IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 2, Pagina 89

 

 

Il neofascismo al governo in Italia
 
 
Il federalismo come ideologia e come movimento politico è nato a Ventotene dalla presa di coscienza che il fascismo era stato l’estremo e disperato tentativo dello Stato nazionale, e degli interessi parassitari che ad esso erano legati, di perpetuare, attraverso l’imposizione di un regime totalitario e l’esasperazione del nazionalismo, la propria esistenza contro l’irresistibile tendenza storica alla creazione di spazi di governo democratico sempre più vasti dovuta al continuo aumento dell’interdipendenza tra gli uomini. A questa ideologia rozza e tribale, fondata sull’odio e la discriminazione, il federalismo contrapponeva il disegno storico di sopprimere la guerra e l’oppressione attraverso il superamento della sovranità nazionale e la creazione, in un quadro europeo prima e mondiale poi, della democrazia internazionale.
Il federalismo non è quindi soltanto qualcosa di diverso dal fascismo, ma il suo esatto contrario. Se siamo rigorosamente consapevoli delle radici ideali del nostro impegno politico, non possiamo dichiararci antifascisti e federalisti, ma antifascisti in quanto federalisti. Antifascismo (nel significato pienamente consapevole del termine) e federalismo sono la stessa cosa.
Peraltro se per il federalismo, vissuto con consapevolezza, l’identificazione con l’antifascismo è completa, è anche vero che i valori della Resistenza sono obiettivamente il fondamento ideale sul quale è stata costruita la Repubblica italiana; e che a quei valori si è ispirata quella parte della classe politica che ha saputo mettere e mantenere, anche se non senza debolezze, ritardi e ipocrisie, l’Italia sui binari dell’unificazione europea e della collaborazione atlantica, garantendo così ad un paese che la guerra provocata dal fascismo aveva ridotto ad un ammasso di rovine quasi mezzo secolo di pace, e con la pace la possibilità di crescere nella libertà e nella prosperità.
 
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L’Italia è stata recentemente il teatro di un fenomeno che non ha precedenti nell’Europa di questo dopoguerra: la nascita di un governo nel quale sono presenti membri di un partito neofascista (Alleanza nazionale). Si tratta di un fatto che i federalisti devono analizzare con grande attenzione perché il loro giudizio su questo elemento del quadro politico attuale mette in questione la loro identità, e quindi la loro stessa esistenza.
Alleanza nazionale in verità nega di essere una formazione neofascista. Ma essa ha come sua componente essenziale il Movimento sociale italiano, un partito nato nel dopoguerra su posizioni inequivocabilmente neofasciste, e che non le ha mai abbandonate in seguito, anche se si è sempre diviso in un’ala dura e in un’ala «rispettabile». In vista della sua partecipazione al governo, Alleanza nazionale ha fortemente accentuato il suo aspetto moderato, ed oggi molti dei suoi dirigenti assumono posizioni assai più ragionevoli di quelle di numerosi esponenti delle correnti estreme di molti partiti conservatori europei, che spesso sono al governo nei rispettivi paesi, e ai quali nessuno penserebbe di negare la patente di democraticità.
Vero è che all’interno di Alleanza nazionale è rimasta un’ala che si richiama apertamente al fascismo, e che le dichiarazioni degli stessi leaders del partito sono tutt’altro che prive di ambiguità. Ma si tratta di un’ambiguità che potrebbe essere interpretata come il prezzo che i dirigenti più responsabili sono costretti a pagare per portare il partito nell’alveo di un movimento di destra moderata, che riconosca ed accetti i principi della democrazia e che consenta di creare in Italia una sana alternanza tra uno schieramento conservatore e uno schieramento progressista, come accade nelle democrazie anglosassoni e, anche se in modo imperfetto, nelle altre democrazie dell’Europa occidentale. A ciò si aggiunga che, sulla base di quanto risulta dai sondaggi, soltanto una percentuale trascurabile degli elettori di Alleanza nazionale si dichiara fascista, e che comunque Alleanza nazionale è in minoranza nella coalizione di governo. All’interno di questa, la componente che ha ottenuto il più forte sostegno in termini di voti, «Forza Italia», pur avendo stretto un’alleanza elettorale, oltre che governativa, con Alleanza nazionale, e pur avendo espresso a più riprese, in alcuni suoi settori, inquietanti atteggiamenti populistici e nazionalistici, non ha mai messo formalmente in dubbio la sua fedeltà ai valori della libertà e della democrazia.
 
