Anno LIV, 2012, Numero 3, Pagina 107
Le “Quattro unioni” e l’obiettivo dell’unione federale
Negli ultimi mesi i governi, in particolare quello tedesco, e le istituzioni europee hanno impresso al dibattito sulla definizione delle misure necessarie per completare l’Unione monetaria un’accelerazione straordinaria, che non ha precedenti nel processo di integrazione europea. Anche se l’ultimo Consiglio europeo (quello del 13-14 dicembre) è stato di fatto molto deludente — essendosi limitato ad alcune decisioni, benché importanti e non scontate, relative all’avvio dell’unione bancaria e avendo rimandato il confronto sulle questioni più spinose relative all’unione economica e politica — la strada è ormai tracciata. Le tensioni e le differenze che ancora dividono i membri dell’UEM, e che sono all’origine del rinvio, nascono proprio dalle difficoltà che sorgono dinnanzi all’ineludibile cammino da percorrere per salvare definitivamente l’euro e il progetto europeo: ossia, quello di traghettare l’Unione europea dalla confederazione alla federazione, ben oltre la cessione di sovranità già in parte avvenuta. Questo passaggio ha profonde implicazioni: l’istituzione di un potere europeo indipendente e legittimato direttamente dai cittadini; la creazione di un nuovo quadro politico sovranazionale che sottrae l’esclusività dell’agire politico e della formazione del consenso a quello nazionale; l’istituzionalizzazione della solidarietà all’interno dell’area dell’euro; la presenza e l’azione nel mondo come entità unica europea, che va a sostituire i vari Stati; la riformulazione dei rapporti con i paesi che non partecipano all’Unione monetaria ma solo al mercato unico. Tutti questi obiettivi sono ormai sul tappeto, racchiusi nella formula delle “quattro unioni” (bancaria, fiscale, economica e politica) per il completamento dell’unione monetaria, e si ritrovano nel blueprint della Commissione reso pubblico a fine novembre, nel rapporto dei Quattro presidenti redatto da Van Rompuy alla vigilia del Consiglio di dicembre, nel confronto tra governi e persino, anche se timidamente, nella mozione approvata il 20 novembre scorso del Parlamento europeo, arrivato buon ultimo a prendere atto della realtà.
E’ inevitabile che di fronte al passaggio rivoluzionario che li attende, i governi cerchino di temporeggiare, si scontrino tra di loro, temano la portata stessa delle decisioni cui sono chiamati. Ovviamente sono ancora molti i pericoli che possono portare al fallimento dell’intero progetto: il fattore tempo, innanzitutto, che presenta una finestra molto stretta, racchiusa tra il continuo peggioramento della crisi economica e gli effetti che ne conseguono per un’opinione pubblica stremata, con l’aggravante del divario — tuttora crescente — tra la percezione che ne deriva nei paesi del Nord e in quelli del Sud Europa. Ma non solo: rimane altissimo il rischio che non si riescano ad appianare le differenze tra i paesi membri, differenze che nascono da interessi nazionali coltivati irragionevolmente, ma non per questo meno forti. La stessa Commissione (senza nulla togliere al salto qualitativo, in termini di capacità politica, che ha saputo compiere negli ultimi mesi), è spesso in difficoltà, perché è istituzionalmente e storicamente subordinata ai governi e ora è chiamata ad assumersi responsabilità (farsi paladino di un’integrazione differenziata all’interno dell’UE e di un cambio dei Trattati) che tradizionalmente non le competono. E c’è soprattutto la mancanza di un solido movimento culturale e di opinione che solleciti e sostenga il salto di paradigma politico dagli Stati alla Federazione europea, esplicitandolo in termini di progresso e di avanzamento di civiltà. Sono soprattutto i partiti che, nei fatti, indeboliscono la spinta politica, bloccati dall’inerzia dell’arretratezza culturale che da sempre li caratterizza per quanto riguarda l’Europa e il superamento del quadro politico nazionale; arretratezza che, in più, hanno coltivato irresponsabilmente negli ultimi quindici anni, cedendo, invece che reagendo, alle sirene dello svilimento del ruolo della politica e dello Stato che ha accompagnato l’avvio della globalizzazione e che, nell’Unione europea, ha portato, prima dello scoppio della crisi finanziaria globale, all’abbandono del progetto dell’unità politica.
