
All’inizio del 2013 il Presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy aveva cercato di disinnescare questa minaccia dichiarando che un referendum nazionale britannico sull’Europa avrebbe senso solo se ci fossero modifiche dei trattati: “Se possiamo risolvere i problemi con gli attuali trattati, sarà interessante vedere cosa farà il governo britannico. La domanda infatti sarà: un referendum su cosa?” (Financial Times, 1 marzo 2013). Ma delle modifiche ci sono già state. E nel frattempo anche la Germania, tramite il Ministro Schäuble, ha avanzato la richiesta di includere alcuni aspetti dei meccanismi di supervisione e controllo dell’unione bancaria nell’eventuale riforma dei trattati.
Da parte loro, come intendono rispondere a questa sfida i governi ed i parlamentari nazionali ed europei dell’eurozona? Sapranno e vorranno portare a compimento il piano politico che era, e resta, alla base della creazione della moneta unica? Fino a poche settimane fa, solo la cancelliera Merkel, tra i leader di governo, aveva saputo richiamare la necessità di sciogliere il nodo dell’unione politica per completare l’unione monetaria, ma senza trovare interlocutori che la mettessero alla prova e senza indicare un percorso per realizzarla. Recentemente questa sfida è stata raccolta prima dal nuovo presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, alle prese con una crisi nazionale il cui esito è ormai indissolubilmente legato alla soluzione di quella europea. Il presidente Letta, infatti, ha ricordato nei suoi discorsi di fronte al Parlamento italiano e nei colloqui con la cancelliera Angela Merkel, il presidente François Hollande ed i responsabili delle istituzioni europee, l’esigenza di uno sbocco federale per l’Unione economica e monetaria. E poi dal presidente Hollande, che nella conferenza stampa del 16 maggio all’Eliseo, ha, per la prima volta, affermato che “L'idée européenne exige le mouvement. Si l'Europe n'avance pas, elle tombe ou plutôt elle s'efface ; elle s'efface de la carte du monde, elle s'efface même de l'imaginaire des peuples. Il est donc plus que temps de porter cette nouvelle ambition. L'Allemagne, plusieurs fois, a dit qu'elle était prête à une Union politique, à une nouvelle étape d'intégration. La France est également disposée à donner un contenu à cette Union politique. Deux ans pour y parvenir. Deux ans, quels que soient les gouvernements qui seront en place. Ce n'est plus une affaire de sensibilité politique, c'est une affaire d'urgence européenne”.
I governi dei due paesi chiave dell’Unione europea e quello italiano, che sin dagli inizi ha avuto un ruolo decisivo per rendere possibile i passaggi cruciali del processo di unificazione, sembrano quindi finalmente convergere sul punto cruciale, che già il cancelliere tedesco Helmut Kohl richiamava nel suo discorso al Bundestag nel dicembre del 1991 all’indomani del vertice di Maastricht: "Non lo diremo mai abbastanza spesso. L’unione politica è l’indispensabile controparte all’unione economica e monetaria. La storia recente, e non solo quella tedesca, ci insegna quanto sia fallace pensare di poter mantenere permanentemente un’unione economica e monetaria senza unione politica”. Aver soffocato, subito dopo l’avvio dell’euro, questa consapevolezza è stato un grave errore da parte della classe politica di tutti i paesi europei. Il risultato è che oggi bisogna far fronte ad una situazione d’emergenza che rischia di portare al collasso un intero sistema di valori, istituzioni, modelli sociali e produttivi su scala continentale. Francia, Italia e Germania non hanno davvero più tempo da perdere. Trovare l’accordo sui passaggi effettivi verso l’unione politica dell’eurozona; concretizzare questo accordo in un patto pre-costituzionale aperto ai paesi euro che vorranno aderirvi; agire all’interno dell’arco temporale che il presidente francese ha il merito di definire con chiarezza e oltre il quale il progetto perde di credibilità: “ce n'est plus une affaire de sensibilité politique, c'est une affaire d'urgence européenne”, come ricorda Hollande. Ed è una responsabilità che in questi tre paesi governi, parlamenti, classi politiche, con il supporto, si spera, delle istituzioni comunitarie, dovranno saper affrontare insieme.
