Anno XXXVII, 1995, Numero 1, Pagina 3
La Turchia e l’Europa
La Comunità europea, che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht ha assunto il nome di Unione europea, è un’entità politica incompiuta. La sua vocazione è federale, ma essa non l’ha ancora realizzata. Essa ha quindi una fisionomia ambigua, e ambigua è la percezione che se ne ha sia al suo interno che al di fuori dei suoi confini. L’Unione europea è vista in certi contesti come un grande attore sulla scena politica ed economica mondiale, in altri come poco più di una finzione giuridica che copre una realtà fatta di divergenze di interessi e di incapacità di decidere. E la stessa ambiguità si riscontra nell’influenza che essa esercita sugli Stati che le sono geograficamente più vicini, nella maggior parte dei quali la democrazia sta faticosamente nascendo ed è comunque fragile e immatura. Nei loro riguardi l’attrazione esercitata dall’Unione europea è abbastanza forte per porre il problema di un radicale rinnovamento politico, economico e sociale, ma non abbastanza per risolverlo. La sola esistenza, ai loro confini, dell’Unione sprigiona al loro interno spinte al cambiamento che l’incapacità di decidere delle sue istituzioni, e l’incertezza che grava sul suo futuro, non le consentono di sostenere e di incoraggiare fino a farle definitivamente prevalere sulle forze dell’autoritarismo e della conservazione.
E’ così che la Comunità prima, e l’Unione poi, hanno sempre avuto una sorta di politica estera virtuale, fatta di progetti non realizzati e di aspettative non soddisfatte. Questa constatazione evidentemente non può cancellare il dato di fatto che in questo dopoguerra il processo di integrazione europea ha avuto una dinamica espansiva che ha coinvolto un numero crescente di paesi garantendo loro quasi mezzo secolo di pace e di crescita economica. Ma oggi l’Unione è posta di fronte ad una serie di scelte e costretta ad assumere responsabilità che la debolezza del suo assetto istituzionale — rimasto sostanzialmente intergovernativo — non le consente di affrontare. La contraddizione — peraltro sempre esistita — tra la politica che l’Unione dovrebbe fare e quella che essa fa realmente diventa quindi sempre più manifesta, fino ad assumere, in alcuni casi, i connotati della drammaticità. Ciò accade nell’ex-Jugoslavia, nei rapporti dell’Unione con i paesi del Medio Oriente e del Maghreb e in quelli con i suoi partners nella Convenzione di Lomé.
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E’ importante prendere in considerazione, in questa prospettiva, il caso della Turchia, un paese con il quale l’Unione europea non può non avere rapporti di integrazione sempre più stretta, ma la cui vocazione europea rimane ambigua e conflittuale proprio a causa dell’evanescenza della politica dell’Unione. Il problema dei rapporti tra la Turchia e l’Unione europea è stato recentemente portato all’ordine del giorno dal difficile accordo di unione doganale siglato il 6 marzo, che prevede tra le sue clausole l’inizio — entro sei mesi dalla conclusione della Conferenza intergovernativa per la riforma del Trattato di Maastricht — delle trattative per l’ammissione di Cipro all’Unione europea.
Si tratta di un accordo che potrebbe assumere una portata storica, in quanto avvierebbe a soluzione un problema che in passato ha creato tensioni esplosive e che né gli Stati Uniti né l’ONU hanno saputo risolvere. Esso è ancora fragile, anche perché la politica di repressione condotta dai militari di Ankara nei confronti delle regioni kurde del sudest dell’Anatolia, e più in generale la situazione dei diritti umani in Turchia, sollevano giustificate perplessità in Europa e hanno spinto il Parlamento europeo a sospendere la concessione del proprio parere conforme, indispensabile per la sua entrata in vigore: ma mostra in filigrana quale formidabile strumento per la soluzione dei conflitti potrebbe essere la capacità dell’Unione di integrare nuovi Stati nella sua compagine se soltanto questa disponesse della solidità necessaria per rendere compatibile il proprio allargamento con una effettiva capacità di agire.
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Il problema di Cipro non è che un aspetto di quello più ampio dei rapporti tra la Turchia e la Grecia, due Stati opposti da una storica inimicizia, attenuata oggi dall’appartenenza della prima all’Unione europea e dall’interesse della seconda ad entrarvi, e che domani soltanto la comune appartenenza ad un’unica compagine federale in un quadro europeo potrebbe definitivamente superare. Si tratta di un obiettivo che non è vicino, e verso il quale un’unione doganale tra la Turchia e un’Unione europea che mantiene per ora inalterato il suo assetto istituzionale intergovernativo non rappresenta che un piccolo passo. Ma si tratta di un passo sufficiente per consentire di comprendere che ormai non soltanto l’Europa, ma il mondo nella sua interezza sono entrati in una fase nella quale l’idea stessa di politica estera sta cambiando di natura. Quella che si sta delineando all’orizzonte dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la conseguente incapacità degli Stati Uniti di far fronte con i propri soli mezzi alla responsabilità di garantire un ordine mondiale, per quanto fragile e precario, è la crisi del sistema mondiale degli Stati. Questo comporta che l’obiettivo di una politica estera responsabile, per qualunque governo che si proponga di giocare un ruolo positivo sullo scacchiere mondiale, non è più l’equilibrio tra gli Stati esistenti, ma la loro unificazione in formazioni federali sempre più estese. Da questo punto di vista la Comunità europea, nelle sue varie configurazioni, ha avuto il grande merito storico di creare un’area pacificata ed economicamente integrata che si è estesa, in poco più di quattro decenni, da sei a quindici membri. Ma essa ha avuto anche la grave responsabilità di non aver saputo dare a questo processo di unificazione quel coronamento politico e quell’inquadramento istituzionale che soli ne avrebbero garantito l’irreversibilità: ed ora si trova di fronte a scadenze che, se saranno mancate, potrebbero vanificare il lavoro di due generazioni e far abbattere di nuovo sull’Europa il flagello del nazionalismo, con conseguenze catastrofiche per l’intera umanità. La tragedia jugoslava sta a dimostrare a quali conseguenze porti, anche in Europa, il ritorno ad una politica estera basata sul perseguimento dell’«interesse nazionale».
