XI année, 1969, Numéro 3-4, Page 117
UNA ELEZIONE PER L’EUROPA
Esposizione del significato e dei problemi del disegno di legge di iniziativa popolare per l’elezione unilaterale diretta dei delegati italiani al Parlamento europeo, a cura della Commissione Italiana del Movimento Federalista Europeo
IL SIGNIFICATO POLITICO DEL DISEGNO DI LEGGE
Introduzione di Mario Albertini, Presidente del Bureau Exécutif del Movimento Federalista Europeo
1. — I precedenti.
In modo più netto in Italia che altrove, l’azione federalista è sempre stata concepita, a partire dal Manifesto di Ventotene (1941) e dalla fondazione del Movimento Federalista Europeo (1943), come la risposta storica alla crisi storica degli Stati nazionali del sistema europeo. Questa crisi, mascherata dall’ideologia nazionale che ha falsato l’analisi storica di tutte le correnti politiche, ma riconosciuta dal pensiero federalistico sin dall’inizio del secolo, si è manifestata brutalmente con il fallimento dell’Internazionale socialista e lo scoppio della prima guerra mondiale. Ha provocato il fascismo, il nazismo, l’impotenza della Francia e della Gran Bretagna, la seconda guerra mondiale, il crollo del sistema europeo e la dipendenza degli Stati nazionali dalle potenze continentali a statuto federale. Senza la crisi degli Stati nazionali, non ci sarebbero stati né i tentativi di unità europea dopo la prima guerra mondiale, né il processo di integrazione del secondo dopoguerra.
Fedele a questo insegnamento della storia, che svela il carattere illusorio o nefasto delle alternative nazionali, il M.F.E. non ha mai perseguito obiettivi compatibili con lo esercizio del potere negli Stati e con il loro mantenimento, ma ha impostato la sua azione come una alternativa agli Stati stessi, attestandosi sulla contrapposizione della via europea alle vie nazionali. Contro tutto e contro tutti, ma in accordo con la ragione e con la realtà, ha portato avanti l’alternativa federale europea come una lotta costituzionale e costituente, il cui protagonista è il popolo del nostro tempo, un popolo in formazione: il popolo europeo, un popolo di nazioni, pluralistico, federale.
Questa scelta, che assegnava al M.F.E. un ruolo di iniziativa per lo schieramento a livello europeo dei cittadini e dei partiti (indispensabile per fondare il primo nucleo federale), e comportava un salto qualitativo dalle nazioni alla Europa non solo come traguardo istituzionale ma anche come pratica di lotta politica, ha escluso il M.F.E. dalla lotta politica nazionale, collocandolo sul campo europeo ancora scoperto in una posizione di avanguardia, nettamente distaccata dal grosso delle forze, rimaste nei campi nazionali nonostante l’incidenza sempre maggiore delle decisioni europee in materia economica e in materia politica nell’ambito della N.A.T.O. Si tratta di una posizione paragonabile, sotto il profilo strategico, a quella dei mazziniani nei confronti dei moderati durante l’unificazione italiana. I mazziniani opponevano il popolo italiano e la costituente alla lega economica e alla confederazione dei moderati. I federalisti hanno opposto il popolo europeo e la costituente alle comunità europee prive di legittimazione democratica e di carattere statuale.
Pur agendo come una avanguardia, il M.F.E. non ha mai dato alla sua azione il carattere di una fuga in avanti, ma quello di una lunga e tenace opera di preparazione, in convergenza critica con la politica europeistica dei governi nazionali promossa dagli Stati Uniti, per essere pronto a far intervenire il popolo europeo in occasione di fasi critiche dell’integrazione europea e delle congiunture nazionali, cioè in momenti nei quali diventa possibile, e necessario, introdurre fattori nuovi nel processo politico.
2. — Il Mercato comune e l’alternativa federale.
