IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 250

 

 

I GIOVANI E IL FEDERALISMO*
 
 
I giovani e la politica.
 
Tutti i giovani scelgono, implicitamente o esplicitamente, un orientamento politico, perché è impossibile vivere in una comunità (dalla comunità di quartiere a quella mondiale) senza decidere quale impegno si vuole in essa assumere, per difenderla nella sua integrità oppure per modificarla e migliorarla. Bisogna occuparsi di politica, non foss’altro che per essere sicuri di « coltivare il proprio giardino » in tranquillità.
Ma non si tratta solo di questo. Vi è un rapporto spontaneo fra i giovani e la politica che è connaturato alla loro stessa condizione esistenziale. Il giovane non può fare a meno di pensare al futuro, per sé e per gli altri. E la politica è proprio uno specifico campo dell’attività umana in cui ciascuno può contribuire alla definizione dei grandi progetti di trasformazione della società e battersi per la loro realizzazione. Nell’attività politica l’individuo si assume le proprie responsabilità nei confronti del processo storico. Nella misura in cui esiste la libertà, che non è mai una libertà assoluta, gli uomini possono tradurla in realtà attraverso il loro impegno politico.
La politica è dunque anche il terreno sul quale, in forma cosciente, la libertà dell’uomo si scontra con la necessità storica. E il primo vincolo che incontra chi si vuole impegnare in un’azione politica è quello di agire in raggruppamenti, siano essi associazioni, leghe, sindacati, movimenti, partiti o Stati. Gli individui possono avere in comune interessi ed ideali, anche se una concezione volgare dell’agire politico vorrebbe ridurre le motivazioni della politica al solo interesse. In verità, ciò che tiene uniti i membri di un gruppo politico è l’appartenenza alle medesime idee. L’interesse materiale può naturalmente interferire, ma non costituisce mai il fondamento ultimo di un atteggiamento politico. anche quando apparentemente la politica degenera e sembra ridursi a scontro di interessi contrapposti. Basta riflettere sul fatto che in occasione di contrasti importanti fra partiti o fra Stati si è giunti, e si giunge ancora purtroppo, sino a sacrificare la vita non solo dei nemici, ma quella propria e dei propri compagni, per comprendere che il significato profondo dell’impegno politico consiste nella lotta per l’emancipazione umana (ciò che nel linguaggio ottocentesco si definiva Rivoluzione in relazione a mutamenti istituzionali significativi) e che solo nelle sue forme degenerate e conservatrici la politica si riduce a « conquista del potere per il potere », cioè a mera gestione dell’esistente, del presente senza futuro, dell’interesse senza ideale.
Eppure viviamo in un’epoca in cui bisogna constatare con rammarico che la politica ha perso in gran parte questa sue capacità di comunicare ai giovani l’entusiasmo per un ideale. È un fatto indiscutibile che i partiti tradizionali riescono sempre meno a reclutare giovani e che le strutture organizzative di partito si appesantiscono di funzionari stipendiati, a causa dell’incapacità di mobilitare del lavoro volontario per una politica che non appassiona più. D’altro canto, si deve anche ammettere che non è affatto vero che i giovani abbiano perso la passione per la lotta politica. Negli anni sessanta si sono manifestati negli Stati Uniti ed in Europa dei grandi movimenti giovanili di protesta contro la guerra del Vietnam e nel 1968 il mondo intero ha dovuto far fronte alla grande ondata di contestazione delle vecchie istituzioni autoritarie, nella scuola e nella società. Attualmente il movimento per la pace, che ha avuto il merito di sollevare la coscienza collettiva contro la minaccia della morte nucleare, è alimentato principalmente da giovani. Non è dunque vero che i giovani non si interessano alla politica, anche se, purtroppo, una larga frangia di essi subisce il disorientamento collettivo e finisce preda del nichilismo (terrorismo, droga, ecc.). È vero però che il « vecchio modo di fare politica » non li interessa più. L’impegno di chi vuole sinceramente battersi per un ideale resta latente per lunghi periodi di tempo ed esplode poi fragorosamente sotto forma di movimenti di protesta contro le istituzioni della conservazione, del privilegio e della violenza. Viviamo dunque in un’epoca potenzialmente rivoluzionaria in cui sono messe in discussione le radici stesse dell’antico ordinamento civile.
Di fronte ad una crisi di tali dimensioni è facile smarrirsi e avventurarsi in direzioni sbagliate e improduttive. L’epoca dei grandi mutamenti apre anche occasioni di successo ad ondate reazionarie, come insegna tristemente la storia compresa fra le due guerre mondiali. Nell’Europa attuale, quasi rassegnata ad una perpetua spartizione fra le due superpotenze, la prospettiva di una generale « pacificazione imperiale » nel benessere non è poi tanto lontana dal vero. Nonostante le illusioni del contrario, già oggi gli Europei, dell’est e dell’ovest, si comportano come popoli colonizzati, anche se i gradi di libertà d’azione variano ancora all’interno dei due imperi mondiali.
È necessario pertanto accostarsi alla lotta politica bandendo ogni facile entusiasmo. Non si cambia la vita politica europea senza mettere in discussione l’intero ordinamento mondiale e non si intraprende una lotta di questa portata senza un serio impegno personale di lavoro e di critica del pensiero politico dominante.
La crisi della politica contemporanea consiste, in ultima istanza, nella incapacità delle ideologie tradizionali – il liberalismo, la democrazia e il socialismo (comunismo e marxismo inclusi) – di dare una risposta soddisfacente ai grandi problemi della nostra epoca. In breve, le radici della crisi contemporanea vanno ricercate, secondo i federalisti, nella contraddizione esistente fra la dimensione mondiale dei problemi e la dimensione nazionale della vita politica. Non vi è chi non veda che le meravigliose conquiste della scienza e della tecnologia, che mettono potenzialmente l’uomo in condizione di dominare l’universo, si stanno ritorcendo contro l’uomo stesso a causa della divisione politica del genere umano, che costringe gli Stati a ricorrere alla politica di potenza e alla violenza delle armi per gestire gli affari del mondo. La politica si svuota dunque progressivamente della sua capacità di progettazione del futuro, perché nell’epoca delle armi atomiche il sistema mondiale degli Stati è diventato il principale fattore di insicurezza permanente, di terrore e di morte. Lo Stato contemporaneo, la più elevata forma di convivenza a cui sia giunta l’umanità, non è più in grado di incanalare le forze produttive e sociali verso il progresso e la stessa conservazione della vita.
Inoltre, la divisione del mondo in Stati nazionali rende impossibile l’attuazione di una efficace politica internazionale di difesa dell’ambiente naturale ed urbano contro i guasti della società industriale. Ed è sempre la divisione del mondo in Stati nazionali che è all’origine dello scontro fra paesi ricchi e poveri, rendendo praticamente insolubile il problema della giustizia internazionale, vale a dire dell’emancipazione del Terzo mondo dalle sue spaventose condizioni di miseria e di sottosviluppo.
Gli Stati nazionali, che nel secolo scorso hanno rappresentato un fattore importante di progresso, sono ormai diventati il principale ostacolo ad una effettiva politica di emancipazione del genere umano. Il pensiero politico tradizionale, accettando acriticamente un ordinamento internazionale fondato sul principio delle sovranità nazionali assolute, di fatto finisce col giustificare la politica imperialistica degli Stati più forti e la conseguente subordinazione degli ideali di libertà, eguaglianza e giustizia alla logica della politica di potenza.
 
 
La crisi delle ideologie tradizionali e l’alternativa federalista.
 