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L’Europa quindi deve unire sé stessa per unire il mondo. E per questo essa deve nascere all’insegna dell’apertura e della collaborazione con le altre regioni del pianeta, e in primo luogo con quelle che le sono più vicine, guardandosi dal pericolo di assumere un’identità che la metta in conflitto con quella delle altre realtà regionali che stanno prendendo forma ovunque. Da questo punto di vista le contraddizioni di un paese complesso e difficile come la Turchia costituiranno in futuro per l’Unione un banco di prova decisivo.
La Turchia è un paese in bilico tra l’attrazione verso l’Europa e un radicato nazionalismo che si manifesta, oltre che nei rapporti con la Grecia, nella violenza con la quale viene combattuto il secessionismo curdo. Essa ha un regime democratico, che però ha conosciuto in passato parentesi di autoritarismo militare e non riesce tuttora a garantire una misura di rispetto dei diritti umani che consenta ai suoi governanti di presentarsi con le carte in regola di fronte ai loro colleghi dell’Unione. La sua economia sta attraversando una fase di crescita impetuosa, che però viene pagata con gravi squilibri e con un tasso di inflazione che, anche se è in fase di diminuzione, si aggira ancora attorno al 130% in ragione d’anno. Essa è legata dalla comunità di lingua ad alcune repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale e del Caucaso, nei cui confronti potrebbe giocare, grazie a questo atout, un ruolo moderatore e pacificatore; ma nella situazione attuale ciò serve soltanto ad alimentare, in alcuni settori della classe politica turca, tentazioni imperialistiche.
La Turchia si presenta quindi come un paese che le sue caratteristiche politiche, economiche e sociali collocano, come la sua posizione geografica, a cavallo tra l’Europa e l’Asia. Ed essa è soprattutto un paese islamico, con forti tradizioni di laicismo e di tolleranza, ma la cui società, a causa delle contraddizioni generate dalla sua disordinata crescita economica, è stata infettata dal morbo del fondamentalismo.
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Le sorti della Turchia dipenderanno largamente in futuro dalle scelte dell’Europa. Se l’Europa saprà darsi, con la necessaria gradualità, e sulla base di un primo nucleo di dimensione necessariamente ristretta, una struttura federale della quale la Turchia diventi successivamente parte integrante, l’economia turca completerà il suo processo di modernizzazione, le istituzioni democratiche si consolideranno, il problema di Cipro e quello della minoranza curda si risolveranno attraverso la creazione di forme di autogoverno garantite dal vincolo federale europeo e la società turca potrà rafforzare le sue tradizioni laiche o di professione tollerante e aperta della religione islamica. Se l’Europa non si farà, o comunque compenserà la debolezza delle proprie istituzioni con una politica di chiusura verso l’esterno, le contraddizioni della società turca si esaspereranno: il nazionalismo, l’autoritarismo e l’imperialismo prevarranno sull’anima europea e democratica del popolo turco.
Ma anche il futuro dell’Europa dipenderà in misura non irrilevante dalla sua capacità di estendere alla Turchia le istituzioni e la cittadinanza dell’Unione. L’Europa ha un importante ruolo unificante da giocare nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Africa subsahariana. Ed essa ha il compito di aiutare i popoli dell’ex-Unione Sovietica a darsi istituzioni saldamente democratiche e a ricostituire tra di loro vincoli di solidarietà che consentano a questa regione eurasiatica di assumere le responsabilità mondiali che le competono per dare il suo indispensabile contributo all’unificazione dell’umanità. Nell’attuazione di questo compito alla Turchia spetterebbe un decisivo ruolo di ponte. La sua natura di paese islamico consentirebbe al confronto tra l’Europa e i paesi del Medio Oriente e della sponda meridionale del Mediterraneo di superare con facilità le barriere religiose e culturali che potrebbero ostacolare il dialogo tra di essi e renderne problematico l’esito. La comunità di lingua con una parte delle Repubbliche ex-sovietiche farebbe della Turchia il naturale portavoce dell’Europa nei suoi rapporti con esse.
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Il compito più vicino che attende l’Europa è quello di creare all’interno dell’Unione un nucleo federale che le consenta di fare del processo del proprio allargamento un fattore effettivo di unificazione del genere umano e non un fattore di disgregazione del grado di unità sin qui raggiunto. In questo processo la riflessione sull’identità europea deve giocare un ruolo essenziale. Ed essa non può non riguardare, tra le altre cose, i rapporti dell’Europa con il mondo islamico. Per approfondire questa riflessione, un dialogo fermo ma aperto con una realtà importante dal punto di vista geografico, politico, economico e culturale come la Turchia non può essere evitato.
Il Federalista