IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno III, 1961, Numero 3-4, Pagina 117

 

 

L’unificazione dell’Italia
 
MARIO ALBERTINI
 
 
I
La Restaurazione non fu affatto minata, come taluni credono, dal contrasto fra Stati legittimi ed esigenze nazionali. Il nazionalismo era troppo debole per generare questo contrasto: l’idea nazionale non era ancora divenuta né un criterio d’azione politica, né un canone onnicomprensivo di interpretazione della storia. L’opposizione alla Restaurazione venne in realtà dalla divisione tra i princìpi liberali e democratici ed i princìpi dell’assolutismo. Questi princìpi — in teoria opposti — nel fatto durante il Settecento rimasero abbastanza collegati nell’unica corrente del dispotismo illuminato, che aveva unito i re riformatori e gli scrittori progressisti. Nell’Ottocento la politica degli Stati restaurati mantenne generalmente il carattere riformatore e tollerante, ma ciò non bastò più per contenere il moto progressista che cominciava a reclamare i diritti costituzionali della borghesia e del popolo, attaccando il legittimismo nella sua stessa radice.
Fu questo contrasto, e non l’ancora inesistente moto delle rivendicazioni nazionali, che rese idealmente debole la Restaurazione e le conferì carattere conservatore. Dal punto di vista nazionale sia i sostenitori che gli avversari del legittimismo si mossero in un primo tempo sullo stesso terreno dell’individualismo e del cosmopolitismo, e quindi delle «nazionalità spontanee» e della «supernazionalità spontanea»; e non su quello del moderno sentimento nazionale, vale a dire della coincidenza di Stato e nazione.
I moti italiani del 1820-21 e del 1831 appartengono a questo quadro. Il loro carattere municipale, deprecato o minimizzato da coloro che interpretano tutta la storia d’Italia in funzione dell’esito nazionale, corrisponde in realtà al fatto che i movimenti innovatori, in Italia come altrove, erano animati quasi esclusivamente dal proposito di ottenere le libertà costituzionali. Questo proposito si indirizzava naturalmente verso gli Stati esistenti perché l’idea di fondere lo Stato e la nazione non era ancora dominante in alcuna parte d’Europa; e si valeva di concezioni politiche universali perché il diffuso europeismo spontaneo permetteva di pensare che gli stessi ordinamenti costituzionali — quello francese secondo i liberali, quello spagnolo secondo i democratici — fossero validi per tutti gli Stati d’Europa. Nessuno del resto concepiva il proprio Stato come qualche cosa di organicamente peculiare, come una istituzione assolutamente esclusiva. Al contrario tutti pensavano il proprio Stato come un organismo subordinato a regole generali europee: i bolognesi nel 1831 disarmarono come «stranieri» i modenesi in base alla regola generale del non intervento, che in seguito essi stessi invocarono per difendere sul piano internazionale il governo delle Provincie Unite.
Nel 1831 — non nel 1820 e nel 1821 che videro moti napoletani ed il moto piemontese per l’Alta Italia — non mancarono appelli all’unità nazionale. Ma questi appelli cascarono nel vuoto, e non si trasformarono né in un programma d’azione né in un diffuso modo di pensare, perché erano il frutto di un accostamento meccanico della «nazionalità spontanea» italiana di carattere soprattutto letterario e retorico e del pensiero rivoluzionario e costituzionalistico, e non il risultato di una forte volontà nazionale o di una efficace formulazione politica del principio dello Stato nazionale. A questo risultato, che nel settore nazionale distingue il vecchio dal nuovo, non erano giunti nemmeno coloro che, retrospettivamente, furono giudicati come gli interpreti della rinnovata anima nazionale: l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni, il Rosmini, i continuatori dell’illuminismo, i romantici. In realtà essi ebbero influenza sull’incipiente moto nazionale solo perché erano abbastanza propensi ad accettare le nuove concezioni della politica e dello Stato che si stavano formando, mentre, proprio per la loro qualità di letterati, di uomini di cultura, essi erano nel fatto i soli «italiani» di allora. Non c’era allora — di italiano — che la vita delle lettere. Per questa ragione la loro partecipazione alla vita letteraria fu nel contempo partecipazione all’unica realtà nazionale. Però essi non andarono molto più in là di questo abito. Erano degli «italiani» per costume, non lo furono invece per consapevole volontà di costruire un nuovo modo di esserlo al quale tutti potessero partecipare. Essi non fecero alcun profondo tentativo di trasformare la «nazionalità spontanea» italiana nel fatto politico e popolare della ideologia nazionale, e si limitarono a subire, ciascuno secondo la sua esperienza e la sua natura, la modificazione del modo di essere italiani che si andava sviluppando senza rendersi veramente conto del grande mutamento di idee e di istituti che si sarebbe sprigionato dalla rivoluzione nazionale.
I sentimenti italiani di Foscolo non gli impedivano di disprezzare il volgo, e di ritenerlo una classe da escludere dalla politica. Manzoni, che pure ebbe presentimenti ed aspirazioni di carattere nazionale, subordinava l’eventuale unificazione italiana a fini morali senza caratterizzarla vigorosamente, e mostra ad esempio di compiacersi quando trova che la parola popolus, in certe leggi dei re franchi, era usata senza distinzione di razze. Su questa linea di pensiero il patriota Berchet pensava addirittura che si stesse sviluppando una nazionalità europea. Non occorre addurre altri esempi, quando si tenga presente il contesto generale di queste situazioni: il generico sentimento italiano non si era ancora trasformato, nemmeno nelle minoranze attive, in un patriottismo nazionale moderno. I valori e i fatti nazionali erano ancora, nel fatto e nei propositi, slegati dal processo del potere come lo erano stati nel Settecento e precedentemente.
Il mutamento ebbe inizio nell’animo di Mazzini. Egli fu il primo ad impiegare l’idea nazionale come un canone onnicomprensivo e come un criterio esclusivo d’azione: per questa ragione egli respinse l’individualismo ed il cosmopolitismo, che lasciano in ombra i sentimenti ed i caratteri nazionali; per questa ragione criticò come non italiani, come non nazionali, i moti del 1820-21 e del 1831. Essendosi opposto alla società del suo tempo e alle concezioni politiche del passato in funzione dell’idea nazionale egli ne fece una cosa nuova; una cosa che non esisteva ancora, che si trattava di realizzare. In tal modo egli mise in forte rilievo gli elementi di discontinuità tra il vecchio modo di sentire basato sulla «nazionalità spontanea» che rendeva gli italiani «italiani» per le lettere, piemontesi, lombardi, veneti e via dicendo per nascita (nazione), e quello nuovo che stava per sorgere. Da Mazzini pertanto si può datare l’inizio della trasformazione della «italianità» da semplice stato d’animo letterario limitato a pochi individui alla condizione di sentimento nazionale moderno estensibile ad una vasta popolazione.
E’ vero che, presa alla lettera, la dottrina della nazione di Mazzini può sembrare irreale, e non corrisponde in ogni modo alla coscienza nazionale italiana che conosciamo. Tuttavia ha carattere realistico il suo fondamento: l’idea della fusione di nazionalità e Stato, che nella questione nazionale divide effettivamente il vecchio dal nuovo. Ha pure carattere realistico la consapevolezza del fatto che questa fusione è il punto di partenza, e non il punto di arrivo, del processo nazionale. Ed ha inoltre carattere realistico la previsione del successo dell’idea nazionale, e del fatto che le nazioni avrebbero mutato radicalmente il corso della storia d’Europa sommergendo il mondo del Settecento.
Gli stessi aspetti fantastici della dottrina mazziniana della nazione non sono del tutto slegati dalla realtà. Per un aspetto, che si vedrà in seguito, le idealizzazioni di Mazzini rappresentano lo sforzo di pensare come nuovi dati del presente o del passato, e segnano pertanto il trapasso storico dallo Stato dinastico a quello nazionale; per un altro, tali idealizzazioni corrispondono a concrete esigenze della fase iniziale della lotta nazionale. La deformazione spiritualistica della nazione è infatti inevitabile in tutti i moti nazionali che poggiano su una ristretta base sociale, ed è tanto più forte quanto più questa base è ristretta. In Europa, nella prima metà del secolo scorso, questa base era effettivamente ristretta e pertanto la formazione dello Stato nazionale non poteva corrispondere né alle aspettative né alle pretese della maggior parte della popolazione, il cui orizzonte sociale non superava ancora il piccolo cerchio della vita locale. Ma coloro che volevano battersi per la nazione dovevano egualmente pensare ai suoi componenti virtuali come ad individui capaci di allargare questo orizzonte sino alle dimensioni nazionali; e siccome un fatto di questo genere non era assolutamente concepibile in termini economici e perciò concretamente sociali, lo pensarono in termini di puro dover essere, come un modo di vivere basato su incentivi esclusivamente ideali. In ultima analisi, essi non potevano non pensare il popolo come un insieme di individui da educare. Naturalmente questa idea della nazione animò all’inizio soltanto una piccola avanguardia di uomini disinteressati che aperse una strada nuova, e divenne una idea condivisa anche dai politici «realistici» solo quando il principio nazionale cominciò a funzionare effettivamente come un principio di legittimità politica, cioè come una giustificazione ideologica della presa o del mantenimento del potere. Ciò accadde dove si determinarono nuove situazioni politiche fondate sui nuovi dati economici — che richiedevano mercati bene organizzati su vasto quadro, cioè «nazionali» — e sul mutato equilibrio internazionale, che costrinse i maggiori Stati ad adeguarsi al livello di potenza raggiunto dagli Stati già nazionalizzati, ed introdusse comunque dappertutto la possibilità di valersi del principio nazionale come giustificazione della lotta per il potere.