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Ma l’idea che Alleanza nazionale si possa trasformare, senza cessare di esistere, in una componente di un grande raggruppamento democratico di destra, è assai poco credibile. Tutti i movimenti politici vivono nella continuità, traendo dalla memoria delle proprie origini la forza per perseguire i propri progetti. Essi hanno quindi un invincibile momento di inerzia, che è legato alla natura della scelta in forza della quale sono stati fondati e che condiziona, al di là dei mutamenti prodotti dalla necessità di misurarsi con una realtà che evolve, il modo in cui i loro militanti percepiscono le ragioni del loro impegno comune. Ora, Alleanza nazionale è il punto di arrivo di un’evoluzione che ha nel neofascismo il suo punto di partenza, e non esisterebbe senza quest’ultimo: un neofascismo che non può essere rinnegato senza rinnegare il passato del movimento, e quindi la sua identità, dalla quale dipende la sua stessa esistenza.
Si sente spesso dire in Italia che un atteggiamento di chiusura nei confronti di Alleanza nazionale è un indice di faziosità, perché, sul fronte opposto, i comunisti sono stati legittimati come parte dello schieramento politico democratico pur essendo eredi dello stalinismo. Ora, che il ricordo di Stalin abbia reso difficile il percorso di coloro che si proponevano di riportare il comunismo nell’alveo della democrazia è un dato di fatto. Ed è giusto che così sia stato perché le atrocità dello stalinismo sono state dello stesso ordine di efferatezza di quelle del nazismo, e senz’altro di un ordine di efferatezza incomparabilmente superiore a quelle del fascismo italiano. Resta il fatto che il comunismo ha la sua origine nelle lotte del proletariato per la propria emancipazione in nome degli ideali universali dell’uguaglianza tra gli uomini e della liberazione dal bisogno. Lo stalinismo è stato quindi un tragico episodio degenerativo di un movimento che, nella sua ispirazione originaria, ha dato un apporto essenziale alla cultura politica dell’umanità e al suo processo di emancipazione. Il fascismo invece ha il suo stesso fondamento nei valori negativi dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, dell’odio nazionale e dell’intolleranza. Per questo alcuni partiti ex-comunisti hanno potuto faticosamente rilegittimarsi ritornando ai propri valori originari e rinnegando gli episodi degenerativi che hanno macchiato la loro storia; mentre questa possibilità non è concessa ai movimenti che hanno un’origine fascista. Ed è questa la ragione che rende malsana la tendenza alla polarizzazione della vita politica che si sta manifestando oggi in Italia.
 
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E’ probabile che l’Italia non stia correndo, a breve termine, reali pericoli di involuzione fascista. Ma resta il fatto che il futuro della democrazia italiana dipende dalla solidità del quadro europeo, che è la condizione della capacità dell’economia italiana di tenere, bene o male, il passo con le altre economie avanzate; e che il quadro europeo sarebbe fortemente indebolito se fossero confermate le tendenze nazional-populiste della politica estera ed economica di uno tra i paesi fondatori della Comunità che fino ad oggi hanno più esplicitamente e costantemente sostenuto la sua vocazione federale. In ogni caso la società italiana sta correndo fin da oggi il rischio concreto della banalizzazione del fascismo, cioè della fine dell’antifascismo. E’ inquietante constatare come oggi trovino ascolto in Italia tesi come quella secondo la quale la contrapposizione tra fascismo e antifascismo appartiene ormai alla storia, e che è tempo di fare opera di «riconciliazione nazionale». Attraverso questa formula si tenta di mettere sullo stesso piano la riconciliazione tra gli uomini (che è un problema inesistente, se non altro perché coloro che hanno vissuto personalmente il dramma della caduta del fascismo e della Resistenza sono in età avanzata, o sono morti) e il compromesso tra i valori della libertà e della democrazia e la loro negazione. I valori (e il loro contrario) non muoiono e non invecchiano; né possono essere disgiunti dal giudizio sugli eventi e sui movimenti attraverso i quali si sono storicamente manifestati. Le grandi affermazioni ideali della rivoluzione francese sono diventate per sempre patrimonio del genere umano. Per converso l’identificazione storica del fascismo con la dittatura e la violenza nazionalista non può essere cancellata dal trascorrere dei decenni. Chi pretende oggi di professare i valori della libertà e della democrazia senza insieme ripudiare la loro negazione, così come essa si è concretamente manifestata nella storia, non è credibile perché rimane prigioniero di una insanabile contraddizione.
E’ difficile, nell’Italia di oggi, sottrarsi al profondo disagio che provoca la constatazione che per molti il fascismo è diventato un’idea come le altre, che come le altre ha diritto di cittadinanza nel dibattito politico. Al di là di ogni altra considerazione, il diffondersi di questo atteggiamento è il segno del drammatico aggravamento della crisi della vita politica italiana che ha coinciso con lo stravolgimento del panorama politico dello scorso aprile, nel quale molti hanno voluto vedere l’irruzione del «nuovo».
Un segno grave di questa crisi sta proprio nel fatto che nell’attuale governo italiano si stanno facendo strada posizioni nazionaliste ed antieuropee, anche se fatalmente attenuate e rese ambigue dalla consapevolezza che nessuna politica nazionale può essere portata avanti oggi in Europa senza qualche forma di collaborazione tra gli Stati che fanno parte dell’Unione europea. E se è vero che il nazionalismo è comunque e dovunque un fenomeno regressivo e di chiusura al futuro, esso diventa un segno di profondo malessere civile e di gravissima sordità rispetto ai valori in un paese come l’Italia, dove la guerra contro il fascismo non è stata combattuta, come è accaduto in Gran Bretagna e parzialmente in Francia, come una guerra nazionale, ma dove, al contrario, nazione e fascismo si sono storicamente identificati.
 