La cultura politica europea, che si è sviluppata nell’età moderna dal grembo della tradizione universalistica cristiana, non poteva non recepire il valore del cosmopolitismo. Le lotte dei liberali contro il potere assoluto ed i privilegi politici ed economici dell’aristocrazia affermarono nella storia il valore della libertà per tutti gli uomini, senza alcuna discriminazione. Similmente, i democratici pretesero l’eguaglianza politica per ogni cittadino ed i socialisti la giustizia universale. Gli uomini che propugnarono questi valori erano più o meno consapevoli delle infinite difficoltà che avrebbero incontrato e della necessità di concepire la loro impresa come un compito affidato all’impegno di più generazioni. Ma essi non previdero e non seppero impedire che a queste grandi correnti ideali della storia europea si sovrapponesse, nel secolo scorso, il movimento per l’unificazione nazionale, con la sua ideologia che pretende un lealismo assoluto del cittadino all’idolo nazionale e in ultima istanza all’idea di razza. Ben presto, come accade ad un corpo aggredito da un tumore, si avviò un lavorio di demolizione della componente cosmopolitica delle grandi correnti ideologiche europee, compreso il cristianesimo, nella misura in cui esso si era trasformato in movimento politico.
Progressivamente, liberali, democratici e socialisti accettarono l’idea dello Stato nazionale chiuso, cioè l’idea che la sola comunità per cui valeva la pena di battersi per realizzare la libertà e l’eguaglianza politica e sociale fosse quella nazionale. Il problema dei rapporti internazionali venne considerato come del tutto secondario: pace e guerra dipendevano, così si pensava ingenuamente, dalla buona o cattiva disposizione dei governi. Ciò che importava era la lotta per la conquista del potere nazionale. Una armoniosa e pacifica convivenza fra le nazioni sarebbe stata la naturale conseguenza della vittoria del liberalismo, della democrazia e del socialismo all’interno delle nazioni. L’internazionalismo divenne in questo modo una vera e propria ideologia che giustificava il potere sovrano degli Stati nazionali e, dunque, anche la politica di potenza, quando gli Stati non hanno altra possibilità che il ricorso alle armi per regolare le controversie internazionali. In questo modo, l’internazionalismo si trasformò nell’opposto del liberalismo, della democrazia e del socialismo perché, giustificando il ricorso alla forza e la distruzione reciproca fra comunità umane ormai profondamente unite da una medesima civiltà, negava nei fatti il valore del cosmopolitismo, che pur pretendeva di difendere in linea di principio. L’orrore che suscitò nei contemporanei la prima guerra mondiale, che fu anche la prima guerra di massa, perché coinvolse l’intera popolazione e non solo i combattenti al fronte, fu provocato proprio dalla coscienza del tradimento della comune civiltà. Uomini della stessa fede, in nome della difesa dei « sacri » confini nazionali, si trucidavano sui campi di battaglia.
È, tuttavia, sulla base di questa infausta dottrina dei rapporti internazionali che ci si illude di governare il mondo contemporaneo. La crescente interdipendenza dei rapporti economici e sociali, unita all’accresciuta capacità di intervento dello Stato nella vita produttiva, ha fatto aumentare enormemente il rischio di conflitti internazionali. Il mondo, nel bene o nel male, è governato da USA e URSS che hanno ormai ammassato un arsenale nucleare in grado di distruggere più volte l’umanità. Ma la capacità delle superpotenze di dare una soluzione evolutiva ai grandi problemi contemporanei si riduce progressivamente. Il Terzo mondo è abbandonato al suo destino di miseria e ogni mutamento politico o sociale che metta in discussione l’ordine imperiale viene prontamente sopito, come è accaduto nell’America latina, nei paesi dell’Est europeo. ecc. L’immobilismo e la conservazione non dipendono da forze occulte e misteriose. Non si cambia il mondo contemporaneo con le idee del passato. Oggi la politica ha una dimensione mondiale: chi vuole di nuovo battersi per la libertà, per la democrazia e la giustizia deve concepire un progetto mondiale di trasformazione che renda partecipi della sua lotta, in prospettiva, tutti gli uomini e tutti i popoli della Terra. Nel nostro secolo, continuare a fare politica sulla base della vecchia dottrina internazionalistica equivale a progettare un viaggio interplanetario fondando i calcoli sul sistema tolemaico.
Solo attraverso il federalismo è possibile far recuperare alla politica la sua dimensione cosmopolitica. Il federalismo consente di eliminare l’anarchia internazionale garantendo effettiva autonomia, libertà ed eguaglianza alle nazioni. Solo un patto costituzionale universale, accettato liberamente da tutti i popoli e che affidi ad un potere sovrannazionale il compito di far rispettare il diritto, può assicurare la pace perpetua e la giustizia internazionale. Per liberare la politica dalla necessità di ricorrere alla violenza – nella sua massima espressione, cioè la violenza legalizzata degli eserciti e l’educazione dei giovani all’uso delle armi e all’odio dello straniero – è necessario sottomettere la selvaggia libertà degli Stati sovrani ad un ordinamento federale.
Questa via è praticabile. La scelta che fecero le tredici colonie americane nel 1787 fra il mantenimento della Confederazione – cioè di una unione provvisoria, senza che ciascuna di esse rinunciasse ad una difesa autonoma – ed una Federazione, mostra che alcuni uomini, in circostanze storiche favorevoli, hanno saputo trarre il giusto insegnamento dalla storia. Come scriveva Hamilton nel Federalist a commento della Costituzione proposta dalla Convenzione di Filadelfia ai coloni: « Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo ».
Tuttavia, due secoli fa, i tempi non erano ancora maturi affinché le conquiste della Rivoluzione americana diventassero un patrimonio comune a tutta l’umanità. Gli europei stavano proprio allora per lanciarsi verso l’avventura della rivoluzione industriale e il contemporaneo consolidamento, o la formazione, delle grandi unità nazionali, gettando così implicitamente anche le basi per nuovi e più sanguinosi conflitti. Il progresso nella storia non procede attraverso sentieri rettilinei e quasi sempre gli uomini apprendono le lezioni solo dai tragici avvenimenti scatenati dalle passioni e dagli interessi che essi non hanno ancora saputo sottoporre alla legislazione della ragione. Ma nel XVIII secolo, ciò che l’umanità si rifiutava ancora di comprendere poteva almeno essere pensato come una congettura filosofica ragionevole. Con Immanuel Kant il federalismo acquisì una dimensione storica universale. Gli uomini, osservava Kant nella Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), si sono dati un ordinamento politico internazionale in cui gli Stati vivono in una condizione di selvaggia libertà, come vivevano gli individui prima della formazione dello Stato civile. La situazione internazionale corrisponde dunque ad uno stato di barbarie, perché solo mediante la guerra, e non il diritto, si può decidere delle controversie fra Stati. Non è tuttavia irragionevole sperare che la storia nella sua evoluzione spinga il genere umano a riconoscere la necessità di entrare a far parte di un ordinamento politico universale. « Quella stessa insocievolezza – scriveva Kant – che obbligava gli uomini a darsi una costituzione, è di nuovo la causa per cui ogni comunità nei rapporti esterni, cioè come Stato in rapporto a Stati, si mantiene in libertà illimitata e quindi deve aspettarsi dagli altri i mali che opprimevano i singoli uomini e li costrinsero a entrare in uno Stato civile regolato dal diritto ». La ragione dovrebbe dunque spingere gli uomini ad « uscire dallo Stato eslege di barbarie ed entrare in una federazione di popoli nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federazione di popoli, da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune ».
La pace è lo specifico valore del federalismo. Nel corso della storia europea e mondiale il valore della pace, sebbene accettato da tutti, è sempre stato subordinato nei fatti alla lotta politica per altri obiettivi, come la conquista della libertà, della giustizia o dell’indipendenza nazionale. Nei secoli scorsi non sono certo mancate le voci in favore del federalismo e in particolare degli Stati Uniti d’Europa. Basti qui ricordare quelle di Saint Simon, Mazzini, Cattaneo, Proudhon, Hugo, Trotskij, Einaudi, ecc. Ma essi non furono che dei precursori perché non seppero mai portare il federalismo sul terreno della lotta politica, cioè sul terreno della realizzabilità. Solo a partire dalla seconda guerra mondiale prese corpo, nel corso della Resistenza al nazi-fascismo, il progetto di ricostruire l’Europa liberata sulla base di un ordinamento federale, come alternativa al vecchio ordine degli Stati sovrani che aveva trascinato i cittadini europei nel più orrendo dei conflitti.
Per esaminare la storia del federalismo europeo dalla sua nascita sino agli sviluppi più recenti è necessario individuare alcune semplici linee di svolgimento. Si prenderà dunque in esame, in primo luogo, il federalismo come progetto politico, cioè la lotta dei federalisti contro i poteri nazionali e per la costruzione del primo governo sovrannazionale della storia. In secondo luogo, si esaminerà la storia del federalismo come progetto culturale, cioè l’impegno dei federalisti per affermare la loro concezione del processo storico nei confronti del pensiero politico del passato. Si cercherà infine di far scaturire da queste osservazioni qualche immediata indicazione di lotta.
 