Sin da quando il Mercato comune era allo stato di progetto, i federalisti, consapevoli che l’unificazione economica non avrebbe prodotto da sola quella politica, e non sarebbe nemmeno giunta a compimento senza un governo federale, criticarono duramente l’ottimismo di maniera dei governi e dei partiti, e condussero delle campagne popolari in nome del popolo europeo e del suo mezzo legale di espressione: la costituente. Lo scopo era quello di non smarrire la via maestra, e di giungere al momento della crisi inevitabile dell’integrazione europea, che secondo i federalisti avrebbe riguardato, come in effetti è accaduto, gli Stati stessi e i loro rapporti con le grandi potenze, su una posizione capace di sbloccarla.
In particolare, per quanto riguarda il fronte italiano della lotta, i federalisti avevano previsto, in mancanza di uno sbocco democratico europeo, la crisi del centro-sinistra. Sulla base di questa preparazione, di queste previsioni, e di tendenze emerse negli stessi Parlamenti nazionali, essi decisero, nel 1967, di cercare di ottenere una elezione europea unilaterale in Italia tra il 1969 e il 1970.
Li sorreggeva, come li sorregge ancora, la convinzione che questo fatto potrebbe avviare il trasferimento dei partiti e dei cittadini dalle nazioni all’Europa, vale a dire l’intervento nella lotta del popolo europeo. In effetti, il diritto elettorale europeo, riconosciuto in Italia, non potrebbe essere a lungo negato altrove. D’altra parte, con i cittadini e i partiti schierati a livello europeo, il fronte europeo non solo si gioverebbe di un sostegno politico che non ha mai avuto, ma vedrebbe finalmente riconosciuta da tutti la sua vera natura. La ragione, la ragione di qualunque teoria politica, stabilisce senz’altro che un’area politica nella quale intervengono direttamente i cittadini e i partiti non può non darsi un assetto costituzionale, non può non divenire la sede di uno Stato nuovo e di un popolo nuovo.
E’ illuminante notare che vale, anche a questo proposito, un’analogia con il Risorgimento, che dette luogo alla convergenza dei mazziniani più realistici, e dei moderati più aperti, proprio sulla soglia dello sbocco statuale del moto italiano.
3. — La legge di iniziativa popolare.
Decimati dalla posizione di critica e di isolamento tenuta nei lunghi anni dell’euforia del Mercato comune, i federalisti sono riusciti tuttavia, grazie alla loro fedeltà al popolo europeo, e per aver preso la posizione giusta nel momento giusto, a rompere l’isolamento, e a trovare in seno all’opinione pubblica, al Consiglio italiano del Movimento Europeo, e tra gli esponenti più illuminati della democrazia di base e di vertice — nonostante il silenzio della stampa — un consenso sufficiente per far presentare dal popolo stesso un disegno di legge per l’elezione diretta dei membri italiani del Parlamento europeo.
In tal modo essi hanno potuto dare alla loro iniziativa la maggiore efficacia e la maggiore dignità possibili, ed è significativo che abbiano trovato proprio nel popolo la forza — che non poteva stare nella loro organizzazione di avanguardia — per giungere sino a questo punto. Le grandi modificazioni della vita politica e sociale hanno sempre avuto la loro base di partenza, e la loro conclusione, nella volontà popolare, che viene sottovalutata solo da coloro che si richiamano ai principii democratici ma non sanno né comprendere quali siano gli obiettivi di carattere veramente progressivo, né affidarne il perseguimento alla volontà stessa del popolo.
4. — La presentazione del disegno di legge.
Il disegno di legge è stato presentato al Presidente del Senato, Amintore Fanfani, il giorno 11 giugno 1969 da una delegazione guidata da Giuseppe Petrilli, Presidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo. Con perfetto ossequio all’espressione costituzionale della volontà popolare, il Presidente Fanfani, nel dar notizia dell’avvenuta presentazione, ha auspicato un rapido esame, e l’approvazione, del disegno di legge. Dopo la comunicazione del Presidente del Senato, il Ministro Emilio Colombo, a nome del governo, e i Senatori Caron, Pieraccini, Cifarelli, Parri, Bergamasco, Franza a nome rispettivamente della D.C., del P.S.I., del P.R.I., degli Indipendenti di Sinistra, del P.L.I. e del M.S.I., si sono espressi a favore di una rapida approvazione. I Senatori Di Prisco e Fabbrini, a nome rispettivamente dello P.S.I.U.P. e del P.C.I., si sono riservati di esprimere un giudizio una volta conosciuto il testo del disegno di legge.