 
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La crisi ha portato allo scoperto il malessere istituzionale, economico e finanziario europeo, che covava da tempo. L'inadeguatezza del quadro europeo era apparsa subito evidente sin dalle prime, incerte risposte date alla crisi greca nel corso del 2010. I governi di Francia e Germania, richiamati dagli USA ad agire in fretta per prevenire il disastro sui mercati finanziari, non avevano gli strumenti per agire: il Trattato di Lisbona non prevede l’eventualità di dover salvare l’euro e l'eurozona, a parte la Banca centrale europea, non dispone né di strumenti per intervenire tempestivamente, né di meccanismi di riequilibrio delle asimmetrie economiche e finanziarie venutesi a creare tra i vari paesi. Il secondo segnale è poi maturato appena un anno dopo, nel 2011, quando anche la tenuta economica e finanziaria della Spagna e dell’Italia hanno incominciato a minacciare l’euro. A quel punto, è diventato indispensabile per i governi e i parlamenti nazionali iniziare a piegare alle proprie esigenze i trattati esistenti, e, addirittura, muoversi al di fuori del loro quadro. Il convincimento che non si sarebbe dovuta più fare per molti anni alcuna riforma istituzionale, maturato dopo il travaglio che aveva portato all’adozione del Trattato di Lisbona, veniva all’improvviso spazzato via. Nell’arco dei due anni successivi è stato portato a termine il processo di modifica dell’articolo 136 del TFUE, ratificato all'unanimità da parte dei ventisette paesi membri dell’Unione europea (compresi Gran Bretagna e Repubblica Ceca), per sancire la legittimità del Meccanismo europeo di stabilità; è stato creato il Fiscal Compact, sottoscritto da 25 Stati, attraverso un trattato internazionale (senza la Gran Bretagna e la Repubblica ceca); è entrato in vigore il Meccanismo europeo di stabilità per i 17 Stati dell’eurozona (dopo la ratifica di soli 12 di loro). E in tutto questo la Gran Bretagna, costretta ad autoescludersi dalle procedure di consolidamento dell’eurozona (che non poteva comunque fermare, perché il salvataggio dell’euro era anche nei suoi interessi), ha colto l’occasione per aver mano libera nel porre all’ordine del giorno del dibattito politico il problema di rifondare l’Unione europea.
Il risultato, indipendentemente dalla volontà dei governi e delle istituzioni nazionali ed europee, è stato la rimessa in moto della dinamica di differenziazione nel processo di unificazione europea. Ossia della logica politica implicita nella creazione di una moneta condivisa solo da un’avanguardia di Stati, e che purtroppo per quasi vent’anni non aveva più funzionato.
Alla fine del 2012 la forza di questa dinamica è stata tale da indurre anche i custodi dell’attuale ordine europeo, cioè i quattro presidenti (della Commissione europea, del Consiglio europeo, dell’Eurogruppo e della BCE), a proporre una road map per realizzare le quattro unioni (bancaria, fiscale, economica e politica, con la creazione di un bilancio ad hoc per l’eurozona). Un piano che nella sostanza indica le tappe da realizzare per trasformare, seppure in tempi ancora troppo lunghi (entro il 2018), l’Unione economica e monetaria in un’unione federale e che costituisce un quadro all’interno del quale sarebbe possibile muoversi per far avanzare rapidamente la costruzione dell’Europa federale.
Ma è bastato un allentamento della morsa della speculazione finanziaria perché la road map venisse ridotta all’attuazione nel breve della sola unione bancaria. La colpa di tutto ciò non è stata solo dei governi. Dietro alle esitazioni di questi ultimi ci sono state infatti le reticenze e le resistenze dei parlamentari nazionali ed europei e delle rispettive famiglie politiche ad abbandonare sia il quadro europeo attuale, sia quello nazionale. E la disillusione dell’opinione pubblica nei confronti delle possibilità di risolvere i problemi sia con l’Europa attuale, sia con gli strumenti nazionali.
Per rompere il circolo vizioso che imprigiona i nostri paesi – costretti all’austerità sul piano economico e sociale e piegati dall’assenza di prospettive di sviluppo e dall’approfondirsi della crisi della politica – occorre invece riaffermare, anziché sminuire o addirittura negare, la stretta relazione che c’è tra l’esigenza di realizzare il progetto di unione politica europea e quella di creare al più presto lo strumento indispensabile per promuovere qualsiasi politica economica legata ad una moneta. Questo strumento è un bilancio autonomo per l’eurozona, basato su risorse fiscali proprie – a partire dalla tassa sulle transazioni finanziarie e della carbon tax. Un bilancio che sia controllato e governato democraticamente dai rappresentanti dei cittadini degli Stati che hanno adottato o adotteranno l'euro, in un quadro federale bicamerale. Sarà su questo terreno che si giocherà nel breve periodo il futuro dell’euro e dell’Europa.