Fatte queste premesse per situare il pensiero mazziniano nel suo contesto politico, dobbiamo analizzare la posizione di Mazzini nei confronti dell’individualismo, del cosmopolitismo e dell’idea nazionale allo scopo di individuare gli elementi che concorsero a formare nel suo pensiero la discriminazione nazionale tra i due termini individuo ed umanità, e di vedere quale significato essa avesse. Anzitutto bisogna tener presente un dato messo in luce da Salvatorelli: Mazzini ante-Giovine Italia era individualista, cosmopolita, e negava il valore dei caratteri nazionali. Nel saggio D’una Letteratura europea (1829) Mazzini scrive: «La storia particolare delle nazioni sta per finire, la storia europea per cominciare». In un altro scritto del 1829 (Dramma storico) egli afferma inoltre che il valore supremo è: «L’uomo di tutti i tempi, di tutti i luoghi… centro dell’universo… non inglese, non francese, non italiano, ma cittadino della vasta terra». Orbene, bisogna subito osservare che Mazzini, anche quando mise in primo piano i dati nazionali, non abbandonò mai questi ideali di carattere supernazionale. Si può in effetti concepire la sua dottrina della nazione come il frutto dell’esperienza di un uomo che, convintosi che l’individualismo e il cosmopolitismo non fossero in grado di realizzare la libertà e la fratellanza, escogitò e sostenne l’associazione nazionale proprio allo scopo di disporre di un mezzo efficace per raggiungere fini supernazionali.
Ciò sembra in contrasto con la teoria del primato italiano. Per spiegare questa contraddizione — come, del resto, per intendere Mazzini — bisogna tener giusto conto della particolare natura del suo pensiero politico. Mazzini fu dominato da una sola, decisiva passione: quella della lotta per l’Italia. Ma l’Italia era divisa, ed egli dovette pensare ed agire in un quadro nazionale che esisteva solo nella sua mente. Data la natura politica del compito, e la conseguente necessità di valersi degli uomini per affrontarlo, egli doveva cercare di far fare ad altri la sua stessa esperienza. Ma il compito era particolarmente difficile perché si trattava sia di far nascere un nuovo modo di vedere la società, sia di occuparsi della più difficile lotta per il potere: quella rivolta alla fondazione di uno Stato nuovo su un’area nuova. Per affrontare un compito simile bisognava unire un massimo di astrazione, di teoricismo, con un massimo di realismo, di politicità; bisognava giungere ad una eccezionale concentrazione della volontà e del pensiero. Fisso nel suo compito di pensiero e di azione, egli collegò ogni idea ed ogni atto della sua vita al problema italiano. Per questa ragione egli non poté mantenere l’idea nazionale nei limiti della sfera politica, e ne fece invece il centro di una visione totale del mondo. Si tratta però di una visione del mondo nella quale la manifestazione di stati d’animo non elaborati concettualmente tiene spesso il posto delle riflessioni teoriche.
In effetti, per spiegare che cosa fosse la nazione, egli ricorse spesso ad argomentazioni psicologiche che, per sé considerate, varrebbero soltanto per la vita privata degli individui: «Mio Dio — prega, salpando, il marinaio della Brettagna — proteggimi: il mio battello è sì piccolo e il vostro Oceano così grande! E quella preghiera riassume la condizione di ciascuno di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare indefinitamente le vostre forze, la vostra potenza d’azione».
Per Mazzini questo ricorso a generiche considerazioni sulla debolezza dell’individuo isolato e sulla vastità dell’umanità non costituisce un artificio retorico ma un vero e proprio modo di pensare. Consideriamo, ad esempio, il seguente passo, particolarmente esemplare perché mette in evidenza tale modo di pensare proprio nel contesto di una critica — come «inveramento» piuttosto che negazione — del cosmopolitismo: «Se per cosmopolitismo intendiamo fratellanza di tutti, amore per tutti, abbassamento delle ostili barriere che creano ai popoli, separandoli, interessi contrari, siamo noi tutti cosmopoliti. Ma l’affermare questa verità non basta; la vera questione sta nel come ottenerne praticamente il trionfo contro la lega dei governi fondati sul privilegio. Or quel come implica un ordinamento. E ogni ordinamento richiede un punto determinato donde si mova, un fine determinato al quale si miri. Perché una leva operi, bisogna darle un punto di appoggio e un punto sul quale si eserciti la sua potenza. Per noi quel primo punto è la patria, il secondo è l’umanità collettiva. Per gli uomini che si intitolano cosmopoliti, il fine può essere l’umanità, ma il punto di appoggio è l’uomo-individuo… Solo, in mezzo all’immenso cerchio che si stende d’innanzi a lui e i cui confini gli sfuggono, senz’armi fuorché la coscienza dei suoi diritti fraintesi e le sue facoltà individuali, potenti forse, pur non di meno incapaci di spander la loro vita in tutta quanta la sfera di applicazione che è il fine, il cosmopolita non ha se non due vie tra le quali gli è forza scegliere: l’inerzia o il dispotismo».
In questa meditazione Mazzini stabilisce un rapporto tra le due relazioni: individuo-immenso cerchio che lo sovrasta (in un contesto genericamente esistenziale) e individuo agente nella sfera politica-umanità; ma lo stabilisce in modo del tutto arbitrario perché si limita ad attribuire alla seconda relazione ciò che si può pensare della prima. Si tratta di un modo di pensare completamente dogmatico, che trasferisce senza alcuna giustificazione stati mentali prodotti da generiche esperienze psicologiche sul piano politico, il quale a sua volta fa tutt’uno con quello filosofico e addirittura con quello religioso. E’ questo il modo con il quale Mazzini elaborò la sua concezione del mondo nella forma di una filosofia della storia. C’è del resto un rapporto evidente tra la sua teoria dei tre cicli della storia — dispotico, individuale ed organico — e la sua esperienza personale: quella del giovane che visse sotto il dispotismo, divenne individualista per mettere l’uomo al centro dell’universo ma non poté mantenerlo a tale altezza e, ritrovatolo cioè ritrovatosi solo, imputò questa solitudine alla società del suo tempo — quella dell’uomo-individuo — e proiettò nel futuro, nell’era delle nazioni, ciò che non era possibile avere ma più gli stava a cuore: una totale solidarietà umana, e con essa una forza ed una virtù meravigliose, pari al suo terribile compito.
Questo nesso tra esperienze psicologiche e generalizzazioni pseudo-teoriche è una costante del pensiero di Mazzini, costante che si mantenne abbastanza stabile proprio perché egli la fissò in una concezione del mondo. Naturalmente tale continuo scambio di stati d’animo e di teorie, e tale altrettanto continua trasposizione di idee da un campo di esperienza ad un altro, resero il linguaggio di Mazzini molto distante da quello di senso comune. Questo dato va sempre tenuto presente per intendere che cosa egli pensava realmente quando parlava di individualismo, di cosmopolitismo, di nazione e di umanità. Del resto Mazzini non avrebbe potuto identificare senza alcun residuo, in un modo incredibile per chi non tenga presente il grado di concentrazione della sua volontà, la filosofia, la religione e la politica del passato — come «individualismo» — con la tematica psicologica dell’uomo solo senza forzare i termini del linguaggio ordinario. Questa forzatura — che misura il suo distacco dalla realtà — gli permise di pensare il vagheggiato cambiamento politico come un cambiamento totale della condizione umana, e di contrapporre alla realtà del mondo degli uomini «isolati» dell’era pre-nazionale la visione del mondo futuro delle nazioni come quello degli uomini autenticamente associati. Mazzini credette fermamente che l’avvento delle nazioni non avrebbe inaugurato soltanto un nuovo ciclo politico, ma avrebbe addirittura aperto una nuova era religiosa contraddistinta dall’inizio della solidarietà umana e dalla fine dell’individualismo, iniziato a suo parere con la predicazione di Gesù Cristo e terminato con la rivoluzione francese.
Questo è quanto Mazzini pensava con l’idea di nazione. L’idea nazionale gli aprì uno sterminato orizzonte comprensivo dell’intera storia della civiltà europea e virtualmente di tutta la storia umana. Effettivamente la nazione, intesa come mezzo della trasformazione dei comportamenti umani dall’egoismo della fase individualistica alla fratellanza della fase organica è un oggetto sostanzialmente diverso da quello cui si pensa normalmente quando si usa questa parola. C’è una enorme differenza tra l’insieme di cose e di idee che egli comprese nell’orizzonte nazionale e ciò che gli individui esperiscono quando agiscono o pensano in un concreto contesto nazionale.
Come è noto Mazzini riteneva che i dati geografici, tradizionali e linguistici — vale a dire gli elementi che caratterizzano secondo il modo comune di vedere le nazioni — non sarebbero che «l’indizio» delle situazioni nazionali. Erano i fatti nazionali che egli aveva di fronte, ma non poteva riconoscere come veramente tali perché non corrispondevano a quelli delle nazioni del suo sogno. Le vere nazioni avrebbero dovuto esprimere una nuova umanità: non potevano perciò essere ritrovate né nel passato né nel presente. La loro esistenza si sarebbe dispiegata a partire dal giorno in cui avessero acquistato coscienza del loro valore e del loro significato, cioè a partire dal giorno in cui avessero ricevuto, con la loro «missione», il loro «battesimo» e la loro «consacrazione». Soltanto allora, secondo Mazzini, si sarebbe potuto parlare seriamente dell’esistenza delle «nazioni».