 
Il federalismo come progetto politico.
 
Nel Manifesto di Ventotene (1941), atto di nascita del federalismo militante, si individua con grande chiarezza l’obiettivo di lotta all’ordine del giorno della storia: la federazione europea. « Il problema – si dice – che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani ». Questa impresa sarà fatta propria da « uomini nuovi » cioè da un Movimento (il Movimento federalista europeo verrà fondato a Milano il 27-28 agosto 1943) capace di sfruttare la situazione rivoluzionaria creata dal disfacimento dei vecchi e screditati regimi europei del passato, travolti dai disastri della guerra. « Il partito rivoluzionario – come viene denominato nel Manifesto il nuovo Movimento – non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione ». Le previsioni del Manifesto di Ventotene non si avverarono. Il vuoto di potere causato dalla fine dei vecchi regimi non venne colmato attraverso la creazione degli Stati Uniti d’Europa, come sarebbe stato auspicabile, ma dagli eserciti vittoriosi delle grandi potenze, che si preoccuparono di rivitalizzare le vecchie istituzioni nazionali e di spartirsi l’Europa in zone di influenza. Uno spirito di rassegnazione si impadronì allora della classe politica europea e gli ideali di un’Europa unita, che sembravano tanto ragionevoli ed a portata di mano nella Resistenza, svanirono all’orizzonte. Tuttavia, la storia provvede a riproporre ostinatamente agli uomini ciò che la loro insipienza ed inerzia inducono a far dimenticare. La ricostruzione si rivelò presto un compito difficilissimo o impossibile per un’Europa divisa e già pronta, come in una tragica replica teatrale, a far rinascere le antiche controversie di frontiera. Si ripropose la rivalità franco-tedesca e si ritornò all’atmosfera tipica dell’Europa decadente, della diplomazia e delle astute alleanze. Ma il destino dell’Europa non era ormai più solo nelle mani degli Europei. Il confronto bipolare fra le due superpotenze per il predominio mondiale cominciava ad imprimere una nuova direzione di marcia a tutta la politica internazionale. Non era più possibile né per gli USA né per l’URSS lasciare sprofondare l’Europa nell’anarchia e la cortina di ferro rappresentò la triste ma inevitabile conseguenza dello sgretolamento dell’Europa.
Fu in questo clima che maturarono nuove possibilità di azione per i federalisti. Nel 1947 gli Americani proposero agli Europei il Piano Marshall per tentare di avviare insieme alla ripresa economica un processo di unificazione europea, in funzione del contenimento delle mire staliniane. Ridiventava dunque attuale il progetto federalista. Fu il problema tedesco a mettere gli Europei di fronte alla necessità di compiere una scelta cruciale. La rinascita economica della Germania era ostacolata dalle limitazioni di sovranità imposte dagli Alleati sulla regione della Saar, e senza il carbone e l’acciaio l’industria tedesca non poteva rimettersi in moto. La Francia si opponeva alla ricostruzione della potenza tedesca, ma senza una Germania in grado di sostenersi con le proprie forze l’intero assetto europeo vacillava. Fu Jean Monnet a trovare una soluzione all’impasse. « Si può uscire in un solo modo – scriveva Monnet nel suo Memorandum del 3 maggio 1950 – con un’azione concreta e risoluta su di un punto limitato ma decisivo che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini dell’insieme dei problemi ». La proposta era quella di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), come primo passo verso una Federazione europea. La creazione della CECA, grazie alla pronta adesione di Schuman e Adenauer, venne annunciata a Parigi nella storica riunione del 9 maggio 1950. Le attese non furono deluse. Come aveva previsto Monnet, veniva mutato un intero corso degli avvenimenti europei e mondiali. Alle crescenti tensioni politiche europee, si sostituivano l’intesa franco-tedesca e la cooperazione comunitaria.
Tuttavia, il problema tedesco era ben lungi dall’essere risolto, perché quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna proposero di ricostruire l’esercito tedesco e dare quindi alla Germania una piena sovranità politica, la Francia si irrigidì di nuovo in un netto rifiuto e di nuovo fu Monnet che tentò di superare l’ostacolo proponendo una Comunità europea di difesa (CED). La proposta della CED (Memorandum Pleven, 1950) venne in effetti presa in esame dai sei paesi fondatori della CECA, ma ne uscì un progetto di natura confederale, in cui si proponeva semplicemente di formare un esercito europeo attraverso la somma degli eserciti nazionali. La proposta sarebbe ben presto naufragata senza una nuova efficace iniziativa. Altiero Spinelli, allora segretario generale del MFE, inviò al governo italiano un Pro-memoria in cui si faceva notare che con una semplice coalizione di eserciti nazionali si sarebbe proprio ottenuto quello che si voleva evitare, cioè la ricostituzione dell’esercito tedesco. Ma, cosa ancora più grave, gli Europei, creando una struttura militare, senza proporre anche la costruzione di uno Stato federale per il suo controllo, avrebbero di fatto rinunciato all’indipendenza: « non avendo voluto – scriveva Spinelli – fare un organo sovrano europeo, la Conferenza tacitamente propone che il sovrano europeo sia il generale americano ».
La proposta di Spinelli di completare la CED con una Comunità politica europea (CEP), dotata di un Parlamento eletto a suffragio universale e di un governo, venne accolta, con grande saggezza, da De Gasperi che riuscì anche a farla accettare da Schuman e Adenauer. Finalmente, l’Assemblea comune della CECA, trasformatasi in Assemblea ad hoc, fu incaricata di elaborare un nuovo progetto di Trattato istitutivo della Comunità politica europea. Lo statuto, approvato nella sua forma finale il l0 marzo 1953, sebbene non soddisfacesse completamente i federalisti, poteva venir considerato un passo decisivo verso la Federazione europea.
A questo punto la storia cominciò a volgere le spalle ai federalisti. Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo ratificarono subito il progetto, ma Italia e Francia esitarono. Intanto la morte di Stalin introdusse nella politica mondiale una generale illusione di distensione che rendeva meno pressante la necessità di provvedere ad una difesa europea. Il 30 agosto 1954 il Parlamento francese, che già si era espresso in linea di principio in favore della CED, la respinse. Terminava così con un fallimento il primo tentativo di fondare lo Stato europeo.
La cocente sconfitta della CED provocò una salutare riflessione dei federalisti sulla loro strategia, che Spinelli battezzò « nuovo corso ». Sin dal suo III Congresso (Strasburgo, 1950), il MFE aveva indicato con chiarezza il metodo necessario per fondare la federazione europea. « Per pervenire a questo fine – si affermava – è indispensabile che gli Stati disposti a unirsi con un vincolo federale s’impegnino a convocare un’Assemblea federale costituente europea composta di rappresentanti del popolo e non dei governi e incaricata di votare un Patto di Unione federale europea, che entrerà in vigore allorché sarà stato accettato da un numero minimo di paesi indicato nel Patto stesso, e che resterà aperto all’accettazione degli altri Stati ». Questo metodo era stato fatto proprio, su proposta dei federalisti, dai governi europei, nel corso della battaglia per la CED, con la creazione dell’Assemblea ad hoc (che qualche deputato, in effetti, propose di denominare « Costituente »). Ma una volta fallito il progetto della Comunità politica, essi ripiegarono su obiettivi meno ambiziosi, come la creazione del Mercato comune europeo e l’Euratom, nella illusione che l’integrazione economica potesse condurre prima o poi all’unificazione politica. Per questo i federalisti, fedeli al metodo costituente, che è il solo democratico perché consente la partecipazione del popolo al processo di unificazione europea, denunciarono il metodo funzionalistico e iniziarono un’azione per demistificare le istituzioni comunitarie come ultimo baluardo della conservazione nazionale. Come era avvenuto per i minuscoli Stati tedeschi che diedero vita allo Zollverein, nella speranza che con un’unione doganale fosse possibile mantenere in vita delle forme statuali ormai condannate dalla storia, così i vecchi Stati nazionali europei diedero vita alla Comunità europea per l’incapacità di garantire ai loro cittadini, autonomamente, un minimo di benessere economico e di indipendenza.