Eppure, nonostante queste immense difficoltà che ancora ostacolano il cammino e che mettono a repentaglio la possibilità del successo, è importante innanzitutto registrare che nell’arco di due anni si è passati dalla visione di un’Unione europea appiattita sull’obiettivo del completamento del mercato unico e di un’Unione monetaria basata sull’indipendenza delle politiche economiche degli Stati membri, nonché fondata sulla clausola di no-bail out, alla consapevolezza della necessità dell’unione economica e politica, che include anche la solidarietà, e alla conseguente inevitabilità di un’Europa “a più cerchi” dal punto di vista istituzionale. Ormai questi punti sono acquisiti, e rappresentano una svolta da cui non si può più tornare indietro — fatta sempre salva la possibilità dell’implosione della moneta unica. Si discute di come riformulare la presenza della Gran Bretagna nell’UE, ma nessuno, nemmeno gli stessi britannici, crede più che Londra possa avere un peso determinante nelle dinamiche dello sviluppo istituzionale e di governo dell’Unione monetaria; si fatica ad accettare la cessione di sovranità, e soprattutto la creazione di una nuova sovranità a livello europeo, ma nessuno pensa che ci siano reali alternative a questa scelta. La svolta è stata registrata persino dai mercati, che sono tornati a dare una certa fiducia all’eurozona, e dagli osservatori internazionali. Colpisce che nel rapporto Global Trends 2030 del National Intelligence Council l’Europa, scomparsa nell’analisi dell’edizione precedente che prefigurava gli scenari al 2025, perché considerata (en passant) ormai un continente alla deriva, condannato al declino dalla sua divisione, venga ora esaminata sotto una nuova luce che tiene conto della possibilità che gli europei, come reazione alla crisi dell’euro, compiano il salto verso l’unità politica e possano quindi diventare un polo importante negli equilibri di potere globali dei prossimi decenni.
L’altro elemento cruciale è che il fronte delle forze schierate a favore dello sbocco federale nel quadro dell’Unione monetaria si è progressivamente allargato e consolidato. Inizialmente sono stati i soli governi a farsi carico, oltre che della risposta agli attacchi all’euro e della creazione dei relativi strumenti finanziari, della responsabilità di ripensare l’UEM, ponendo il problema della limitazione di sovranità dei paesi membri e del rafforzamento dei meccanismi di governance, insieme a quello della necessità di distinguerla come quadro rispetto alla più vasta Unione. In questa ottica sono stati varati il Fiscal Compact, firmato senza la Gran Bretagna, e il Meccanismo europeo di stabilità. E sempre in questo contesto è maturato il confronto tra una visione di tipo federale della Germania e una intergovernativa sostenuta dalla Francia; confronto alimentato, e reso più confuso, anche dalle diverse impostazioni politiche tipiche dei due paesi (la visione ordoliberale di Berlino, condivisa dai paesi del Nord Europa, contrapposta a quella più favorevole ad un incremento della spesa dei bilanci nazionali per investimenti, caratteristica del Sud Europa). Sotto il profilo istituzionale la contesa si è concretizzata innanzitutto attorno al futuro del Parlamento europeo, alla possibilità che diventasse l’organo di controllo democratico nel quadro dell’eurozona (in un’ottica federale, di avvio della trasformazione delle istituzioni comunitarie in istituzioni politiche), oppure che in quell’ambito dovesse essere sostituito da un parlamento di secondo livello, espressione diretta non dei cittadini, ma dei parlamenti nazionali (nella visione intergovernativa, che vedeva nel rafforzamento del ruolo esecutivo del Consiglio l’ulteriore passaggio istituzionale). Nel primo caso, anche se non veniva esplicitato, il problema era quello di trovare le modalità per far funzionare il Parlamento europeo in composizione ristretta quando agiva nel quadro dell’eurozona.