Intesa come «missione» di libertà e di fratellanza per tutta la umanità e perciò come un mezzo per tali fini, la «nazione» sta effettivamente su un piano completamente diverso da quello di qualunque fatto sociale conosciuto. In tal caso essa può venir pensata davvero come la fonte esclusiva della vita spirituale, sociale e politica degli individui, e quindi nella sfera teorica come il criterio onnicomprensivo di spiegazione della realtà e nella sfera pratica come il sommo valore. Ma una forma simile di vita sta completamente al di fuori di ogni esperienza umana di carattere realistico. Essa non può dunque basarsi sul concreto essere di dati storici o naturali: chi la voglia pensare egualmente, come Mazzini, deve perciò fondarla sul puro dover essere della «missione», e deve concepire l’uomo come un essere la cui condotta possa essere guidata dall’idea del dovere invece che da quella del diritto. Bisogna salire a queste altezze per pensare che le nazioni debbano, e possano, essere amorose le une delle altre. E, a questo punto, trasformati gli Stati in comunità di fratellanza e di libertà, sarebbe compiuto il passaggio dalla umanità che conosciamo nella mazziniana umanità come famiglia di nazioni.
Mazzini non ebbe molti dubbi a questo proposito. Mentre predicava agli uomini la nazione, egli propagandava infatti il seguente criterio morale: «Ad ogni opera vostra nel cerchio della patria o della famiglia, chiedete a voi stessi: se questo ch’io fo fosse fatto da tutti e per tutti, gioverebbe o nuocerebbe all’Umanità? E se la coscienza vi risponde: nuocerebbe, desistete: desistete quand’anche vi sembri che dall’azione vostra escirebbe un vantaggio immediato per la Patria o per la Famiglia».
Si tratta evidentemente di un criterio che farebbe giudicare chi lo seguisse un traditore della patria (right or wrong my country). Si tratta di un criterio assurdo, impossibile da seguire in tutti i rapporti normali della vita sociale almeno sino a quando gli uomini non avranno mutato natura, e non si faranno guidare più dai loro interessi. Ma si tratta anche del criterio che misura il distacco del pensiero di Mazzini dalla realtà. Solo immaginando le nazioni come gruppi nei quali un criterio simile abbia carattere realistico si può interpretare rettamente il suo pensiero. Se si lascia cadere questo punto, esso cade interamente. Cade l’idea del passaggio dall’era dell’individualismo a quella della vera solidarietà; cade il primato dei doveri sui diritti; cade la fratellanza dei popoli: tutto il mondo di Mazzini, con la sua armonia tra valori politici, morali e religiosi, si vanifica. E, fatto che riguarda direttamente la nostra interpretazione, se si lascia cadere questo punto l’affermazione della priorità dei fini supernazionali su quelli nazionali, e quella della possibilità di valersi delle nazioni per unire l’umanità, divengono pure frasi retoriche o, peggio, deliberate menzogne.
In realtà Mazzini — lo prova la sua vita stessa, il suo destino di oppositore — non abbandonò mai questo modo di pensare e cercò, per quanto era possibile, di interpretare con tali idee tanto la storia a venire quanto quella passata. Egli concepì il passato come un’era di divisioni, il futuro come un’era di unità. Quando cercava di precisare quale fosse il significato della divisione e dell’unità dell’umanità, e si riferiva in concreto all’Europa, egli la pensava come una terra divisa dalla ragion di Stato degli Stati dinastici («l’Europa come i re l’hanno creata, ostile, divisa, smembrata, discorde»), credeva che essa stesse per perdere anche la modesta unità compatibile con tali divisioni («l’unità europea come l’intese il passato è disciolta, essa giace nel sepolcro di Napoleone») ed affermava che essa avrebbe potuto essere unita in futuro solo dalle nuove virtù umane che sarebbero germogliate dalle nazioni. Egli scrisse testualmente, rivolgendosi agli italiani: «E quando liberi, uniti… moverete in bella e santa armonia allo sviluppo delle vostre facoltà e della missione italiana, ricordatevi che quella missione è l’Unità morale d’Europa: ricordatevi gli immensi doveri che essa vi impone». (Dei doveri dell’uomo). La missione è il tratto essenziale della vita nazionale e la missione dell’Italia, la nazione più cara al suo cuore, è quella di unire l’Europa. Questo è il primato italiano: un primato che non contraddice — ammessi i postulati di Mazzini — l’umanità e la fratellanza dei popoli perché non ha nulla a che fare con la dominazione politica, ma è il primato religioso del popolo-Cristo, un primato di doveri e non di diritti.
Si potrebbe obiettare che l’unificazione dell’Europa non prese mai, nel pensiero di Mazzini, la forma di un progetto definito. Come ha mostrato lucidamente Dante Visconti, Mazzini, quando cercava di prevedere la sistemazione dell’Europa delle nazioni, non sapeva uscire dalla concezione dell’equilibrio fra Stati sovrani, dalla balance of power da lui tanto aborrita in teoria. Egli non avrebbe potuto d’altronde pensare in modo diverso perché gli mancavano gli strumenti concettuali per concepire in un modo non fantastico, ma reale, l’unità dell’Europa nel mondo moderno. Mazzini, come gli altri protagonisti dell’unificazione italiana, non sapeva che cosa fossero le istituzioni federali. I moderati parlavano di federalismo, e intendevano una specie di confederazione di Stati monarchici sovrani; Mazzini avversava questo federalismo, parlava di unità europea, ma non aveva alcuna conoscenza della natura dello Stato federale. Lo mostra il fatto che, per spiegare come il federalismo non fosse unitario, egli addusse nel 1831 l’esempio della Svizzera che non era istituzionalmente unitaria ma non era nemmeno una federazione. Essa era infatti una confederazione e divenne una federazione solo nel 1849.
In ogni modo una critica che si basi sul confronto fra ciò che Mazzini pensava, e ciò che era realizzabile, non metterebbe in crisi soltanto gli aspetti supernazionali del suo pensiero politico. Una critica simile metterebbe in crisi tutto il suo modo di pensare. Come abbiamo detto Mazzini si raffigurava ingenuamente i suoi ideali come una concezione veritiera della realtà umana e divina, e faceva derivare da questi ideali piuttosto che da un esame positivo della realtà la visione di istituti politico-giuridici non pensati distintamente e concretamente eppure a suo parere realizzabili, e meravigliosi quanto meraviglioso era il suo sogno di una umanità perfetta. Nell’attuale clima culturale questo modo di pensare può sembrare una bizzarria, e persino una follia. Merita perciò conto di rilevare che Mazzini sapeva di pensare in questo modo, difendeva esplicitamente la sua concezione del mondo, si rifiutava decisamente di pensare in termini puramente politici e sosteneva con molto calore l’identificazione di politica e di religione.
Bisogna inoltre rilevare che nel secolo scorso in Europa concezioni simili o analoghe a quelle di Mazzini non venivano professate da individui anormali, ma da molti tra coloro che si occupavano seriamente di politica. Il secolo scorso fu caratterizzato dal tentativo di eliminare Dio, di soppiantarlo con qualche cosa di esclusivamente umano e di attribuire a tale rappresentazione dell’umano tutte le virtù divine. Il pensiero di Mazzini sta in questo contesto storico. Tra la sua identificazione della politica con la religione, e la altrui attribuzione della potenza e della virtù divina a qualche rappresentazione dell’umano, vi possono essere differenze di accidente ma non di sostanza. In effetti non c’è grande differenza tra l’idea mazziniana di un Dio che si manifesta attraverso le nazioni, quella democratica del popolo come entità perfettamente buona, e quella marxista del proletariato come creatore della società perfetta. Su basi di tal genere nel secolo scorso molti uomini politici predicarono l’avvento di una nuova era nella storia dell’umanità e vennero generalmente presi sul serio. Essi furono tutti pari nell’imputare il carattere demoniaco del potere allo Stato da loro avversato perché non nazionale, o non democratico, o non proletario, ed altrettanto pari nel dipingere in rosa il futuro nazionale, democratico, socialista visti utopisticamente come la vera fratellanza degli uomini, l’autentico governo del popolo, il salto dal regno della necessità in quello della libertà e così via.