La politica di opposizione al Mercato comune comportò l’elaborazione di un nuovo quadro concettuale e di nuovi strumenti di lotta. La base della nuova azione dei federalisti divenne il concetto di popolo europeo. Esisteva un popolo, il popolo delle nazioni europee, ma non esisteva ancora uno Stato. Il MFE si propose di sviluppare un’azione per far emergere questa contraddizione e per rivendicare il potere costituente del popolo europeo. Si trattava, dunque, di affrontare con determinazione, anche se in passato tentativi analoghi erano già stati effettuati, la costituzione di un Movimento federalista organizzato veramente su scala sovrannazionale, con organi dirigenti europei eletti direttamente da un congresso democratico europeo. Infatti, l’esistenza di un Movimento sovrannazionale costituiva la premessa di un’efficace azione costituente europea, che non poteva ridursi alla semplice somma di azioni nazionali mal coordinate. A questo risultato si giunse nel 1959. La vecchia UEF (Unione dei federalisti europei), originariamente strutturata sul modello internazionalista, si trasformò nel MFE sovrannazionale. Ma questo risultato fu ottenuto al prezzo della scissione dei federalisti tedeschi ed olandesi, che non accettarono le radicali critiche dei federalisti italiani al metodo funzionalista.
Tuttavia, il successo organizzativo conseguito fu sufficiente per lanciare una importante campagna popolare, il Congresso del popolo europeo (CPE), la cui finalità era quella, attraverso l’organizzazione di elezioni primarie nelle principali città d’Europa, di dar corpo alla rivendicazione popolare dell’Assemblea costituente europea. « Il Congresso del popolo europeo – così lo ha definito Spinelli – nato da una meditazione sulle ragioni del fallimento dei movimenti europei di questi ultimi dieci anni, che si proponevano di ‘pregare’ invece di ‘forzare’ gli Stati nazionali ... fa appello a tutti coloro che sentono la necessità di rivendicare i propri diritti di cittadini d’Europa. Le sue elezioni primarie sono il mezzo che permette di suscitare questa coscienza e che le dà la possibilità di esprimersi ». Questa iniziativa e quella successiva del Censimento volontario del popolo federale europeo non raggiunsero un potenziale critico sufficiente a scuotere i governi europei dal loro immobilismo nazionale, ma vanno comunque ricordate come il primo serio tentativo della storia di sviluppare un’azione politica di base in un quadro internazionale.
Verso la metà degli anni sessanta, il federalismo organizzato si orientò verso nuovi obiettivi di lotta. Si stava infatti per completare il periodo transitorio del Mercato comune. L’abbattimento delle barriere doganali aveva consentito alle economie europee uno sviluppo straordinario, mettendo l’Europa in condizione di rivaleggiare, sul terreno economico, con gli Stati Uniti. Ma i nodi politici dovevano prima o poi venire al pettine. Un Mercato comune senza una moneta comune e senza un governo democratico si sarebbe rivelato incapace, come successe nei fatti, di far convergere le varie economie nazionali verso obiettivi omogenei, di far fronte agli squilibri regionali e al problema dell’occupazione, di reggere la sfida delle economie tecnologicamente più avanzate e della finanza internazionale. Infine, non sarebbe stato in grado di realizzare una efficace politica di cooperazione per lo sviluppo del Terzo mondo, da cui dipendeva per le forniture delle sue materie prime. A queste considerazioni, occorreva poi aggiungere che la crisi del bipolarismo avrebbe costretto l’Europa a riprendere in esame il problema della sua difesa e del futuro del Patto Atlantico. Il terreno era dunque favorevole per una iniziativa dell’avanguardia federalista che facesse emergere apertamente la contraddizione esistente fra la dimensione europea del processo economico-sociale e la anacronistica determinazione dei governi nazionali di mantenere l’Europa politicamente divisa.
L’azione progettata e intrapresa allora dai federalisti non mirava più a provocare direttamente la convocazione di un’Assemblea costituente, ma ad avviare un processo che avrebbe avuto come suo punto d’arrivo quell’obiettivo: si trattava cioè di mettere in crisi i poteri nazionali sul terreno della rivendicazione della democrazia europea. Questo nuovo orientamento di lotta si concretizzò nella campagna per l’elezione diretta del Parlamento europeo. Ecco come la formulò Mario Albertini in un rapporto presentato al Comitato centrale del MFE tenutosi a Parigi il l° luglio 1967: « L’Europa non è più, come all’inizio della nostra lotta, una semplice previsione storica. È una realtà economica con una complessa amministrazione comunitaria, oltre che una necessità politica sempre più evidente. Ma a fianco di questa imponente realtà europea c’è un Parlamento europeo ancora privo di base elettorale. Se si chiede che venga eletto si chiede una cosa che tutti, salvo i nemici dell’Europa trovano giusta. Si tratta di sfruttare questo sentimento. In effetti i partiti democratici, nella misura in cui ammettono l’economia – ossia la società – europea, non possono, senza rinnegare sé stessi, rifiutare la democrazia europea. Qui sta il punto di contatto tra il MFE e i partiti democratici. Presi dall’ingranaggio della lotta per il potere nazionale, questi partiti, pur riconoscendo il principio della democrazia europea, non fanno nulla per realizzarla. Ma non potranno restare inerti se il MFE li obbligherà, con una campagna tenace e paziente, a rispondere ... Per quanto riguarda la sua portata, bisogna osservare che l’obiettivo finale, il fatto elettorale europeo, non è una delle tante cose che si possono fare in direzione dell’Europa, ma la cosa che ci può dare l’Europa... Basta tener presente che la prima elezione europea obbligherà i partiti a schierarsi a livello europeo e a battersi per il consenso europeo, per rendersi conto che questo schieramento e questa lotta, non sono altro che la forma concreta del trasferimento del potere dal livello nazionale a quello europeo. Una volta spostata la lotta politica dai quadri nazionali a quello europeo, gli ostacoli sostanziali che ci separano dalla democrazia europea risulterebbero superati. Tutti gli altri obiettivi, ivi compresi la costituzione e la costituente, non sarebbero che i temi di ciò che, nella strategia militare, si chiama lo sfruttamento del successo ».
Inizialmente, l’azione per l’elezione europea consistette nella rivendicazione dell’elezione unilaterale dei deputati nazionali al Parlamento europeo, per l’ovvia ragione che la richiesta di una immediata elezione generale poteva venir contrastata da qualche governo particolarmente contrario (De Gaulle era ancora al potere in Francia). In Italia, grazie ad una efficace mobilitazione dei militanti, il MFE riuscì a presentare nel 1969 un progetto di legge di iniziativa popolare al Parlamento italiano. Iniziative analoghe si svilupparono in Germania, nel Benelux e in Francia. Negli anni successivi la rivendicazione venne sostenuta con una serie di iniziative di piazza, dibattiti, convegni, ecc. Fra di esse va almeno ricordata la grande manifestazione organizzata a Roma il l0 dicembre 1975 in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo, che avrebbe dovuto prendere l’impegno di fissare, come in effetti fece, la data della prima elezione europea. Per la prima volta numerosissime rappresentanze di partiti, sindacati, consigli di fabbrica, agricoltori, ecc. si schierarono in piazza a fianco dei federalisti per rivendicare la democrazia europea.
Un risultato non secondario di questa nuova fase della strategia federalista fu la riunificazione di tutti i federalisti europei in un’unica organizzazione democratica sovrannazionale. Il 13-15 aprile 1973 nacque a Bruxelles l’Unione dei federalisti europei (UEF), che mantenne la vecchia denominazione per segnare la continuità con l’esperienza dell’immediato dopoguerra.
Nel frattempo, con l’approssimarsi dell’elezione europea, i federalisti lanciarono una nuova azione per sostenere il progetto dell’unificazione monetaria dell’Europa, come alternativa alla disgregazione del Mercato comune, al declino del dollaro come moneta internazionale e alla crisi economica mondiale. Alla vigilia della prima elezione europea (giugno 1979) il MFE fu così in grado di sviluppare una vigorosa « Azione sui partiti per un programma europeo democratico ed efficace » chiedendo che nel loro programma elettorale venissero inclusi i tre obiettivi prioritari di un governo europeo, della moneta europea e di una politica estera comune.
Gli avvenimenti della prima legislatura europea hanno confermato pienamente le attese dei federalisti. Il Parlamento europeo, per merito di Altiero Spinelli, ha avviato con successo la lotta per la riforma dei Trattati e per dare alla Comunità un governo democratico ed efficace, anche se con poteri limitati. Si è aperta così una vera e propria fase costituente in cui, grazie alla mobilitazione popolare e all’impegno di tutti i partiti democratici europei, sarà possibile compiere un passo decisivo verso la Federazione europea. È dunque in corso il secondo tentativo della storia di realizzare lo Stato europeo.
 