Ha così ricevuto una prima consacrazione ufficiale il consenso ottenuto nel corso della campagna, e che si è manifestato, come risulta dalla documentazione che segue, in Italia con l’intervento e il discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Mariano Rumor, alla sessione del 4 ottobre 1969 del Comitato Centrale del M.F.E., con prese di posizione dei partiti, e con dichiarazioni personali di Ministri, Sottosegretari e moltissimi Parlamentari; e, negli altri paesi, ivi compresa la Gran Bretagna, con iniziative parlamentari, e con dichiarazioni di solidarietà di moltissime personalità europeistiche, tra le quali lo stesso Hallstein, che si recò a Milano, il 15 febbraio 1969, per elogiare, durante una pubblica manifestazione, i federalisti italiani per la loro iniziativa «giusta e presa al momento giusto».
Mentre questo opuscolo era in preparazione, l’esame del disegno di legge ha avuto inizio. Il 12 ottobre 1969 la Giunta consultiva per gli affari delle Comunità europee, presieduta dal Senatore Giraudo, ha approvato all’unanimità un parere, destinato alle Commissioni riunite prima e terza che dovranno esaminare il disegno di legge in sede referente, con il quale esprime «il suo apprezzamento per il fine politico che il disegno di legge intende perseguire».
5. — Natura e scopo del disegno di legge.
Il disegno di legge non è fine a sé stesso. Il suo scopo immediato è quello di indurre i governi a rispettare finalmente le disposizioni dell’art. 138 del Trattato C.E.E. per l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo. Il suo scopo ultimo è quello di dar inizio a un processo istituzionale che consenta di affidare al popolo europeo la risposta ai problemi di politica internazionale, di politica economica, di stabilità e sviluppo della democrazia che hanno una dimensione europea, e per la cui soluzione il tempo si sta consumando inesorabilmente. L’approvazione della legge risulterebbe perciò inutile se rinviasse l’elezione europea in Italia a dopo il 1970, cioè ad un momento nel quale il rilancio europeo sarà cosa fatta, con o senza l’elezione del Parlamento europeo; e nel quale, se non saranno gli Europei a fare le scelte che li riguardano, le faranno per loro, su un indirizzo già segnato, i Russi e gli Americani.
E’ alla luce di questi scopi, in questa ora del destino per l’Europa, che devono essere valutate le difficoltà di una elezione europea unilaterale in Italia. Considerata nel quadro elettorale tradizionale, in relazione al comportamento degli elettori, essa può sollevare a giusta ragione delle perplessità, anche se in effetti non presenta, nemmeno sotto questo aspetto, preso in esame nella documentazione che segue, difficoltà insormontabili. Ma questa considerazione non è pertinente perché una elezione di questo genere si pone in un quadro di motivazioni del tutto diverso, la cui natura è tale non solo da non provocare le difficoltà altrimenti prevedibili, ma da rendere addirittura certa una reazione nettamente positiva da parte degli elettori.