Ed infine bisogna rilevare che la critica degli aspetti utopistici di tali teorie non corrisponde al giudicarle irrilevanti sul piano storico. In quella forma molti individui professarono la loro fede in certi valori e noi possiamo pertanto, mediante l’esame di tali teorie, mettere in evidenza gli ideali che animarono le correnti politiche in quell’epoca di transizione. Si tratta pertanto di considerare tali teorie non come rappresentazioni obiettive della realtà, ma come idealizzazioni inconsapevoli della stessa realtà, come incentivi per l’azione. Questo esame è indispensabile per il nostro problema. Esaminato da questo punto di vista, il pensiero di Mazzini mette infatti in evidenza gli ideali che animarono il movimento nazionale quando esso cominciò a prendere forma in una minoranza politica. Come abbiamo visto tali ideali erano in larga parte supernazionali. Mazzini elaborò l’idea nazionale come mezzo per affermare i valori del cosmopolitismo, e non per combatterli. Partito da questi valori, non li abbandonò mai: combatté il cosmopolitismo perché gli parve che i cosmopoliti non potessero realizzare i valori che pur professavano, e volle la nazione come un mezzo efficace per promuovere la libertà e la fratellanza nell’ambito dell’intera umanità e non per creare situazioni di privilegio a favore di questo o quel gruppo nazionale (La Nazione è il mezzo, l’umanità il fine). La politica degli Stati nazionali fu talmente diversa che generalmente si è indotti a sottovalutare, o a non valutare esattamente, questo aspetto del pensiero di Mazzini. Tuttavia, limitandosi ad una analisi dei valori senza considerare il risultato ultimo dell’iniziativa politica di Mazzini, si deve ammettere che i valori supernazionali furono le premesse ed il fine della sua dottrina della nazione e non soltanto qualche cosa di accidentale, di estrinseco, come si dice spesso.
Questo dato è essenziale per comprendere la formazione del movimento nazionale italiano. I valori supernazionali non furono infatti preminenti solo nella corrente mazziniana ma anche nella corrente moderata e nelle altre correnti che, dopo il 1831 e sino al 1848, indirizzarono gli abitanti d’Italia, ancora legati alle vecchie nazionalità regionali, verso l’idea italiana. Il dato è particolarmente significativo nel caso dei moderati, data la loro influenza sulle vicende della unificazione italiana. Prima di esaminare gli aspetti supernazionali del loro pensiero, ed allo scopo di poterli valutare, bisogna vedere quale fu la loro posizione nella lotta per l’Italia. Mentre i mazziniani erano una piccola minoranza rivoluzionaria mossa soprattutto da incentivi ideologici, i moderati appartenevano alla classe politica al potere o vicina al potere, e ne costituivano la parte che pensava all’unità italiana come al mezzo per realizzare un vasto mercato, per acquistare peso nelle relazioni internazionali e per garantire la stabilità politica.
Queste aspirazioni coincidevano con i bisogni economici e sociali dei ceti più attivi della popolazione italiana. Nonostante ciò, e nonostante la loro buona volontà italiana, i moderati non riuscirono mai ad impostare una efficace politica di unificazione dell’Italia. Il paradosso si spiega facilmente. I moderati facevano parte della classe dirigente. Il loro status politico e sociale essendo perciò piuttosto da mantenere che da conquistare, essi erano naturalmente di tendenza conservatrice. Erano pertanto propensi ad accettare le situazioni di fatto, inclini all’idea che per modificarle bisognasse contare esclusivamente sulla loro lenta evoluzione, ed in genere portati verso un modo di pensare che considerava «reali» le cose già bene sviluppate ed «irreali» quelle nuove che, per giungere a maturità, avrebbero richiesto pensieri ed azioni di nuovo genere.
I moderati in sostanza rispettavano, nel fatto e nella teoria, i poteri esistenti. In conseguenza di ciò essi concepirono l’unificazione nazionale come una evoluzione graduale che poteva iniziare dallo stesso sistema italiano di Stati regionali, e non come un processo che richiedeva una rottura totale con tale sistema ed una partenza da nuove basi istituzionali, dallo Stato unitario. La loro cautela li induceva a ritenere pazzesca una lotta popolare e rivoluzionaria nel quadro italiano, e a respingere come utopistico l’obiettivo mazziniano della costituente repubblica come qualsiasi altro progetto. che prevedesse la fondazione dello Stato unitario mononazionale come pregiudiziale. Costretti dal loro carattere e dalle loro idee a basare la strategia dell’unificazione italiana sugli Stati esistenti, essi la immaginarono generalmente, senza precisarla a fondo, come un processo condotto dagli stessi Stati, come un insieme di politiche convergenti dei governi regionali. Questo è in ultima istanza il carattere politico del cosiddetto programma federale, che reclamava una confederazione di Stati sovrani, la lega doganale, e la modernizzazione in senso costituzionale e liberistico degli Stati regionali.
In realtà questo programma non era realizzabile, e comportava persino una concezione errata del problema nazionale. Per quanto riguarda il primo punto basta tener presente che le confederazioni non contemplano cessioni di sovranità, e quindi perdita di indipendenza degli Stati associati per comprendere che il mezzo confederale non sarebbe bastato per far convergere le politiche di Stati che avevano, e non potevano non avere, diverse e divergenti ragion di Stato: quelle napoletana, piemontese, romana e così via. Per quanto riguarda il secondo punto, vale a dire l’incomprensione del problema della nazione, basta osservare che i moderati speravano di mettere in moto l’unificazione nazionale con un sistema di Stati indipendenti e sovrani, e che tale speranza implica l’ammissione dell’esistenza di una nazione su un’area pluristatale, e quindi anche quella dell’esistenza di una nazione senza Stato. Evidentemente essi non distinguevano — diversamente da Mazzini — la «nazionalità spontanea» italiana dalla moderna unità nazionale, contavano di rinvigorire questa italianità letteraria senza intaccare la sovranità degli Stati, e si cullavano nell’idea che questo sentimento avrebbe una volta o l’altra prodotto, quasi per generazione spontanea, lo Stato unitario.
I moderati finirono tuttavia con l’avere una funzione importante nell’unificazione italiana proprio per la loro errata comprensione della questione nazionale. Come abbiamo detto essi si erano proposti di modernizzare gli Stati regionali, ma anche questo punto del loro programma, che guardava indietro mentre voleva andare avanti, non era realizzabile. Considerato a se stante l’obiettivo regionale — che avrebbe in realtà spento la «nazionalità spontanea» italiana perché ogni Stato moderno e accentrato che funziona bene e si afferma nell’animo dei sottoposti genera una sua idea nazionale — fallì, ma l’averlo perseguito permise ai moderati di restare attivi nella politica di tutti i giorni (quella regionale), e perciò di tenere in vista presso l’opinione pubblica un programma italiano moderato. Il fatto ebbe grande importanza perché questa idea dell’unità — che celava gli aspetti più gravi del problema italiano ed era professata da uomini politici al potere o vicini al potere — indirizzò verso la soluzione nazionale tutte le persone che non l’avrebbero accettata se fossero state messe subito di fronte alla questione istituzionale. In questo modo i moderati portarono un contributo decisivo, anche se non esclusivo e non perfettamente consapevole, all’unificazione d’Italia. Essi ebbero la funzione di guida politica dei ceti interessati ad un mercato vasto e ad un potere politico adeguato nel periodo di transizione dall’Italia pluristatale all’Italia monostatale, e quindi l’esame del loro pensiero corrisponde all’accertamento delle aspirazioni che indirizzarono gradualmente verso il fine nazionale la parte più attiva e moderna della popolazione dei vecchi Stati e dei dominii austriaci. Con maggior precisione si può dire che, mentre i mazziniani mostrano in qual modo si potesse formare in una minoranza l’idea nazionale prima dell’esistenza dello Stato nazionale, i moderati, ed i ceti da loro rappresentati, mostrano in qual modo si potesse, per così dire, subirla ed adattarcisi a grado a grado che lo Stato nazionale divenne una idea possibile, poi una idea vicina, ed infine una idea realizzata.
Fatte queste considerazioni per illustrare la funzione dei moderati e per situare la loro azione nel contesto politico nel quale si svolse, si tratta di vedere quali fossero le idee ed i valori supernazionali presenti nel loro pensiero. Nel pensiero dei moderati si possono distinguere due aspetti: un aspetto metafisico e religioso, che inquadra i fatti politici in grandi orizzonti comprensivi di tutti i valori della vita umana, ed un aspetto storico-politico, che si limita agli elementi positivi, o presunti tali, della situazione, e particolarmente alla valutazione dei dati politici ed economici di portata immediata o vicina.
Il Gioberti del Primato rappresenta il primo aspetto. Sia che fossero sincere, sia che fossero formulate a bella posta in modo tale da compiacere la Chiesa, le idee del Primato si tradussero comunque in un grande moto di opinione che avvicinò al problema nazionale moltissime persone. E’ noto quale fosse il mezzo con il quale Gioberti pretendeva di unire l’Italia: una «Federazione», a dire il vero una confederazione, cioè una organizzazione basata sugli Stati regionali nella pienezza della loro sovranità e su una dieta confederale presieduta dal Papa. Orbene il Gioberti del Primato voleva riunire anche l’Europa e, fatto singolare, voleva riunirla con un mezzo quasi eguale a quello proposto per unire l’Italia: un mezzo di natura ecclesiastica e di tipo confederale. A suo parere l’Europa aveva: «una tale unità etnografica, morale, religiosa, civile, che manca all’Asia, all’Africa, all’America»; ma, secondo Gioberti, questa unità era stata messa in crisi dalla Riforma, non era assicurata dal diritto internazionale, e avrebbe potuto essere ristabilita soltanto per mezzo del diritto ecclesiastico. Si trattava pertanto di sostituire il diritto internazionale col diritto ecclesiastico, cioè di lasciare gli Stati così come erano e di subordinarli al «potere unificativo e pacificativo del Pontefice» (proprio qualche cosa di questo genere gli sembrava sufficiente per unire l’Italia). Il Papa avrebbe esercitato in pratica una specie di arbitrato internazionale, fatto sufficiente, secondo Gioberti, per togliere di mezzo «le ombre, i dissapori e le incertezze nei rapporti fra gli Stati».[1]
Se al Gioberti l’Europa sembrava unita dalla storia, divisa dalla politica e da riunire per mezzo del Papato, agli altri moderati, quelli che si preoccupavano soprattutto degli aspetti politici ed economici della questione nazionale, l’Europa sembrava senz’altro unita non solo dalla storia, dal costume, dalla religione e dalla civiltà, ma anche dalla stessa politica. Balbo, D’Azeglio, Durando, lo stesso Cavour, ed in genere tutti i moderati, ritenevano che l’Europa, pur essendo articolata in un insieme di Stati sovrani, costituisse nondimeno un sistema politico unitario. Essi basavano questa convinzione sulla teoria dell’equilibrio. Come è noto, secondo questa teoria nessuno Stato europeo aveva la possibilità di acquistare la forza sufficiente per ottenere l’egemonia perché tutti gli Stati erano spinti, dallo stesso bisogno fondamentale dell’indipendenza o almeno della sopravvivenza, a mantenere in equilibrio la bilancia della forza, e perciò a coalizzarsi contro il più forte che la squilibrava creando un eccessivo accumulo di potenza in qualche parte del sistema. A questo l’Europa doveva, secondo i moderati, la sua unità. In effetti nel secolo scorso il diritto internazionale, che veniva spesso chiamato «diritto europeo» perché in concreto lo si riferiva solo all’Europa, rifletteva grosso modo in termini giuridici i principii di condotta che gli statisti europei dovevano effettivamente seguire, a prescindere dalle loro personali inclinazioni, a causa della situazione di fatto creata dall’equilibrio allora esistente.