 
Il federalismo come progetto culturale.
 
Mentre l’idea di progetto politico è facilmente intuibile e, nel nostro caso, significa il modo con cui i federalisti hanno cercato di confrontarsi coi poteri nazionali esistenti al fine di creare la federazione europea, quando si parla di progetto culturale è bene fare alcune precisazioni. Si userà qui l’espressione progetto culturale come, grosso modo, i filosofi della scienza parlano di « paradigmi » o di « programmi di ricerca » per le teorie scientifiche. In un modo molto più complesso anche le dottrine politiche svolgono, o dovrebbero svolgere, una simile funzione. Esse forniscono agli uomini dei criteri con cui orientarsi nella azione e nella comprensione della realtà storico-sociale. Il mondo della cultura consiste di tutte le idee, le credenze, le istituzioni, ecc. che servono da fondamento all’organizzazione della vita associata e che con altra espressione potrebbero venir definite civiltà, quando si parla di concrete realizzazioni storiche. Una dottrina politica, in particolare una ideologia, si pone dunque in relazione al mondo della cultura per il suo atteggiamento critico e per il suo programma di trasformazione del vecchio mondo. Vi è tuttavia una differenza che non va trascurata rispetto al metodo della conoscenza scientifica in senso stretto. Lo scienziato esaurisce il suo compito quasi interamente nel momento in cui ha condotto al successo la sua ricerca. È vero che una scoperta scientifica può trovare ostacoli di varia natura per la sua affermazione e che anche il mondo accademico, che dovrebbe essere così aperto al nuovo, spesso si oppone con tenacia agli innovatori, tanto che si è sentito il bisogno di parlare di Rivoluzioni scientifiche. Tuttavia, queste sono circostanze secondarie. Il processo di conoscenza vero e proprio ha una sequenza puramente logica ed astorica.
Non altrettanto avviene nella politica. Nessuna nuova teoria politica si è mai affermata come un fatto istantaneo e senza lotte, cioè senza che maturassero le condizioni storiche per una sua completa affermazione e senza che il suo significato emergesse progressivamente nel corso di questo processo. Infatti, resta persino problematico affermare, nei confronti delle grandi ideologie, come il liberalismo, la democrazia e il socialismo, in quale misura esse si siano realizzate. In definitiva, in politica il problema dell’affermazione di una ideologia non è meno rilevante della sua elaborazione concettuale. Non si tratta solo di conoscere una certa realtà storica, ma soprattutto di affermare un nuovo assetto della società e del potere. Conoscenza ed azione non possono, in politica, venir disgiunte. Senza un impegno per la trasformazione, resta incerta la distinzione tra pensiero utopico e pensiero scientifico. Ne deriva che, a differenza delle scienze naturali, il pensiero ideologico ha sempre una natura globale, deve cioè mirare ad una comprensione dell’intero processo storico. Ogni pensiero politico vitale che miri ad una trasformazione globale della realtà storico-sociale deve quindi possedere anche un progetto culturale che chiarisca progressivamente alla coscienza del soggetto storico le successive fasi delle trasformazioni possibili.
Se queste considerazioni sono corrette, allora la storia del federalismo come progetto culturale inizia con la fondazione del federalismo come esperienza politica autonoma, cioè con il Manifesto di Ventotene. Solo allora, infatti, il federalismo europeo diventa un atteggiamento teorico-pratico e non soltanto una ideale aspirazione di qualche pensatore illuminato. Nel Manifesto di Ventotene vengono indicati due importanti principi di azione: 1. è prioritario l’obiettivo della costruzione di « un solido Stato internazionale », cioè della Federazione europea, su qualsiasi altro obiettivo politico o sociale; 2. la nuova linea di divisione tra progresso e reazione non cade più tra chi vuole più o meno libertà, democrazia o socialismo all’interno degli Stati esistenti, ma tra chi vuole e chi non vuole lo Stato internazionale. Sulla base di questi principi è possibile confrontarsi con la realtà politica, che consiste nella lotta per la conquista e il mantenimento del potere nazionale. Con il loro progetto politico alternativo, i federalisti entrano in relazione con il processo storico. « Ne segue – afferma Mario Albertini a commento dei Principi del Manifesto – che anche rispetto al futuro il pensiero assume la forma della realtà (l’azione è il futuro in germe); e, più precisamente, della realtà che si può costruire con la ragione perché i nuovi principi d’azione, se sono davvero tali e non automistificazioni, collegano il presente al futuro secondo un ordine stabilito dalla ragione ».
Lo sviluppo di questi principi, in una prima fase della vita del MFE, consistette principalmente nella elaborazione di prese di posizione sui grandi problemi contemporanei. Attraverso i suoi organi ufficiali, prima l’Unità europea (1943-1949) e poi Europa federata (1949-1960), e altri mezzi di stampa, il MFE si espresse sul problema della riunificazione tedesca, sulla insufficienza dei programmi politici nazionali dei partiti nei confronti dell’unificazione europea, sulla natura della politica estera statunitense e sovietica, sulle rinascenti tentazioni autarchiche, ecc. In sostanza, la lotta federalista in questi anni si arricchì di importanti prese di posizione che costituirono poi un punto di riferimento per le lotte del MFE negli anni successivi. Spinelli espresse questa esigenza con molta lucidità nell’introduzione alla sua raccolta di saggi Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa (1950). « Una opinione corrente non condivisa dall’autore – scrive Spinelli – è che il federalismo consista nella semplice formulazione di un obiettivo e che non incida nella problematica politica interna e perciò nella mentalità dei vari partiti politici nazionali. Il problema della federazione modifica in modo radicale il piano in cui si muovono i partiti, le loro ideologie, i loro programmi a orizzonte nazionale. Non appena si passa dal piano dell’organizzazione dello Stato nazionale a quello dell’organizzazione dello Stato federale, tutti i termini in cui si è abituati ad esaminare i vari problemi politici, economici e sociali si modificano radicalmente. Credo che sia ancora scarsa la consapevolezza della forza rivoluzionaria insita nel pensiero federalista ».
Vi è una seconda linea di sviluppo del pensiero federalista che si trova solo accennata nel Manifesto di Ventotene, ma che viene più estesamente esplorata da Spinelli nel saggio Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, scritto contemporaneamente al Manifesto, dove il federalismo viene messo a confronto con le dottrine politiche del nazionalismo, della democrazia e del socialismo. Esse vengono esplicitamente criticate per la loro incapacità di risolvere il problema della convivenza pacifica fra Stati. L’esame di questo problema porta ad una prima importante conclusione: il federalismo non si contrappone ai grandi ideali della libertà individuale, della eguaglianza politica e della giustizia sociale, ma ritiene che essi siano realizzabili solo come conseguenza della creazione della Federazione europea, mentre sarebbero fini illusori se perseguiti nel quadro dei vecchi Stati nazionali. Questo punto di vista costituisce in effetti la parte ideologica centrale delle Tesi politiche di fondazione del MFE, dove si afferma che « Il MFE non si presenta come una alternativa alle correnti politiche che desiderano l’indipendenza nazionale, la libertà politica, la giustizia economica. Ai dirigenti e ai seguaci di questi movimenti, che abbracciano quasi tutto quel che vi è di vivo e di progressivo nella nostra civiltà, esso non dice: l’indipendenza nazionale, la libertà, il socialismo sono ideali che occorre metter da parte per occuparsi solo dell’unità europea. Il MFE è anzi composto esclusivamente da uomini seguaci di queste correnti, ed intende vederne realizzati i fini che sono consoni coi valori supremi della nostra civiltà ». Nel primo decennio di vita del MFE, questo orientamento dottrinale si tradusse anche in efficaci direttive d’azione. La lotta per la CED venne combattuta da un MFE i cui quadri coincidevano in gran parte con i quadri dei partiti di orientamento europeistico e la loro complementarietà ideologica con il federalismo consentì una efficace collaborazione alla base ed al vertice fra federalisti e uomini di partito. In quella fase, la concezione prevalente del federalismo consisteva nella dottrina dello Stato federale, vale a dire il modello istituzionale che veniva proposto come soluzione al problema della divisione dell’Europa. La nascita degli Stati Uniti d’America, con il limpido esempio della Convenzione di Filadelfia, costituì il punto di riferimento costante delle riflessioni dei federalisti europei. In quegli anni il federalismo poteva dunque venir definito semplicemente come la teoria dello Stato federale.