Il favore di tutti gli strati della popolazione per l’unità europea è attestato dai sondaggi di opinione. E’ anche noto che gli Europei sanno perfettamente di essere inferiori agli Americani e ai Russi per una sola causa: la divisione in Stati separati. A tutto ciò si aggiunge il carattere particolare di questa elezione. Essa non riguarda, come i normali fatti elettorali, la scelta di una politica e degli esponenti incaricati di realizzarla. Questa scelta non è ancora possibile perché manca ancora, a livello europeo, nonostante lo stadio avanzato dell’integrazione economica, un governo europeo con la sua completa articolazione costituzionale. A livello europeo non c’è, sotto il profilo democratico, che una no man’s land. Gli stessi Parlamenti nazionali sono costretti ad ammetterlo con sempre maggiore chiarezza. Il ministro Pleven ha usato proprio questa espressione, di per sé stessa ammonitrice, in un dibattito del 16 dicembre 1969 al Senato francese, per giustificare una legge che autorizza il governo a prendere par ordonnances misure legislative per l’applicazione di decisioni europee.
Questa è la situazione cui gli elettori si troveranno di fronte. Dovendo dare un voto, che non può corrispondere ancora alla scelta di un governo, come dovrebbe essere, essi si chiederanno quale ne sia il significato. Verrà così alla luce, nella loro coscienza, il fatto che, dove si decide il loro destino politico e sociale, c’è una no man’s land, una terra di nessuno. Mettendo in evidenza questo fatto, il voto esprimerà la volontà degli elettori di superarlo, diventerà la solenne rivendicazione dei diritti democratici del popolo europeo. La elezione assumerà pertanto, in sostanza, il carattere di un referendum pre-costituzionale europeo.
Questo carattere potrà riuscire più o meno efficace a seconda della maggiore o minore capacità dei partiti di esprimerlo, ma risulterà senz’altro dominante nel dibattito elettorale tra i cittadini, i centri di informazione e i partiti, perché dipende più dalla natura del fatto che dall’arbitrio degli uomini. La sua efficacia risulterà certamente massima se i partiti, o una gran parte di essi, riconoscendo il carattere di questa elezione, e al di là di ciò la necessità di una mobilitazione unitaria del popolo europeo per costituire veramente l’Europa, formeranno, come nella Resistenza, e per portarla finalmente a compimento con la liberazione dell’Europa dalle grandi potenze, un fronte europeo unitario, da proporre in seguito ai partiti degli altri paesi, sulla base di un programma costituzionale europeo (e con ripartizione interna dei posti per assicurare una equa distribuzione tra le Camere e i partiti).
In questo caso il dibattito elettorale farebbe cadere del tutto la cortina psicologica nazionale che impedisce ancora alla popolazione, e agli stessi partiti, di comprendere che un nesso indissolubile lega gli aspetti istituzionali del problema europeo e la linea di sviluppo del processo politico e sociale. Il carattere reazionario delle residue opposizioni alla creazione di un primo nucleo europeo, aperto perché federale, sarebbe completamente smascherato. I partiti capirebbero finalmente che anche la loro rigenerazione è un problema europeo.
In ogni caso per l’Italia, per i paesi della Comunità, per i paesi che hanno già chiesto di farne parte, per quelli che in futuro chiederanno di farne parte, sino a riunire tutta la Europa superando la divisione imposta dalle grandi potenze continentali, e per tutto il mondo, l’elezione europea avrà un significato storico: quello del primo solenne riconoscimento ufficiale del diritto elettorale europeo dei cittadini, del solo mezzo per far sì che siano gli Europei stessi a stabilire, con la loro scelta democratica, quale deve essere l’assetto della Europa.
Se si tengono presenti queste considerazioni, non si può dubitare della reazione degli elettori. Il popolo comprende perfettamente le grandi svolte della storia. Bisognerebbe ricordare che la Resistenza ha vinto perché è stata compresa dal popolo. Bisognerebbe ricordare che è stato il popolo italiano, col suo voto, a scegliere la via della ricostruzione con una saggezza che nessun partito, isolatamente preso, avrebbe potuto manifestare.
Lo Stato italiano, storicamente anacronistico come gli Stati regionali del secolo scorso, costringeva e costringe i partiti a subire l’egemonia russa o americana. Eppure, in una situazione così difficile, il popolo italiano ha saputo, con la sua distribuzione dei voti tra la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, i socialisti, e i partiti risorgimentali, prendere la sola via capace di salvare a un tempo gli istituti democratici, le condizioni dello sviluppo sociale e le possibilità europee della riconquista dell’autonomia.