Applicata all’Europa pre-nazionale la convinzione che l’equilibrio assicurasse una sufficiente unità era — con i complementi che vedremo — giusta; e lo fu tanto più nel periodo della formazione del movimento nazionale italiano che forse fu quello nel quale l’equilibrio europeo funzionò meglio.
In effetti si tratta del periodo, quello dopo il Congresso di Vienna, nel quale i rapporti di equilibrio fra gli Stati erano giunti quasi allo stadio di una organizzazione permanente ed efficace, guidata dal «concerto europeo», e l’Europa restò a lungo in pace. Questa situazione poteva far ritenere normale il regolamento pacifico delle questioni internazionali ed eccezionale il ricorso alla guerra. Anche questa opinione non era priva di fondamento. Nell’ultima forma grave che aveva assunto, il ricorso alla guerra era stato provocato dall’ondata rivoluzionaria francese, cioè da fattori eccezionali che i moderati potevano giudicare piuttosto patologici che fisiologici.
Secondo le previsioni dei moderati l’unità europea era destinata addirittura a rafforzarsi. Essi avevano infatti fiducia nella definitiva affermazione del liberismo internazionale, già valutato dal «Conciliatore» come il mezzo per la «santa fratellanza dei popoli». Tale fiducia li induceva a pensare che nel futuro gli impedimenti che ostacolavano i rapporti fra gli europei, a qualunque Stato appartenessero, sarebbero diminuiti e non aumentati. In sostanza i moderati si attendevano dalla futura Europa delle nazioni la continuazione di certi aspetti della vita del passato e di quella del presente. Dato il loro atteggiamento mentale la cosa non può stupire. Sul piano metafisico e religioso Gioberti cercò di accordare gli ideali e gli interessi della Chiesa cattolica — eminentemente supernazionali — con quelli nazionali senza prendere in considerazione, e forse celando intenzionalmente, il loro contrasto, che in seguito, venuto alla luce, divise i fedeli della Chiesa e quelli della nazione. Sul piano più specificamente politico i moderati concepirono l’unità nazionale come un mezzo per rinvigorire l’Italia e unirla più attivamente all’Europa, da cui si era piuttosto estraniata nei secoli della decadenza. Essi misero infatti l’accento sul «diritto europeo» e sul liberismo internazionale, cioè su concezioni che subordinavano le nazioni, sia nel campo politico che in quello economico, ad un ordine unitario supernazionale.
In conclusione, anche nella corrente moderata i valori supernazionali ebbero gran parte nella formazione del programma nazionale. Naturalmente si potrebbe rilevare l’utopismo dei moderati, che fu perlomeno pari a quello dei mazziniani. Nonostante il loro «realismo», essi non tenevano conto del fatto che le nazioni avrebbero sconvolto la situazione di potere sulla quale reggevano l’equilibrio europeo ed il liberismo internazionale. Una critica indiretta del loro europeismo la si trova nel pensiero di Cattaneo, e nella sua affermazione: «Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa», affermazione che divenne sempre più esatta a grado a grado che il nazionalismo favorì in tutta Europa la diffusione della formula politica dello Stato unitario ed accentrato.
Ma una critica di questo genere non riguarda direttamente il nostro problema, mentre con Cattaneo siamo praticamente fuori dal movimento nazionale italiano. Cattaneo non basava i suoi atteggiamenti politici né su facili entusiasmi né su principii metafisici. Egli aveva una conoscenza positiva del funzionamento delle istituzioni statali. Frutto di tale conoscenza furono il suo federalismo, inteso come una tecnica per l’organizzazione della democrazia su grandi spazi e per il decentramento del potere politico, e la sua critica serrata dello Stato uscito dalla rivoluzione francese, giudicato illiberale a causa della sua struttura rigidamente unitaria e fortemente accentrata. Cattaneo, avendo concepito il federalismo come la teoria positiva della libertà, respinse tanto l’unitarismo repubblicano quanto monarchico, e restò per queste ragioni ai margini del processo di unificazione dell’Italia, iniziato dal primo e concluso dal secondo.
Per altri motivi, in sostanza perché la sua filosofia della storia, contrariamente a quella del Gioberti del Primato, non era utilizzabile come un mezzo ideologico nella lotta per l’unità d’Italia, anche Ferrari restò ai margini del processo nazionale. Per questo fatto non dobbiamo occuparci del suo pensiero che, come quello di Cattaneo e quello dei primi socialisti, non ebbe in quel periodo in Italia un seguito importante. Vale in ogni modo la pena di ricordare che anche i liberali radicali (ossia il Cattaneo ed il Ferrari), come i primi assertori del socialismo (ad esempio Luigi Andrea Mazzini), professarono le idee europeistiche, cioè supernazionali, proprie dell’epoca, sovente in modo simile a quello dei moderati.
 
II
La visione della nazione elaborata all’inizio del processo di unificazione dell’Italia, vista col senno di poi, appare molto lontana dalla realtà e presenta aspetti nettamente utopistici. Questi aspetti possono essere tipizzati nel modo seguente. I mazziniani si erano illusi sino al punto da credere che ci fossero individui disposti a volere l’esistenza di nazioni amorose le une delle altre e che il loro numero fosse sufficiente per farle nascere e, in seguito, per guidarle e controllarle. I moderati a loro volta, si erano illusi sino al punto da credere che nei rapporti tra gli Stati indipendenti e sovrani dell’Europa il diritto avesse ormai inquadrato e dominato definitivamente la forza e reso così sicuro, tra l’altro, il liberismo internazionale. Queste convinzioni, utopistiche rispetto al futuro nazionale, e particolarmente con i comportamenti basati sulle «nazionalità spontanee» e sulla «supernazionalità spontanea» europea.
Ne avesse o no coscienza, Mazzini non poteva non avere in mente qualche cosa di simile alle «nazionalità spontanee» quando pensava che le nazioni avrebbero inaugurato una nuova era della storia, l’era «organica», contrassegnata dal superamento del dispotismo e dell’individualismo e dall’avvento di una completa solidarietà tra gli uomini. Una nazionalità, sinché non si fonde con uno Stato, può effettivamente presentare l’aspetto di una comunità laboriosa, buona e solidale, e mantiene in ogni modo rapporti pacifici, o almeno non bellicosi, con altre comunità dello stesso genere. La ragione sta nel fatto che in tali comunità, che non coincidono con il quadro di formazione del potere politico supremo e non posseggono pertanto i mezzi materiali della offesa militare, il lealismo verso la «nazionalità» non può esprimersi, nella pratica come nella immaginazione, attraverso le idee della forza e della violenza. La nazione di Mazzini non era slegata dallo Stato. Ma egli pensava che lo Stato repubblicano e democratico — l’autentica comunità nazionale — fosse radicalmente diverso dallo Stato monarchico proprio dal punto di vista della forza e della violenza. Egli riferiva questi aspetti del potere politico alla ragion di Stato, e riteneva che la ragion di Stato riguardasse i soli Stati monarchici, retti da una élite di privilegiati e quindi da interessi particolari destinati fatalmente a scontarsi. Altro, a suo parere, sarebbe stato il destino delle nazioni democratiche, rette dal popolo e quindi poggiate sull’interesse generale, per definizione buono e pacifico.
I moderati, a loro volta, non potevano non aver presente la «supernazionalità spontanea» europea quando pensavano al «diritto europeo» e al liberismo internazionale. Il sistema europeo degli Stati mantenne a lungo uno stabile equilibrio sino a dar luogo effettivamente ad una specie di diritto non solo perché gli Stati si limitarono nell’offendere per cause di forza maggiore, ma anche perché questo limite — puramente negativo nella sfera specificamente politica — corrispondeva a qualche cosa di positivo nella sfera non politica — una comunanza di convinzioni, di abitudini, di principi di condotta — che aveva il suo fondamento in certe radici unitarie della storia d’Europa, vale a dire nella «supernazionalità spontanea» europea, che stava al di sopra degli Stati e delle nazionalità. Questa relativa unità religiosa, morale e civile servì quasi sempre, sinché il sistema europeo funzionò bene, ad imbrigliare la spinta della potenza nella forma razionale della ragion di Stato, senza lasciarla sfociare come cieca volontà di potenza allo stato puro.