Queste posizioni e questi orientamenti dovevano profondamente mutare dopo la caduta della CED. Il « nuovo corso » non rappresentò solo una svolta politica, ma anche culturale. Ormai l’europeismo dei partiti, che accettavano supinamente la prospettiva funzionalistica e governativa dell’unificazione europea, divergeva sempre più dalle posizioni dei federalisti che non cessavano di rivendicare, con coerenza, l’assemblea costituente europea. Diventava dunque evidente e vitale portare il pensiero federalista su posizioni culturalmente autonome rispetto a quelle dei partiti. L’elaborazione di una specifica autonomia ideologica del federalismo, che è una esperienza ancora in corso di svolgimento, venne in quegli anni intrapresa da Mario Albertini.
La prima iniziativa consistette nello sviluppare una politica di reclutamento di nuovi quadri giovanili, a fianco della Campagna per il Congresso del popolo europeo. « Per i federalisti il problema è decisivo – scriveva Albertini in occasione degli stages di Salice del 1957 – perché la loro possibilità di fare la lotta per l’Europa è condizionata dalla capacità di sviluppare e formare un numero crescente di militanti ... Naturalmente, i militanti si formano nella lotta, non in cenacoli di studio. Tuttavia non si nasce militanti, e non si è buoni militanti senza un carattere politico ben definito. Di conseguenza, bisogna farsi in via preliminare un’idea chiara su due questioni: quella del reclutamento dei militanti, e quella del fondamento della loro personalità ». Albertini specificava poi che il reclutamento non poteva avvenire che attraverso strumenti organizzativi direttamente predisposti dai federalisti, perché « non esistono ambienti nei quali si formi spontaneamente il desiderio di divenire militanti dell’Europa ». Per quanto riguarda la loro personalità è necessario che i militanti siano « persone che sappiano differenziarsi dai politici nazionali e che vogliano conquistare un modo europeo di vedere ed un modo europeo di agire ». Il primo compito del militante è quello di organizzare i simpatizzanti ed i cittadini per rafforzare l’azione federalista. « Tuttavia questa scienza del militante, questa capacità di raggruppare gli uomini su un certo cammino – continua Albertini – non servirebbe a nulla se il militante non esercitasse, oltre a questa scienza, un’arte. Si tratta dell’arte del pilota. I militanti formeranno un gruppo e lo metteranno in cammino applicando le regole organizzative del CPE con le riunioni e le elezioni. Ma essi potranno ingrossare il gruppo strada facendo soltanto se sapranno, ad ogni crocevia, scegliere la strada giusta, e dare a coloro che li seguono l’impressione che c’è una direzione di marcia ».
Lo sviluppo della politica di reclutamento comportò una serie di approfondimenti sui grandi problemi contemporanei e non più solamente delle prese di posizione politiche. Il gruppo di « autonomia federalista » affrontò così le questioni del rapporto fra Stato e chiesa, del Mezzogiorno come problema europeo, del futuro della condizione operaia in relazione alla rivoluzione scientifica e tecnologica, del problema della democrazia nella scuola, del significato delle armi atomiche per il futuro dell’umanità, della fine dell’equilibrio bipolare e dell’emergere del multipolarismo, dei limiti del centro-sinistra e del riformismo nazionale, ecc. Inoltre, si approfondirono e si precisarono alcuni concetti cruciali per l’acquisizione di una coscienza del federalismo come alternativa storica. Si sviluppò cosi un intenso dibattito sull’idea di corso della storia, sulla ragion di Stato e sui suoi rapporti con l’imperialismo e, infine, sul significato stesso dell’azione politica. Non è naturalmente possibile in questa sede accennare ai contenuti di queste elaborazioni teoriche. Ma va almeno segnalata, fra le opere di Mario Albertini, Lo Stato nazionale, che per i federalisti assunse la stessa importanza del Capitale per i socialisti, nel senso che Lo Stato nazionale si proponeva di identificare e demistificare il nemico, vale a dire l’ideologia nazionale. Inoltre, in Il federalismo. Antologia e definizione, Albertini definì i caratteri specifici del federalismo come ideologia politica: esso consiste in un aspetto di valore, la pace (nel senso precisato da Kant); un aspetto di struttura, lo Stato federale (le cui principali caratteristiche istituzionali sono delineate da Hamilton); e un aspetto storico-sociale, vale a dire la fase dello sviluppo dei mezzi materiali di produzione in cui l’integrazione della società sia giunta al punto in cui sia superabile la divisione dell’umanità in nazioni. Con questa precisazione teorica diventa allora possibile avviare anche su basi scientifiche, per quanto lo possono essere le scienze storico-sociali, il confronto fra il federalismo e le grandi ideologie del passato, il liberalismo, la democrazia e il socialismo.
Da questi brevi cenni si può intuire che si tratta di un programma culturale di enorme portata e che ha potuto e potrà essere sviluppato solo come un impegno collettivo. Per questo, nel 1959 venne fondata la rivista Il Federalista, pubblicata in francese negli anni in cui si produsse lo sforzo di fondare un MFE sovrannazionale e che consentì di allargare la base dei militanti culturalmente impegnati, oltre che di mantenere il confronto con il mondo della cultura non federalista. Lentamente, questa attività di approfondimento teorico consentì anche di trasformare radicalmente la struttura del Movimento. I militanti di partito che ai tempi della CED avevano ancora una funzione dirigente decisiva nel MFE o si allontanarono o ridussero il loro ruolo a quello di semplici simpatizzanti. Si verificò una emorragia di iscritti, ma in compenso si formò un solido nucleo dirigente temprato alla lotta e soprattutto cosciente della priorità della identità federalista e della propria autonomia ideologica. Il militante federalista – così lo definiva Albertini nel 1966 – è colui che fa « della contraddizione tra i fatti e i valori una questione personale » e « l’avanguardia federalista è la coscienza teorico-pratica del carattere europeo dell’alternativa politica di fondo ». E sarà questa avanguardia federalista che si assumerà il difficile compito di guidare il MFE e l’europeismo organizzato nella lotta per la conquista del diritto elettorale europeo.
Attualmente, il federalismo europeo si trova di fronte ad una nuova e decisiva sfida. Dopo la vittoria per l’elezione diretta del Parlamento europeo, si è aperto nel MFE un dibattito che è sfociato in una seconda svolta politico-culturale. Una volta agganciato il processo di unificazione politica dell’Europa al robusto motore della volontà popolare, si è posto per i federalisti il problema di cominciare a mostrare le implicazioni mondialistiche – che sono sempre esistite sul piano delle formulazioni teoriche – della lotta per la Federazione europea. Per questo il Congresso di Bari (febbraio 1980), che ha lanciato la parola d’ordine « Unire l’Europa per unire il mondo », ha approvato una serie di Tesi di cui vale la pena di citare per esteso la prima: « Una nuova epoca ha avuto inizio, un nuovo pensiero deve prendere forma. Il corso della storia generato dalla formazione del mercato mondiale e sostenuto dalle rivoluzioni scientifica, politica, economica e sociale è ormai giunto al suo culmine con la fine dell’egemonia del sistema europeo degli Stati, l’avvento del sistema mondiale degli Stati, il risveglio di tutti i popoli della Terra, la crescente partecipazione dello spirito religioso alla vita moderna e lo sviluppo enorme della capacità tecnologica, non ancora controllata, tuttavia, dalla volontà generale. Per questa ragione è ormai necessario – ed anche possibile a patto di rivolgere il pensiero e la volontà a questo compito supremo – pianificare a livello mondiale la soluzione di alcuni problemi fondamentali per la sopravvivenza e il futuro del genere umano ».
Nuovi problemi, nuovi orientamenti e nuove lotte sono dunque all’ordine del giorno nel dibattito federalista. Con la svolta mondialistica, l’attenzione dei federalisti si è concentrata sempre più sul problema della pace « come obiettivo supremo della lotta politica » e sulle strategie per poter cominciare a controllare, anche se imperfettamente, la transizione verso la democrazia internazionale e il governo mondiale. In relazione a questa seconda svolta culturale, si è sentita l’esigenza di rinnovare la politica di formazione e di reclutamento dei nuovi militanti e di dar vita ad una nuova edizione della rivista Il Federalista, che viene pubblicata anche in inglese e in francese per avviare un dibattito su queste prospettive a livello internazionale. Significativamente, l’editoriale del primo numero della nuova serie si intitola « Verso un governo mondiale » e cerca di definire i primi orientamenti politici per un’articolazione mondiale della strategia federalista.
 