Queste posizioni antitetiche si sono potute sbloccare grazie alla discesa in campo delle altre istituzioni europee. La prima è stata la BCE che, pur rimanendo nel perimetro delle sue competenze statutarie, ha voluto dimostrare di potersi comportare come l’autorità bancaria di una federazione in fieri. La decisione di intervenire sul mercato secondario delle obbligazioni in misura illimitata (seppur condizionata alla sottoscrizione di impegni ad hoc da parte dei governi che chiederanno un aiuto in collegamento con il Meccanismo europeo di stabilità) ha avuto un duplice significato: sul piano tecnico ha dimostrato che l’eurozona è in grado di opporre alla speculazione finanziaria opportuni strumenti di difesa; su quello politico ha comportato la sconfitta dell’ala tedesca ordoliberale più intransigente, e quindi, di fatto, un sostegno implicito alla linea del governo Merkel e alla sua ferma volontà di procedere il più rapidamente possibile verso forme di integrazione politica dell’eurozona. Ma ha anche confermato che solo lo sbocco federale, e non quello intergovernativo sostenuto dalla Francia, è compatibile, sul piano dell’efficacia politica e della legittimità democratica, con strumenti europei che sottraggono agli Stati membri prerogative di governo economico decisive e nello stesso tempo rafforzano e ampliano i meccanismi di solidarietà reciproca.
Quasi parallelamente hanno iniziato a prendere posizione la Commissione europea (in particolare il presidente Barroso a partire dal suo discorso al Parlamento europeo sullo stato dell’Unione del 12 settembre) e il presidente del Consiglio Van Rompuy, in rappresentanza del gruppo di riflessione dei “Quattro presidenti”. Nel solco del quadro tracciato dai governi, accettando di concentrarsi sul completamento dell’Unione monetaria, e non cercando più di riportare il problema nel quadro a ventisette, hanno sostanzialmente indicato la road map delle riforme necessarie e dei nodi politici da sciogliere per salvare l’euro e il progetto europeo, rafforzando in modo decisivo il fronte federale rispetto a quello intergovernativo. E’ un fatto che da settembre ad oggi le proposte più avanzate sono venute dal blueprint della Commissione e dai rapporti di Van Rompuy. E’ loro la formula delle quattro unioni, che, al di là persino dell’intenzione degli estensori dei rapporti, dimostra come anche i passaggi apparentemente più tecnici, come l’unione bancaria, siano in realtà realizzabili solo se si apre la prospettiva dell’unione economica e politica; e sono sempre loro a porre il problema decisivo della creazione di un bilancio separato dell’eurozona e a sollevare il problema di legittimità democratica che ne deriva e che richiede soluzioni politiche sostanziali.
In questo modo, il salto di qualità delle istituzioni europee, passate dall’ottica comunitaria che portava a rifiutare l’ipotesi di riforme istituzionali fuori dal quadro a ventisette e a sostenere la distribuzione confederale dei poteri in seno all’UE, a quella sostanzialmente federale (si veda in particolare a questo proposito l’analisi, oltre che le proposte, contenute nella comunicazione della Commissione europea A blueprint for a deep and genuine economic and monetary union del 28 novembre scorso) ha, di fatto, privato di ogni credibilità la linea puramente intergovernativa. In particolare, la questione decisiva del ruolo del Parlamento europeo rispetto al quadro più unito e coeso che si va a formare nell’UE intorno all’Unione monetaria, sembra ormai tranciata: l’idea di un parlamento ad hoc di secondo livello è sostanzialmente sparita e la proposta di cui si parla è ormai quella di come pensare di organizzare la differenziazione delle funzioni (e, anche se non nell’immediato, dei poteri) dei parlamentari dell’eurozona, rispetto a quelli dei paesi non euro, nel momento in cui si pone il problema del controllo degli strumenti finanziari, economici, e in prospettiva politici, necessari per completare l’unione monetaria. Il salto di qualità è naturalmente legato alla questione della creazione di un budget autonomo dell’eurozona e del suo controllo, che non può essere operato anche da parlamentari di paesi che non contribuiscono al bilancio. Si tratta di una questione molto tecnica ancora da approfondire (il dibattito su questo punto è appena iniziato anche all’interno del Parlamento europeo), ma che, dato che va a creare un nuovo circuito di potere e controllo democratico, non può prescindere da una profonda riforma dei trattati, e quindi da un vasto dibattito di tipo costituente.