Gli elementi supernazionali non stanno dunque nella prima formulazione dell’idea nazionale come dati fantastici ma riflettono, almeno in parte, con un accento liberal-conservatore nei moderati ed un accento democratico-radicale nei mazziniani, la realtà pre-nazionale. La circostanza è interessante e merita di essere discussa perché consente di chiarire una questione controversa: quella dell’esistenza di due concezioni nazionali (una «pura» o «universalistica» e l’altra nazionalistica) e della trasformazione, compiuta con Crispi, della prima nella seconda.
Quando si tenga presente che l’idea «pura» (priva di motivi nazionalistici) corrisponde a quella che si formò all’inizio della lotta nazionale, la circostanza messa in vista permette di mettere in rapporto l’origine di tale idea con una realtà sociale nella quale sussistevano ancora i comportamenti nazionali e supernazionali spontanei; e permette anche di studiare la conversione di tale principio o sentimento nazionale nel nazionalismo imputandola alla trasformazione reale dei comportamenti nazionali e non soltanto a qualche principio metafisico, o a qualche modificazione concettuale sopravvenuta nella testa di qualche protagonista.
A questo scopo bisogna anzitutto sgombrare il campo della questione da un fantasma verbale. Formalmente dalla dottrina della nazione, che tanto nel pensiero di Mazzini quanto in quello altrui resta sul piano di una rozza metafisica, si può cavar ciò che si vuole, e perciò anche la conclusione apparentemente logica secondo la quale il nazionalismo sarebbe la negazione del principio nazionale. Chi tira questa conclusione la basa sul fatto che il nazionalismo implica l’idea che si possa, e si debba, perseguire il bene della propria nazione a scapito del bene, e della stessa esistenza, delle altre nazioni: idea che comporterebbe la negazione teorica e pratica del principio nazionale, affermato per sé, negato per gli altri. Ma si tratta semplicemente di un gioco di parole.
Nella realtà sono proprio le nazioni che sprigionano il nazionalismo. Quando una nazione esiste, e non è semplicemente un proposito o una speranza, ha esistenza come Stato. La sua condotta — vale a dire il comportamento della classe politica che la governa — deve perciò sottostare alla legge della ragion di Stato che esclude mistiche fratellanze internazionali, stabilisce fra gli Stati la dura realtà dei rapporti di forza, e comporta pertanto il continuo tentativo di aumentare la propria e diminuire l’altrui potenza. A dire la stessa cosa con i termini nazionali, il tentativo è proprio quello di affermare la propria nazione a scapito di tutte le altre. Ciò richiede che tutti i valori sociali vengano subordinati a quello della potenza, o almeno della sicurezza, dello Stato; e questa necessità, cui non si può sfuggire, converte l’ipotetico sentimento nazionale, come puro amore della propria nazione in un mondo di nazioni amiche, in nazionalismo.
La distinzione fatta da molti tra sentimento nazionale, che equivarrebbe ad un bonario patriottismo disarmato, e nazionalismo, che sarebbe soltanto cieca volontà di potenza e di dominazione, è pertanto arbitraria. La cieca volontà di potenza può essere distinta dalla cauta ragion di Stato, il patriottismo — come amore dell’autentico luogo natale, di una comunità non armata può essere distinto dal nazionalismo, ma tutte queste distinzioni non coincidono con l’ipotetica distinzione: sentimento nazionale-nazionalismo. E’ in realtà strano che coloro che professano il principio nazionale, e vogliono perciò che la propria nazione si autogoverni, e coincida pertanto con uno Stato sovrano, e sia dunque armata, pretendano poi spesso di dissociare, con la distinzione fra nazionalismo e sentimento nazionale, forza ed amore, imputando la forza — ed i suoi mali — al nazionalismo, e l’amore con le sue dolcezze — al sentimento nazionale.
Questa fusione di motivi nazionalistici si presenta già nelle fasi avanzate di sviluppo dei movimenti nazionali. Anche quando una nazione è da creare si devono risolvere problemi di forza. Le servitù politiche della lotta per il potere costringono infatti coloro che vogliono far nascere una nazione ad un realismo politico analogo a quello di coloro che governano gli Stati. I fautori di una nazione nuova generalmente predicono l’avvento di un’era senza mali per convincere gli uomini a rifiutare il presente, a battersi, a mutare condizione. Essi devono tuttavia fondare uno Stato e non una religione, e devono perciò elaborare concrete linee politiche e non soltanto progetti di Stati ideali. Naturalmente una linea politica può rovesciare a suo vantaggio una situazione di potere preesistente solo se ha una forza sufficiente al compito e quindi, tra l’altro, se dispone di un consenso sufficiente; in estrema istanza se il suo fine ed i suoi mezzi, in momenti determinati del processo politico, sono condivisi da molte persone. Alla base di una linea politica c’è sempre in effetti, un minimo comune denominatore virtuale tra molti interessi e molti ideali. Orbene, nel secolo scorso, in Italia ed altrove, il comune denominatore «nazionale» poteva stare nella realizzazione di un mercato di dimensioni sufficienti per la capacità produttiva e commerciale della borghesia (un mercato nazionale) e dell’apparato politico necessario per sostenerlo all’interno e all’esterno (lo Stato nazionale com’è nella realtà), e non poteva stare, evidentemente, nella creazione della nazione amorosa di Mazzini o di quella pedagogica di Fichte.
In sostanza, con l’avvento della nazione o almeno della lotta effettiva per il potere di fondarla, la base reale della concezione nazionale «pura» o «universalistica» si sgretola. Si attenuano infatti, nella maggioranza dei comportamenti umani, i valori della «nazionalità buona» (nazione senza Stato), mentre quelli esclusivamente nazionali tendono a prendere il sopravvento su quelli supernazionali (diritto europeo, liberismo internazionale). In altri termini, l’idea puramente comunitaria (puramente democratica) della nazione non rispecchia più la realtà sociale, e diventa utopistica perché, mirando ad una impossibile nazione pura, non costituisce una alternativa ma esprime soltanto, in modo inconscio, inefficace, l’opposizione dei valori nazionali e supernazionali spontanei alla realtà nazionalistica della nazione. Queste considerazioni di carattere generale sulla nazione e sul nazionalismo riguardano direttamente il presente studio, in quanto permettono di tipizzare gli aspetti oggettivi della nascita, dello sviluppo e dell’affermazione del movimento nazionale. Si tratta di tener presente quanto abbiamo esposto, vale a dire:
1) che, sinché non si riferisce ad una lotta effettiva per il potere o al suo effettivo esercizio, l’idea nazionale: a) rispecchia, almeno in parte, i comportamenti sociali della vecchia Europa che separava lo Stato e la nazionalità, b) mantiene nella sua formulazione, di conseguenza, elementi supernazionali, c) può assumere, per questa ragione, la forma «pura» o «universalistica»;
2) che, quando si riferisce ad una lotta effettiva per il potere o al suo effettivo esercizio, l’idea nazionale: a) rispecchia progressivamente i comportamenti sociali basati sulla fusione di nazione e Stato (carattere bellicoso delle nazioni, precarietà dell’equilibrio internazionale), b) perde, di conseguenza, gli elementi supernazionali, c) assume, per questa ragione, la forma nazionalistica.
I tratti caratteristici di questa evoluzione stanno nella inevitabilità del passaggio dalla prima alla seconda fase e nella necessità che nella prima non si preveda la seconda (l’idea della nazione come soluzione ideale o almeno preferibile allo stato di cose preesistente è resa possibile proprio dalla mancata previsione della distruzione degli aspetti specifici delle nazionalità e della supernazionalità spontanee). In altri termini il tratto caratteristico della nazionalizzazione della società sta nel fatto che il processo impiega energie supernazionali e le trasforma in nazionalistiche. In questo modo nacque, e si affermò come obiettivo politico, la nazione; il caso si ripeté quando la nazionalità si estese a ceti inizialmente avversari (cattolici) o estranei (proletariato); e si presenta, individualmente, ogni volta che il contrasto tra il dovere di servire la patria, divenuta la nazione nazionalistica, e quello di osservare i valori della civiltà europea, prevalentemente supernazionali o internazionali, viene risolto in favore della prima.
Esaminata la logica politica del movimento nazionale, possiamo ridare uno sguardo ai fatti storici. Per il periodo che va sino al 1848 abbiamo preso in esame soltanto i programmi e le elaborazioni ideali che fecero nascere in una ristretta élite la visione nazionale del problema politico, senza considerare la loro incidenza sulla situazione generale. Ci siamo limitati a ciò perché in quel periodo la modificazione dei dati nazionali e supernazionali riguardò esclusivamente la realtà ideale costituita dai propositi e dalle speranze di poche persone, e non la realtà effettuale, che rimase invariata. Compiuta la fase della prima formazione, e segnato dagli avvenimenti del 1848 e del 1849, per mantenersi ed avanzare il movimento italiano doveva naturalmente passare dalla fase dei progetti ideali a quella delle realizzazioni concrete, doveva affrontare la prova della lotta per il potere. E’ in questo quadro — nel comportamento effettivo di una classe politica, nello stato dell’opinione pubblica, e non solo nei propositi di pochi — che si modificano ormai, secondo la logica che abbiamo illustrato, i dati nazionali e supernazionali. Noi dovremo pertanto prendere ora in considerazione la lotta politica che condusse all’unità d’Italia.