 
Prime direttive d’azione per il militante federalista.
 
In questa fase della storia europea e mondiale il militante federalista deve far proprio un duplice impegno: quello politico, di battersi per la Federazione europea, e quello culturale, di affermare il federalismo come cultura della pace.
Non si acquisiscono queste capacità di lotta che con un duro impegno personale. Militanti si diventa se si affronta il primo dei compiti – quello che trasforma una semplice simpatia per la causa federalista in un concreto atteggiamento politico – cioè l’organizzazione della vita della locale sezione del MFE o della Gioventù federalista europea (GFE). I compiti organizzativi sono spesso sottovalutati in politica, ma basta riflettere sul fatto che organizzare non significa altro che raggruppare uomini che condividono le stesse idee, per rendersi conto che chi rinuncia al lavoro organizzativo in verità rinuncia alla stessa lotta per l’affermazione delle sue idee. La fondazione di una sezione del MFE, per quanto modesto sia il numero degli iscritti, costituisce l’atto di nascita del federalismo in città e mette subito in relazione le forze politiche e culturali con un fatto nuovo ed un nuovo punto di vista che, per conto loro, così occupate nella gestione quotidiana della politica locale o nazionale, non terrebbero minimamente in considerazione. Le grandi idee ed i grandi progetti politici non si sono mai affermati nella storia per merito di qualche forza mitica (la nazione, la classe, ecc.), ma perché degli individui si sono presi la responsabilità di difenderli e farli trionfare, contro mille avversità, con l’aiuto dei loro compagni di lotta.
L’organizzazione è un fatto che dipende dalla volontà di ciascuno e che avviene sulla base di specifiche tecniche che devono corrispondere al tipo di lotta che si vuole condurre e alle condizioni storiche esistenti. Ad esempio, nelle prime esperienze del liberalismo europeo si è formato il comitato di notabili, mentre il partito moderno, con la sua struttura delle sezioni democratiche di base, è sorto solo nell’epoca delle lotte operaie per il socialismo; con il comunismo si è introdotta l’esperienza della cellula, ecc. Non è qui possibile approfondire questa problematica. Importa solo rilevare che la scelta dell’organizzazione a sua volta orienta e condiziona le forme del dibattito e le possibilità di lotta politica. Occorre riconoscere e valutare l’importanza di una relativa autonomia dell’organizzazione. Qualche esempio può forse servire meglio di una discussione teorica.
Il fallimento della II Internazionale fu in gran parte dovuto ad una cattiva scelta organizzativa, che è dipesa, a sua volta, da una mancata comprensione del nazionalismo come ideologia capace di pretendere un assoluto lealismo delle masse, a dispetto della solidarietà internazionale di classe tanto proclamata a parole. Di fatto, l’organizzazione dell’Internazionale è consistita (e l’internazionalismo viene ancora così concepito dai partiti contemporanei) nella somma di tante organizzazioni nazionali indipendenti, coordinate da un Bureau, a cui partecipano esclusivamente i dirigenti nazionali. È stato dunque inevitabile che la socialdemocrazia europea, nella misura in cui riusciva a partecipare con successo alle elezioni ed a rafforzare la struttura interna del partito, si « nazionalizzasse » nel senso che i quadri intermedi (ed in particolare quelli delle associazioni sindacali) sentivano sempre più la loro esistenza, il loro potere ed il loro prestigio come dipendenti strettamente dal destino dello Stato. Con l’approssimarsi della guerra, anche se la base operaia aveva dato più volte la sensazione di essere disponibile per una mobilitazione di massa contro la guerra (ed uno sciopero generale, paralizzando la produzione, avrebbe certamente impedito lo scatenarsi del conflitto), i dirigenti ed i quadri intermedi « tradirono »: essi non dovevano affatto rispondere di fronte ad una organizzazione europea di base (se fosse stato convocato un Congresso operaio europeo, come avrebbero giustificato le loro posizioni bellicistiche?) e così, ciascun partito, nel proprio parlamento votò a favore dei crediti di guerra in nome della difesa del « supremo » interesse della nazione.
Un secondo esempio può essere attinto dalla stessa storia del federalismo europeo. Fra le due guerre mondiali sorse e si sviluppò in Gran Bretagna un importante movimento federalistico, Federal Union. Ad esso parteciparono eminenti personalità culturali come Lord Lothian, Lionel Robbins, Barbara Wootton, William Beveridge, ecc. ed alcuni di essi diedero anche dei contributi importanti alla stessa teoria del federalismo. Federal Union riuscì a raggiungere una ragguardevole dimensione organizzativa. Immediatamente prima del secondo conflitto mondiale si formarono centinaia di sezioni e venne reclutato complessivamente un migliaio di iscritti. Si deve quasi certamente alla influenza di Federal Union la proposta di Churchill al governo francese, ormai in preda al panico di fronte agli eserciti di Hitler, di congiungere il Regno Unito e la Francia in una sola federazione, che avrebbe certamente costituito il nucleo, nel dopoguerra, di una più ampia federazione europea.
Nonostante ciò, Federal Union scomparve dalla scena politica inglese non appena si dileguò la speranza di contenere l’espansione nazi-fascista attraverso l’unione federale delle democrazie e diventò evidente che anche la seconda guerra mondiale sarebbe stata risolta dall’intervento delle grandi potenze extra-europee. L’agonia di Federal Union rese cos1 problematica e precaria l’esistenza, nel Regno Unito, di altre organizzazioni federalistiche nel dopoguerra. Di conseguenza le posizioni dei partiti inglesi hanno potuto essere molto più antieuropee ed antifederalistiche di quanto è avvenuto in quei paesi in cui è esistita una organizzazione federalistica forte e combattiva.
La spiegazione più convincente di queste vicissitudini del federalismo inglese forse sta nel fatto che i dirigenti di Federal Union non avevano la stessa concezione del federalismo che si è affermata nel MFE dopo la svolta autonomistica. Il loro impegno federalistico si è limitato a combattere la minaccia nazi-fascista incombente sull’Europa. Essi non hanno saputo scorgere nel federalismo una risposta al problema della crisi del sistema europeo degli Stati e alla fase sovrannazionale del corso della storia. Ciascuno di essi avrebbe certamente indicato il federalismo come la sola risposta ragionevole al problema dell’anarchia internazionale e della pace. Ma ciascuno si sentiva nel suo intimo ancora liberale, socialista, ecc., prima che federalista. Fu così che quando gli avvenimenti politici relegarono dietro le quinte il problema dell’unità europea, nessuno dei dirigenti di Federal Union si impegnò in prima persona per tenere in vita l’organizzazione federalistica e ciascuno ritornò « entro gli antichi stampi » ad occuparsi degli affari correnti, che per definizione vanno nella direzione del mantenimento, e non del superamento, dei poteri nazionali esistenti.