Sul punto dirimente della creazione di un budget dell’eurozona le tensioni sono, comunque, ancora forti, in particolare tra Francia e Germania, che sembrano non trovare l’accordo sull’ordine di grandezza della sua dotazione e sui compiti che deve essere chiamato ad assolvere. Sono stati probabilmente proprio questi problemi la causa principale delle non-decisioni prese al Consiglio del 13-14 dicembre. E’ evidente che attorno a questo nodo si concentrano le tensioni che derivano dalle differenti impostazioni politiche ed economiche dei due paesi, dato che la posta in gioco è molto impegnativa (di fatto poteri cruciali che implicano un vero e proprio trasferimento di sovranità). Pertanto, il primo problema che deve essere affrontato dalle forze che sostengono l’opzione federale per l’eurozona è quello di cercare di costruire un terreno di incontro tra Parigi e Berlino su questo punto. E’ evidente che finché continuano a contrapporsi l’interesse tedesco, giustamente concentrato sulla necessità di creare le condizioni per una disciplina rigorosa di bilancio dei partner, e l’opzione francese fondata sulla preoccupazione di promuovere la crescita con investimenti nazionali, un accordo sarà impossibile, o si potrà trovare solo in base a compromessi sbagliati. Il problema è proprio quello di sbloccare questa contrapposizione dimostrando che il rigore dei conti nazionali si può coniugare con la crescita nella misura in cui si crea un bilancio europeo adeguato e alimentato da risorse proprie sufficienti a promuovere a livello continentale gli investimenti strategici e ad attuare un piano di sviluppo sostenibile. La necessità di politiche per la crescita in Europa è un dato di fatto. Così come lo è l’esigenza di armonizzare le pratiche di governo dei paesi dell’euro; quest’ultima non investe solo i dati relativi al debito e al deficit, ma riguarda in pari modo (come non si stanca di ripetere la Merkel) la maturità politica dei diversi paesi: il livello di efficienza e trasparenza dell’amministrazione pubblica, la modernizzazione del paese, la corretta allocazione delle risorse pubbliche per non alimentare sacche parassitarie e fornire invece servizi sociali adeguati e accrescere la produttività del paese, ecc.. Si tratta di cambiamenti cui sono chiamati molti Stati europei, che però possono essere incentivati solo dal rafforzamento del quadro economico e politico europeo, indispensabile per sostenere lo sforzo della parte più sana delle società nazionali. Sperare, come era stato con Maastricht, che questo tipo di convergenza sostanziale possa essere affidato solo a regole e controlli, lasciando però i poteri esclusivi di governo al livello nazionale, è utopistico, come la storia di questi ultimi quindici anni dimostra. Ecco perché il passaggio ad una vera unione economica e politica è dirimente. E la dimensione del budget dell’eurozona deve essere pensata in questa ottica. E’ infatti palese che il bilancio dell’Unione a ventisette non ha la possibilità di evolvere in questa direzione, perché solo una forte volontà comune, derivata da una sostanziale convergenza di interessi come quella che esiste ormai all’interno dell’area euro, può permettere di trovare il consenso su un’innovazione così radicale, che sposta dagli Stati all’Europa il quadro delle politiche per lo sviluppo. Solo nell’ambito dell’eurozona si può affrontare questa sfida, ma a sua volta questa diventa credibile solo se si accompagna al dibattito sulle riforme istituzionali necessarie e se non si rimanda la possibilità di aprire l’iter per la revisione dei trattati a tempi indefiniti.