Il popolo avrebbe già scelto l’Europa democratica se fosse stato consultato, e la sceglierà con piena coscienza se il Parlamento e il governo italiani non gli negheranno, contro ogni principio democratico, la possibilità di esprimersi. Questa verità indiscutibile dovrebbe essere tenuta presente da coloro che affermano che non si può fare l’Europa senza mobilitare il popolo europeo, ma non si sono associati alla avanguardia di questo popolo che ha già manifestato, con il disegno di legge di iniziativa popolare, la sua volontà di partecipare direttamente alla vita dell’Europa, né si battono per realizzare, con il diritto elettorale europeo e le sue conseguenze costituzionali, la premessa indispensabile per mobilitare il popolo europeo sui grandi temi della pace, della solidarietà con i paesi in via di sviluppo, della conquista di nuovi poteri democratici e di uno stadio più avanzato di emancipazione sociale.
6. — Considerazioni finali.
Il primo marzo 1954, Luigi Einaudi annotava nel suo diario: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti o lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani della fine del quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente ad impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nordamericana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare a una assurda indipendenza militare ed economica» (Lo scrittoio del Presidente, Torino, 1956, p. 89).
Il tempo della decisione, indicato con profondo senso storico da Luigi Einaudi mentre, esercitando lucidamente il magistero di Presidente della Repubblica italiana, ne scorgeva il destino, sta per scadere. Molti segni, che si infittiscono in modo sempre più convulso, mostrano che siamo ormai di fronte alla svolta storica prevista da Einaudi, che da cinquant’anni aveva invano levato la sua voce nel tentativo di far capire alla classe politica il carattere prioritario, drammatico e decisivo dell’alternativa federalistica al sistema ormai funesto degli Stati nazionali. L’equilibrio mondiale che ha sorretto le prime fasi dell’integrazione europea sta disfacendosi, la convergenza russo-americana avanza inesorabilmente, i poteri basati sui vecchi schieramenti internazionali si stanno sgretolando, e in questo nuovo quadro la spinta verso nuove formule di potere, e verso la sistemazione europea, ancora in sospeso dalla fine della seconda guerra mondiale, diventa sempre più forte.
Questa scadenza è decisiva per l’integrazione europea. L’alternativa ancora aperta, ma che si sta già preparando nell’una come nell’altra direzione, è fra una sistemazione europea realizzata con il contributo di un primo nucleo europeo già unito, e una sistemazione europea imposta dalla Unione Sovietica e dagli Stati Uniti d’America sulla base del congelamento dello status quo, che comporterebbe la compressione definitiva dei fermenti di rinnovamento che si manifestano sia ad Est che ad Ovest, e l’eliminazione del punto di riferimento mondiale che ha raggruppato gli Stati della Europa occidentale e ha spinto le loro forze politiche sulla via dell’integrazione.
Ma è una tragica illusione pensare che l’Europa occidentale possa affrontare in modo unitario, con sei o più governi separati, senza una autorità espressa dal popolo europeo, questa sfida globale. Più l’alternativa si avvicina, più i governi nazionali, e ormai anche quello tedesco, fanno prevalere gli interessi nazionali, per retrogradi e servili che siano, sull’interesse europeo. Solo l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, con il rovesciamento di fronte politico dalle nazioni all’Europa provocato dallo schieramento dei partiti e dei cittadini a livello europeo, potrebbe frenare questa tendenza, altrimenti irreversibile.