Questa lotta si sviluppò lungo una linea direttiva che non fu elaborata né dai mazziniani né dai moderati ma fu in parte il frutto di un compromesso, in parte il frutto delle cose. Né i mazziniani, da soli, né i moderati, da soli, avrebbero potuto fare l’Italia. La politica dei mazziniani era in astratto giusta, ma non poteva avere successo; quella dei moderati aveva successo, ma solo apparentemente, perché colpiva un bersaglio sbagliato. I primi si proponevano di abbattere gli Stati regionali, di cacciare gli austriaci dalle provincie italiane, di fondare uno Stato nuovo, e non potevano trovare molti individui disposti a sostenere per lungo tempo una lotta così difficile ed incerta. I secondi disponevano di forze sufficienti, ma solo per battaglie comode ed inutili come quella della confederazione italiana. Un compromesso fra le due tendenze era perciò necessario perché bisognava fare l’una e l’altra cosa: avere forze sufficienti e fondare lo Stato mononazionale. Ma questo compromesso era difficilissimo e, in termini di diffusa consapevolezza e di deliberata volontà, addirittura impossibile: non si possono infatti tenere dei rivoluzionari al passo dei moderati, e non è facile imporre a dei moderati, dopo averli raggruppati con caute parole d’ordine, un salto di tipo rivoluzionario. Eppure ciò che accadde fu qualcosa di questo genere perché la fortuna supplì alle mancanze degli uomini. Quattro cause sortirono l’effetto: l’esistenza del problema italiano (all’incirca come oggi esiste un problema europeo) che trasformò in italiana la tradizionale politica del Piemonte; la complementarità dell’azione dei mazziniani che tenne in vista l’obiettivo dello Stato unitario e di quella dei moderati che tenne in vista le forze sociali che l’avrebbero sostenuto; il conseguente spostamento della bilancia delle forze in Italia verso la soluzione italiana anche se la lotta per il potere si svolgeva ancora nei quadri regionali; e, per il salto finale, come vedremo, la fortuna.
Nell’imminenza del 1848 l’Italia sembrava un obiettivo voluto da tutti, conciliabile con la sovranità degli Stati ed il mantenimento dello Stato pontificio, con le nuove idee costituzionali e i vecchi equilibri politico-sociali. Il carattere troppo generico, od esclusivamente ideale, delle prime formulazioni del problema italiano aveva creato un vasto ma fittizio consenso. Gioberti aveva messo d’accordo il diavolo con l’acqua santa; le riforme costituzionali avevano unito i sovrani legittimi ed i ceti progressivi; il programma confederale accontentava tutti e non faceva paura a nessuno; la nazione restava un fatto ideale sullo sfondo. Tale generica disposizione d’animo italiana, che metteva in evidenza il fine (l’unità degli italiani) ma celava il mezzo (lo Stato italiano) e, in pratica, mirava solo a piccole modificazioni dello statu quo, non poteva naturalmente generare una azione vigorosa. In effetti il cataclisma sopraggiunse quando fattori esterni misero in moto il primo, flaccido, movimento italiano. L’insurrezione vittoriosa del popolo di Parigi animò in tutta Europa i fautori di nuovi ordini politici, e mise dappertutto sulla difensiva i sostenitori dei poteri legittimi. L’Italia ebbe le cinque giornate di Milano che trascinarono il Piemonte alla guerra «italiana» contro l’Austria.
Ideali rivoluzionari e conservatori, interessi nazionali e regionali si trovarono per un attimo sullo stesso fronte, ma alla prova dei fatti la fittizia unanimità si sgretolò. Molti tra coloro che si erano trovati d’accordo nel dare una generica adesione ad una Italia imprecisata dovettero constatare che i loro interessi e i loro ideali erano in contrasto con le esigenze della lotta per l’unità italiana. La prima prova mostrò che l’unità italiana era incompatibile con il mantenimento dei vecchi Stati italiani, che essa richiedeva una soluzione statale unitaria e comportava, praticamente, la trasformazione dello Stato piemontese in Stato italiano. Questa prima prova mise in evidenza anche i dati internazionali del problema. Il fatto che i moti democratico-nazionali si fossero accesi a catena in molte parti d’Europa aveva dato l’impressione di una forte unità internazionale di carattere democratico. Questa opinione non poteva durare. Il fronte democratico europeo si divise presto in una serie di fronti separati su ciascuno dei quali ci si batté esclusivamente per le proprie rivendicazioni nazionali senza tenere in gran conto né i principii della democrazia né quelli della solidarietà internazionale.
Come i mazziniani in Italia accettarono di piegarsi alla ragion di Stato del Piemonte, e come i democratico-nazionali tedeschi reclamarono la linea del Po o almeno quella del Mincio come confine necessario per la sicurezza tedesca, così in genere i capi dei movimenti nazionali si condussero secondo il principio dell’egoismo nazionale. Questa condotta impedì loro di battersi efficacemente contro la coalizione dei sovrani legittimi che seppe trovare, con l’unità d’azione internazionale, la forza sufficiente per sconfiggere ad uno ad uno i singoli moti nazionali. A noi interessa comunque questo fatto: l’unità dei sovrani, la divisione delle nazioni. Alla loro prima sortita i «popoli fratelli» si mostrarono molto più litigiosi dei re, facendo cadere le speranze destate da Mazzini nella coincidenza dei singoli moti nazionali con il generale moto democratico europeo. Il fatto dimostrò che non si era di fronte ad un solo problema, quello della sistemazione democratico-nazionale dell’Europa, ma di fronte ai singoli problemi, ciascuno diverso, posti dalle singole rivoluzioni nazionali. Queste sarebbero state pertanto solidali fra loro o nemiche, democratiche o no, a seconda dei diversi fattori di potere interni e internazionali che le avrebbero condizionate.
Questi fatti, anche se non si tradussero in una conoscenza esplicita, ridimensionarono con le loro conseguenze il movimento italiano, restringendolo ma rinsaldandolo. I sovrani, che si erano lasciati influenzare dalle prime formulazioni generiche del programma italiano ma non erano disposti a sacrificare i loro troni per l’Italia, lo abbandonarono, e lo abbandonarono anche i liberali radicali, il Cattaneo ed il Ferrari che, indotti all’azione dalla rivoluzione popolare milanese e non dalla confusa ondata quarantottesca, non vollero accettarne la conseguenza inevitabile: l’annessione forzata della Lombardia. I moti del 1848-49 non presentarono con chiarezza l’obiettivo dello Stato italiano, ma mostrarono quale fosse lo schieramento che poteva inoltrarsi nel cammino verso la sua fondazione, verso il raggiungimento dell’unità italiana. Essi realizzarono infatti per la prima volta un fronte italiano d’azione politica, fronte che fu sostenuto solo dai mazziniani e dai moderati disposti a pagare il prezzo necessario, cioè a sacrificare alle esigenze nazionali tutti gli altri aspetti del loro programma politico. In tal modo si profilò subito, anche se per allora i protagonisti subirono soltanto la durezza delle cose senza intenderla profondamente, «la terribile semplicità dei termini del problema italico», il carattere essenziale del compromesso nazionale. Esaminandolo, si può mettere subito in evidenza il modo con il quale iniziò la conversione del sentimento nazionale in nazionalismo, conversione che si presenta effettivamente come un abbandono degli elementi supernazionali della visione nazionale.
In realtà i mazziniani, lasciando cadere la pregiudiziale repubblicana, rinunziavano agli aspetti supernazionali del loro programma politico. Nella visione metafisica di Mazzini la repubblica era infatti non solo il mezzo della emancipazione nazionale ma anche quello della fratellanza dei popoli, mentre la monarchia, negazione della vita profonda delle nazionalità, era anche la negazione della pace, in ultima istanza la radice dello stesso nazionalismo.[2] A loro volta i moderati, accettando la guerra, vale a dire lasciando il metodo graduale per quello violento, ed adattandosi in particolare ad una guerra nella quale scomparivano le possibilità confederali e restava «italiano» un solo Stato, il Piemonte, sacrificavano il criterio della subordinazione del movimento nazionale al «diritto europeo», nella sua forma legale e soprattutto nel suo spirito: la moderazione, la rinunzia ad azioni tali da comportare il rischio di perturbazioni gravi dell’equilibrio. In concreto, chi rimase sul campo accettò il nazionalismo o almeno le sue premesse, e chi non volle accettarlo si ritirò. Esemplare fu, ad esempio, l’atteggiamento di Luigi Taparelli d’Azeglio, bene espresso nelle seguenti parole: «sono grossi di ingegno certi millantatori di amor patrio, che si fabbricano un idolo di sassi e di terra; e perché l’Italia è circondata dal mare e dall’Alpe, reputando sconcio di natura il vederla divisa in molte società, sarebbero dispostissimi a scannare in lunghe guerre migliaia dei loro concittadini, purché al fine ottenessero di formare un solo regno. E questo è amor di Patria? Questa è la felicità d’Italia?». Nel 1848 il compromesso nazionale estromise appunto i cattolici, che al valore nazionale anteponevano quello supernazionale della religione cristiana; e i liberi radicali, che subordinavano l’unità alla libertà individuale.