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Vero è che il terremoto elettorale di aprile ha avuto cause precise, la più evidente delle quali è stata la reazione dell’opinione pubblica contro la corruzione dei partiti che avevano governato l’Italia nei decenni del dopoguerra. Ma bisogna guardarsi rigorosamente dalla tentazione di confondere la comprensione storica di un fenomeno con la sua giustificazione morale. In politica c’è il tempo di capire e il tempo di giudicare. Non si dimentichi che anche il nazismo ha avuto precise cause storiche, ma il fatto di comprenderle non lo rende meno odioso.
I partiti della prima repubblica hanno in buona parte tradito le loro ideologie con i loro comportamenti concreti, e sono stati corresponsabili della progressiva degenerazione della vita politica italiana (anche se il fenomeno non è stato soltanto italiano, e anche se la sua causa ultima va individuata nell’incapacità dei governi e delle forze politiche europee nel loro insieme di portare il processo di unificazione del continente ad uno sbocco federale). Ma le loro ideologie, che affondano le proprie radici nella grandi lotte civili del diciannovesimo secolo e dei primi anni del ventesimo, per quanto professate con superficialità e ipocrisia, li costringevano, nel dibattito politico, a orientarsi rispetto ai valori, a cercare legittimazione e continuità nel proprio passato storico, a tentare di delineare prospettive di avvenire. Per questo essi, anche se attraverso percorsi di diversa durata, sono arrivati a riconoscersi senza riserve nell’ideale dell’unità europea e ne hanno diffuso l’accettazione alla quasi totalità dell’opinione pubblica. Oggi invece, dopo l’irruzione del «nuovo», il riferimento ai valori, alla storia e al futuro è semplicemente scomparso dalla politica, sostituito da un rozzo e provinciale rigurgito nazionalista e da un pragmatismo che fa soltanto da paravento alla mancanza di idee. L’Italia di oggi è assai peggiore della cattiva Italia di ieri.
 
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Qualcuno ritiene di non poter condannare la presenza del neofascismo al governo in Italia affermando che essa è il risultato dell’espressione democratica della volontà del popolo italiano, che come tale deve essere rispettata. Se con ciò si vuol dire che questo inquietante fenomeno deve essere combattuto con gli strumenti della democrazia, l’argomento è semplicemente scontato. Ma se esso viene usato per legittimare politicamente i neofascisti, esso deve essere respinto. Del resto, se fosse fondato, esso servirebbe a legittimare storicamente gli stessi regimi fascista e nazista, che sono saliti al potere usando gli strumenti della democrazia. La verità è che oggi, in Europa, gli Stati, per richiamare una nota espressione di Einaudi, sono polvere senza sostanza. E polvere senza sostanza sono anche i popoli nazionali. Il popolo italiano non può esprimere nessuna volontà perché ha semplicemente cessato di esistere, in quanto nel quadro italiano non esistono più alternative reali tra le quali fare una scelta.
O meglio, il popolo italiano, come gli altri popoli degli Stati europei, continua ad esistere soltanto come parte del popolo europeo informazione, e soltanto in questa forma esso può esprimere una volontà, recuperare la capacità di perseguire un progetto, riacquistare una autentica consapevolezza storica. Il «nuovo», di cui oggi in Italia si parla tanto, e con tanta superficialità e ipocrisia, emergerà soltanto quando uno schieramento politico si formerà sulla base della presa di coscienza che la svolta dalla quale dipende la salvezza dell’Italia e dell’Europa è quella che consiste proprio nel dare voce al popolo federale europeo che si sta formando, ma che i politici vecchi e nuovi, prigionieri delle contrapposizioni del passato, si ostinano a non vedere.
 
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