L’Italia potrebbe essere colpita per prima. Nella morsa di questa alternativa, lo Stato italiano rischia di perdere il controllo della forza. Con il momento della decisione si avvicina inesorabilmente quello della verità. La marcia di avvicinamento all’Europa, grazie allo sviluppo europeo dell’economia che ha generato i cosiddetti miracoli italiano e tedesco, ha ridato agli Stati l’ultimo respiro di vita. Ma lo squilibrio tra la formazione di una base economica e sociale europea (che si manifesta anche nel disprezzo della contestazione giovanile per le «sacre» frontiere nazionali), e l’isolamento politico dei partiti e dei cittadini negli Stati, ha raggiunto ormai un punto critico. E ancora una volta, come nel primo dopoguerra, la crisi si manifesta in modo più grave in Italia che negli altri paesi.
Il pericolo è nettamente localizzato. L’idea che la causa della crisi stia nei partiti guadagna sempre più terreno, con un rischio mortale per la democrazia. Ma non sono i partiti che hanno messo in crisi lo Stato, è lo Stato che ha messo in crisi i partiti. I principii liberale, democratico, socialistico e cristiano, che coprono ancora quasi tutta l’area politica italiana, ma sempre meno il settore dei giovani e del ricambio della classe politica, conservano intatta la loro validità teorica. Solo con questi principii, e con una visione pluralistica e cosmopolitica, cioè federalistica, del corso storico, si può dare all’azione umana la capacità di subordinare gli aspetti negativi della politica internazionale alle esigenze della politica interna, e di imporre alle attività economiche il rispetto assoluto dei valori prioritari di carattere civile e sociale.
Ma nel quadro italiano, dominato come le altre parti disunite d’Europa nella sfera politica dalle grandi potenze continentali, e in quella economica dalle grandi imprese a raggio internazionale; capace di sostenere l’autonomia di uno Stato-membro di una federazione europea ma non quella di uno Stato a sovranità assoluta, questi principii si traducono sempre meno nei fatti. Il popolo lo avverte, con la rassegnazione degli adulti, la contestazione o lo scetticismo dei giovani. Così questi principii, proclamati ma non realizzati, fino ad assumere un significato farisaico, stanno perdendo ancora una volta la loro presa sul cuore degli uomini, e soprattutto dei giovani, che li scambiano per relitti del passato.
L’unica alternativa è l’Europa. Solo in Europa, ma in Europa con la partecipazione di tutti, cioè con uno Stato federale capace di opporsi alle pretese delle potenze-guida, di controllare l’economia e di ridare all’azione politica il suo alimento essenziale, la fiducia nell’avvenire e la possibilità di costruirlo, questi principii potrebbero riacquistare la loro efficacia, restituendo la salute ai partiti che li rappresentano.
L’unica alternativa è l’Europa, e bisogna far presto. Nel disegno di legge di iniziativa popolare questa volontà si è manifestata. Lo spirito di routine la considera una fra le tante cose da fare per rilanciare l’Europa. Ma nelle ore gravi questo spirito, con la sua insensibilità per il senso tragico della storia, non è che lo spirito stesso della sconfitta. L’elezione generale del Parlamento europeo è possibile. L’elezione europea in Italia è indubbiamente il mezzo di pressione più forte per tentare di trasformare in una realtà questa possibilità. Ed è certo che tenere ancora in disparte il popolo europeo, o farlo partecipare finalmente alla costruzione della Europa, è una scelta fondamentale, la scelta che sta per diventare decisiva.
Per ottenere l’intervento del popolo europeo, il M.F.E. ha fatto quanto era umanamente possibile. Giungendo, dopo anni di sacrifici misconosciuti, sino alla mobilitazione popolare per la presentazione del disegno di legge, i militanti federalisti, e soprattutto i giovani federalisti, cui devo rendere l’omaggio che meritano, hanno assolto interamente, con una passione lucida, il loro compito, quello dell’iniziativa. La esecuzione spetta al Parlamento, ai partiti. In ogni caso i federalisti resteranno sul terreno, con i partiti, per dare una costituzione all’Europa, se sarà riconosciuto il potere costituente del popolo europeo, o riprendendo da soli contro tutto e contro tutti il loro oscuro cammino europeo nelle tenebre nazionali che si infittiscono sempre più.