Sotto questo profilo il Parlamento europeo avrebbe un ruolo chiave da giocare: se la richiesta della convocazione di una Convenzione costituente che il PE inizia a sollevare si accompagnasse con la precisazione di un progetto concreto di federazione dell’eurozona, proprio partendo dalla questione del bilancio, delle risorse proprie e del controllo democratico, potrebbe innescare un dibattito politico capace di sbloccare la situazione. Per i parlamentari dell’eurozona si tratta di abbandonare le titubanze e di liberarsi dei lacci dell’inerzia di una prassi a ventisette che ormai non produce più alcun risultato; e di avviare, innanzitutto in seno alle proprie famiglie politiche, un dibattito concreto e coraggioso, eliminando la retorica che in questo momento cerca di coprire il vuoto di idee e di proposte e portando al centro del confronto politico la battaglia seria per gli Stati Uniti d’Europa. Se avessero questa capacità e questa forza, i parlamentari europei potrebbero davvero trasformare le elezioni del 2014 in un passaggio costituente, senza il quale la perdita di credibilità dell’istituzione rischia di essere definitiva; e non è certo la proposta di indicare i nomi dei candidati presidenti della Commissione delle diverse forze politiche che potrà sopperire a questa mancanza: per quanto sia giusto che la scelta del presidente della Commissione avvenga sulla base di una dinamica elettorale, nulla può nascondere la sostanza del problema, che ruota intorno agli effettivi poteri di governo della Commissione e soprattutto alla sua nomina da parte del Parlamento e non dei Capi di Stato e di governo.
Coniugare la questione del bilancio dell’eurozona con una visione di ampio respiro e con l’avvio della preparazione dell’unione economica e politica è quindi il nodo che decreta la possibilità di far avanzare davvero l’unione monetaria verso l’indispensabile realizzazione delle quattro unioni. Proprio per questo il limite più grave delle proposte avanzate dalla Commissione riguarda i tempi che vengono prefigurati per l’unione politica, il cui avvio viene posposto oltre i prossimi cinque anni. Ancora una volta, l’intera costruzione delle quattro unioni regge solo se procedono parallelamente; il fatto di proporre di iniziare con gli avanzamenti compatibili con gli attuali trattati, per cercare di superare l’ostacolo della mancanza di consenso sulle questioni più pesanti che vedono ancora divisi i governi, non deve fuorviare e far dimenticare che questi primi passi sono credibili, come già si diceva, solo in presenza di una forte volontà politica. Per questo è così importante che il fronte delle forze schierate si allarghi ulteriormente e che i parlamentari europei e le forze politiche, anche quelle nazionali, entrino in gioco per sbloccare lo stallo. Commissione e Consiglio hanno, per certi aspetti, esaurito la loro spinta propulsiva in questo momento, avendo già fatto la loro parte: è indispensabile che entrino in campo forze molto più ampie, in grado di mobilitare l’opinione pubblica e di creare consenso.
Un’ultima osservazione che riguarda l’Italia. Il nostro paese si appresta ad entrare nel vivo della campagna elettorale e si prepara alla nascita di un nuovo governo. E’ già evidente che gran parte del confronto ruoterà intorno alla questione dell’appartenenza del nostro paese all’eurozona e all’Unione europea. E’ indispensabile, pertanto, che questo dibattito, da parte delle forze favorevoli all’Europa, si riempia di contenuti concreti e si pronunci esplicitamente sulla necessità di costruire la Federazione europea a partire dall’eurozona, che sottolinei la necessità di creare le condizioni per poter lanciare a livello europeo un piano per la crescita e lo sviluppo sostenibile, e che quindi già ponga la questione del budget autonomo per l’eurozona, quella del funzionamento del Parlamento europeo in composizione ristretta, quella della necessità di convocare in tempi rapidi una Convenzione costituente. In questo modo, il governo che andrà a formarsi avrà il mandato di sostenere queste posizioni nelle istituzioni europee, ed in particolare potrà avere nuovamente quella funzione federalista in grado di far convergere Francia e Germania verso la soluzione più avanzata per l’Europa; e le stesse forze politiche potranno giocare un ruolo cruciale all’interno del Parlamento europeo per sollecitare i membri dell’eurozona ad assumersi le proprie responsabilità. Si tratta di un buon terreno di prova, sia per la possibilità di creare un vero dibattito sulla nascita della Federazione europea e di suscitare il consenso dei cittadini, coinvolgendoli nel confronto; sia per il nostro paese di lasciarsi alle spalle una stagione di pessima politica e di ritornare in modo costruttivo al centro della scena europea.
Il Federalista