 
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La grande sfida di fronte alla quale si trovano oggi gli europei è ben chiara anche al resto del mondo. Essa è ben riassunta anche in alcuni passaggi di un memorandum inviato al presidente Obama da un gruppo di esperti della Brookings. Il paragrafo sull’euro, significativamente intitolato Eurozoned Out, fa parte della sezione Black Swans, cioè di quegli eventi così drammaticamente negativi che, dovrebbero ad ogni costo essere prevenuti dal governo americano (Big Bets – Black Swans, Recommendations for President Obama’s Second Term, Brookings, gennaio 2013): “La questione se i leader europei vogliono mantenere l’euro è risolta. Ma ora essi si trovano di fronte a due sfide. La prima riguarda i rischi politici ed economici collegati alla crisi e che tuttora minacciano la sopravvivenza dell’euro. Ci vorrà infatti del tempo per costruire una nuova eurozona. E durante questo periodo la maggior parte dei paesi si troverà in una situazione di recessione o stagnazione economica. In questa fase gli Stati membri dell’Unione europea potrebbero trovarsi in forte disaccordo sul che fare. Le elezioni nazionali si giocheranno su questi temi e potrebbero portare al potere forze fortemente contrarie all’Europa. Il risultato sarebbe una profonda crisi politica ed una disgregazione, anche se non voluta, dell’eurozona, a cui farebbe seguito un suo disordinato collasso”.
Si tratta di un rischio concreto. L’incerta situazione italiana e la crescente divaricazione economica tra Francia e Germania, rischiano di far implodere l’Unione economica e monetaria, di far deragliare il progetto politico europeo e di gettare nel caos i paesi più deboli. In un quadro confederale è impossibile mantenere un’unione economica e monetaria. Nell’eurozona non esistono meccanismi di redistribuzione e di bilanciamento, né fiscale, né sociale a livello sovranazionale per compensare le asimmetrie che, anziché ridursi, sono aumentate da quando è stata adottata la moneta unica. Asimmetrie che si stanno traducendo in pericolose divergenze. Negli ultimi anni il valore aggiunto prodotto dall’industria manifatturiera tedesca sul totale nazionale è raddoppiato rispetto a quello francese; la bilancia commerciale tedesca ha registrato un attivo superiore a quello di tutti gli altri paesi dell’eurozona messi insieme (nel 2012 è stato di poco superiore a quello della Cina; mentre quello della Francia è stato addirittura negativo). E intanto un paese del peso economico e demografico come l’Italia, con un enorme debito pubblico e una incerta situazione politica, è diventato una mina vagante per il resto d’Europa.
Spetta alla politica riorientare in senso positivo le aspettative delle opinioni pubbliche, aprendo una nuova fase nella costruzione europea nella prospettiva di risolvere la crisi dell’eurozona creando un nuovo quadro istituzionale e promuovendo il trasferimento a livello europeo della sovranità nazionale in campo fiscale, bancario, economico e politico. Per questo è essenziale che in Francia e Germania si manifesti e materializzi al più presto la volontà da un lato di ridurre gli squilibri strutturali che si sono venuti a creare fra questi due paesi a causa di politiche industriali, economiche e fiscali nazionali sempre più incompatibili con l’obiettivo di integrarsi tra loro; e, dall’altro lato, di rilanciare insieme la road map delle quattro unioni per realizzare l’unione federale. Da parte sua l’Italia, per aiutare lo sviluppo di questo processo e giocare un ruolo positivo nel rilancio politico della costruzione europea, deve dimostrare nei fatti di volere e poter stare in Europa, attuando al più presto quelle riforme che tutti sanno ormai essere indispensabili per non far crollare, sotto il peso del costo del debito, oltre che del disordine sociale e politico, il suo sistema istituzionale, economico, finanziario e giudiziario. È nel contesto di una ritrovata convergenza di intenti e di politiche tra i principali attori del processo di unificazione europea, che si può ancora percorrere la sola via rimasta per realizzare l’unione: quella della sottoscrizione di un “patto pre-costituzionale” da parte dei paesi dell’eurozona, che contenga l’impegno di passare da un governo provvisorio ed intergovernativo, ad un governo democratico e federale della moneta, della fiscalità e dell’economia dell’eurozona; e, parallelamente, la convocazione in tempi brevi di una Convenzione costituente europea con il mandato di elaborare la costituzione dell’unione federale e di stabilire le norme transitorie per regolare le relazioni ed il passaggio tra vecchie e nuove istituzioni europee.
Perché non fare nulla o rinviare ancora, significherebbe lasciare il campo a chi lavora per la disgregazione dell’Europa.
Per questo tutti coloro ai quali sta a cuore il futuro del proprio paese e dell’Europa, devono impegnarsi a promuovere nell’ambito della classe politica, delle istituzioni e dell'opinione pubblica il senso dell'urgenza e della responsabilità storica e politica di realizzare subito la federazione europea nel quadro e con gli strumenti richiesti dall’attuale momento storico e politico. Non c’è più tempo da perdere.
 

 

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