L’esempio di Federal Union può essere di una certa utilità per chiarire i difficili compiti che dovranno affrontare, molto presumibilmente, la presente e la prossima generazione di militanti federalisti. Bisogna sfruttare la relativa autonomia dell’organizzazione, rispetto al processo politico e culturale, per far iniziare al federalismo un nuovo ciclo di vita. Non possiamo oggi certamente sapere se il secondo tentativo di fondare lo Stato europeo avrà successo. Possiamo però dire che esso è ben avviato, che è possibile riuscire e che ciascuno di noi ha il dovere di impegnare tutte le proprie energie per contribuire alla fondazione della Federazione europea. Ma l’Europa non è il mondo e, soprattutto, una Europa chiusa su se stessa e sui suoi meschini interessi costituirebbe una sciagura per gli Europei e per il mondo intero. Noi dobbiamo batterci non solo per unire l’Europa, ma anche per fare di questa unione un modello di convivenza per il mondo intero, perché solo adottando il modello federale tutti i popoli della Terra potranno assicurarsi la pace e la giustizia internazionale. Se i popoli europei hanno saputo trovare la via della pace dopo secoli di guerre, di odi e di massacri, perché non potranno adottare le medesime soluzioni i popoli del Medio Oriente, dell’America Latina, dell’Africa, ecc.? E se questa è la via che l’umanità trova ragionevole seguire, è forse del tutto privo di fondamento pensare che un giorno gli Stati affideranno il potere di controllare e detenere gli armamenti a un governo mondiale? I tempi sono maturi per porre queste domande. Lo sono dunque anche per trovare delle risposte. La battaglia per l’Unione europea sarà fatta propria da un numero crescente di simpatizzanti se si sapranno mostrare le implicazioni cosmopolitiche del federalismo europeo.
Questo compito, per il momento, può essere assolto principalmente attraverso l’umile lavoro di rafforzamento della nostra organizzazione, cioè attraverso il reclutamento di nuovi militanti che condividano questa prospettiva e che si impegnino a loro volta nella fondazione di nuove sezioni. Tutto ciò che si fa per rafforzare il MFE contribuirà immediatamente al successo della lotta per la Federazione europea e, nel lungo periodo, a fare della Unione europea un laboratorio del federalismo mondiale.
Per concludere, occorre mettere in guardia i nuovi timonieri contro i pericoli che incontreranno nel pilotare il loro vascello nel tormentato oceano della vita politica. Una sezione ben organizzata deve proporsi di diventare: a) un centro di agitazione dell’opinione pubblica sui problemi dell’unità europea e del federalismo; b) un centro di elaborazione culturale. Ciò discende abbastanza logicamente da quanto si è detto sinora, ma è difficile a realizzarsi. Si può far svolgere bene alla propria sezione il compito di centro di agitazione dell’opinione pubblica applicando scrupolosamente le direttive di azione degli organi dirigenti del Movimento. Ma ciò richiede anche un’assidua partecipazione alle riunioni regionali, nazionali, ecc. perché si può, nel MFE, acquisire un corretto orientamento solo discutendo di persona con gli altri amici federalisti. Occorre poi tradurre questo orientamento in azione. Le difficoltà diventano a questo punto numerosissime e il carattere del militante è messo a dura prova. Egli è sovente costretto a impegnarsi da solo o con pochi amici e non può contare che sulle poche risorse materiali derivanti dall’autofinanziamento. Ma ciò basta. Sono ormai molti gli esempi, nella storia del MFE, di militanti che con tenacia ed orgoglio sono riusciti per lunghi periodi a tener alta la bandiera del federalismo nella loro città.
In secondo luogo, occorre che la decisione di far vivere la sezione come un centro di elaborazione culturale si traduca in precisi impegni organizzativi: un incontro settimanale in cui qualcuno si assume l’incarico di fare una relazione su un tema di interesse generale o su di un libro che vale la pena di commentare, a discutere di un articolo preparato per la pubblicazione sulla stampa federalista o esterna, o quelli comparsi sull’ultimo numero della rivista Il Federalista, ecc. È indispensabile mantenere un giusto equilibrio fra l’impegno politico e quello culturale. Ogni radicalizzazione unilaterale di una di queste due polarità conduce a pericolose deviazioni. I federalisti non hanno un potere da conquistare. La loro forza è la forza delle loro idee. I partiti esistenti, che si ripromettono molto spesso solo l’obiettivo di mantenere l’esistente, possono anche ridurre la politica alla mera conquista del potere, senza compromettere, almeno nel breve periodo, la loro sopravvivenza. Ma per i federalisti un simile atteggiamento sarebbe catastrofico. Chi separa arbitrariamente il federalismo dal suo potenziale culturale non fa altro che ridurre le capacità di successo dell’azione federalista. Altrettanto catastrofica sarebbe la pretesa di trasformare il MFE in una accademia o in club di cultura privo di agganci con l’attività politica. Vi sono, sfortunatamente, già numerosi centri di questo tipo che prosperano attraverso pseudo-attività culturali europeistiche. Essi, come i parassiti, sottraggono linfa vitale alla causa europea, perché vivono di Europa e non per l’Europa.
Il MFE è dunque un movimento in senso tecnico: raggruppa uomini che non si propongono di conquistare un potere o di gestire interessi. Il MFE è costituito da un’avanguardia cosciente di fare politica « in modo nuovo » e di rappresentare un’alternativa alla crisi della civiltà contemporanea. Il MFE non si presenta alle elezioni per non dividere le forze favorevoli al superamento della divisione politica dell’Europa e del genere umano. È l’interlocutore di tutti coloro che vogliono seriamente battersi per la pace universale garantita da un governo mondiale. Rifiuta come metodo di lotta la violenza. Garantisce la sua autonomia attraverso l’autofinanziamento dei militanti.
Nel lasciare il confino di Ventotene nel 1943, Spinelli racconta nelle sue memorie di aver provato una « solitaria fierezza » nei confronti dei propri compagni di prigionia, « perché nessuna formazione politica esistente mi attendeva né si preparava a farmi festa, ad accogliermi nelle sue file. Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una battaglia nuova e diversa ... Con me non avevo per ora, oltre a me stesso, che un Manifesto, alcune Tesi e tre o quattro amici, i quali attendevano me per sapere se l’azione della quale avevo con loro tanto parlato sarebbe veramente cominciata ». La stessa fierezza di Spinelli deve oggi colmare l’animo del militante federalista, perché ciascuno, nella sua città, ha la responsabilità di far vivere un movimento nuovo e diverso. Ma da allora un lungo cammino è stato percorso. Ogni militante è oggi cosciente di continuare una gloriosa tradizione di pensiero e d’azione e sa che, per quanto difficile sia l’impegno a lui chiesto, può contare sull’aiuto di una forza organizzata e in crescita. perché i giovani non hanno affatto rinunciato a rinnovare il mondo e progettare il futuro.
 
Guido Montani


*Si tratta della Introduzione allo Stage per giovani militanti federalisti, organizzato a Ventotene nei giorni 1-8 settembre 1984.

 

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