Tali furono le servitù politiche del movimento nazionale. Ma nessuno seppe riconoscerle con chiarezza, e ciò spiega come il processo si sia svolto con salti avanti e ritorni indietro, anche se con progressione costante perché così voleva la forza delle cose, perché l’obiettivo imponeva questa linea. Dopo il 1848 apparentemente si tornò indietro. La sconfitta militare fece crollare il fronte comune dei moderati e dei mazziniani. Le due correnti ripresero le loro posizioni prequarantottesche e poterono tenerle per un certo tempo. Ma, data la natura della lotta, né l’una né l’altra corrente riuscì in tal modo a rafforzare la sua autonomia ed a preparare la posizione intermedia. I mazziniani, tornati alle origini, avevano rimesso bene in vista, a Roma, l’insegna repubblicana e ripreso in seguito i tentativi insurrezionali allo scopo di svegliare il popolo e di condurlo ad una azione indipendente dalla diplomazia e dai vecchi poteri dinastici. Essi passarono però da un fallimento all’altro, dimostrando in tal modo che la loro politica non poteva avere successo, sinché il sacrificio di Pisacane non rivolse addirittura contro Mazzini pressoché tutta la nascente opinione pubblica italiana. Così Mazzini tenne accesi degli utilissimi focolai nazionali, ma non poté utilizzarli per la causa repubblicana, e preparò invece uomini ed occasioni per la battaglia monarchica. Egli riuscì infatti a far nascere nell’animo di molti l’idea dell’unità nazionale italiana, ma le persone così influenzate, partecipando alla lotta politica italiana, esperimentavano l’impossibilità di ottenere risultati concreti con il suo metodo, abbandonavano l’azione popolare e rivoluzionaria e si indirizzavano, più o meno chiaramente, verso il compromesso nazionale. Il fatto più cospicuo, in questo quadro, è la Società nazionale, costituita nel 1857 dal repubblicano dissidente Daniele Manin, che ebbe Garibaldi come vice-presidente e Cavour come protettore, ed il cui spirito è messo bene in luce dalla parola d’ordine Italia e Vittorio Emanuele, che sostituì la vecchia formula democratico-religiosa di Mazzini Dio e Popolo. Si tratta ancora del compromesso del 1848, con la differenza che questa volta esso non fu semplicemente subìto, ma, almeno in parte, voluto e preparato.
I moderati, dal canto loro, furono tratti dall’esperienza a sostituire l’idea dell’evoluzione pacifica con quella della guerra (nel quadro delle tradizioni piemontesi più che per ispirazione nazionale) e, pur sostenendo progetti confederali, agirono inconsapevolmente per lo Stato unitario.
In effetti, sin dall’inizio del processo italiano, essi avevano pensato a mezzi confederali e all’evoluzione graduale perché contavano di raggiungere l’unificazione italiana attraverso una cauta politica estera, la modernizzazione degli Stati italiani, ed il loro avvicinamento politico ed economico. Ma dopo il 1849 solo il Piemonte fece la politica auspicata dai moderati. Esso mantenne il costituzionalismo, fece una politica laicista che corrispondeva ormai alle necessità della politica di unificazione dell’Italia, indirizzò modernamente il processo economico e si inserì efficacemente nell’equilibrio europeo. Gli altri Stati italiani abbandonarono invece di fatto o ufficialmente la costituzione, tornarono al vecchio dispotismo ormai superato ed immiserirono così la loro vita politica. L’incapacità di questi Stati di rispondere alle aspettative prodotte dalle nuove idee e dai nuovi bisogni divenne sempre più evidente, e minò la stabilità del loro potere.
Per questa ragione la frazione moderna della classe politica non poté più fare una politica attiva nei vecchi quadri regionali, salvo che in Piemonte. In conseguenza di ciò tutti coloro che credevano — o cominciavano a credere per la decadenza stessa degli Stati regionali che si dovesse fare l’Italia con una politica «regolare», cioè valendosi delle istituzioni esistenti, non poterono più basarsi sugli Stati nei quali erano nati. Essendo rimasti con un solo Stato disponibile, il Piemonte, i moderati dovettero puntare su quello. Ciò determinò una conseguenza decisiva: lo spostamento della parte attiva della classe politica e dell’opinione pubblica dai quadri regionali al quadro piemontese come quadro italiano. In tal modo la lotta politica acquisì anche per i moderati dimensioni e carattere nazionale e si diresse di fatto verso l’obiettivo dell’unificazione, lo Stato italiano, anche se i propositi consapevoli rimasero, sino all’ultimo, confederali.
In effetti la convergenza dei mazziniani (senza l’approvazione iniziale di Mazzini) e dei moderati anche nelle ultime fasi della lotta non andò più in là di un parziale riconoscimento delle immediate necessità tattiche dell’azione.[3] Per meglio dire, tale riconoscimento giunse sino ad una generica adesione dei repubblicani alla monarchia e ad un serio impegno dei moderati rispetto al problema italiano, ma non divenne mai una comprensione realistica e profonda dell’azione da intraprendere per conseguire l’unità nazionale. Per questa ragione non ci fu mai un centro italiano di elaborazione di tutte le direttive della lotta. In effetti la strategia dell’unificazione non fu pensata né voluta da alcuno, e risultò da una felice combinazione di azioni «regolari», di iniziative «irregolari» e di fortunate congiunture internazionali. All’inizio Orsini forzò la mano e Cavour poté fare l’alleanza con Napoleone III per la guerra contro l’Austria; alla fine forzò la mano Crispi, Garibaldi fece la spedizione in Sicilia e si giunse all’unità.
Questo fu il contributo della fortuna all’unificazione italiana. Si tratta di un contributo essenziale perché l’azione decisiva degli anni ‘59 e ‘60 poté svilupparsi proprio perché mancò l’elaborazione di una strategia generale. Le forze in campo non avrebbero infatti potuto agire se ciò che accadde — almeno nelle sue grandi linee — fosse stato previsto, illustrato e proposto chiaramente in un programma d’azione. Nel 1857 Cavour, che pensava ancora al Piemonte come alla sua «nazione», credeva che l’unità statale italiana fosse una «corbelleria», e temeva moltissimo in ogni modo gli eventuali sviluppi rivoluzionari e repubblicani del problema italiano. Egli non avrebbe pertanto intrapreso la guerra del 1859 (il cui obiettivo non era l’unità statale) se ne avesse previsto le conseguenze rivoluzionarie. Qualcosa di simile, in senso opposto, capitò agli ex-rivoluzionari. Essi accettarono il compromesso nazionale ma, non avendone ben compreso gli aspetti strategici non persero del tutto né la speranza in un esito conforme ai loro ideali, né la fiducia nell’avvenire ed il gusto del rischio tipici del loro noviziato politico. Per questa ragione, nonostante il compromesso, un’ala del movimento nazionale conservò una disposizione d’animo che permise di prendere unilateralmente iniziative dall’esito incerto ed incalcolabile, in ispecie quella della spedizione in Sicilia, che non avrebbero potuto né essere apertamente condivise né intraprese dai moderati e dal governo piemontese, ma senza delle quali l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto. In tal modo, con il suggello finale della monarchia sabauda e la sanzione passiva dei plebisciti, si giunse all’unificazione statale dell’Italia. Lo svolgimento degli eventi ebbe questa singolare conseguenza: escluse dal processo politico attivo i mazziniani, cioè proprio coloro che avevano elaborato una vera e propria dottrina nazionale basata sulla fusione di nazionalità e Stato, e lasciò al potere i moderati, che non avevano mai condiviso tale dottrina e non avevano mai fatto della nazione italiana una questione pregiudiziale.
Con la fondazione dello Stato italiano il mazzinianesimo in senso specifico si esaurì.[4] L’opposizione di Mazzini alla nazione della ragion di Stato, dei plebisciti, dei Savoia, che non costituiva una alternativa, fu soltanto un rimpianto. L’aspetto realistico della dottrina di Mazzini — la fusione dello Stato e della nazionalità, ma attivo il primo e passiva la seconda — si era realizzato; gli altri aspetti, che erano serviti solo come incentivi per l’azione, finirono con la fine dell’azione. Coloro che accettarono la nazione com’era, come poteva essere, e si proposero di consolidarle e di estenderla, dovevano servire lo Stato e cercare di rafforzarlo. La dottrina mazziniana non serviva allo scopo. Per rafforzare lo Stato non si poteva puntare sulla repubblica, sulla missione del «popolo-Cristo», sull’amore tra i popoli e sull’unificazione morale dell’Europa, ma bisognava invece servire la monarchia, armare l’esercito, diffidare dello straniero, giocare sulle divisioni europee. A grado a grado che queste necessità si imposero, l’«anima nazionale» mutò passando da Mazzini a Crispi e dalla religione della nazione al culto laico dello Stato nazionale. Apparentemente un nulla separa la prima dal secondo. Ma, a ben vedere, la distanza è enorme: nella religione nazionale di Mazzini restano gli ideali supernazionali, nel culto laico dello Stato nazionale di Crispi essi sono completamente assenti. Nella prima c’è il rispetto e l’amore per tutte le nazionalità, nel secondo c’è il «sacro» egoismo nazionale.
Per i moderati, rimasti al potere, il passaggio dall’Italia pluristatale a quella monostatale fu meno grave che per i mazziniani. Col 1861 era caduta la speranza mazziniana di far nascere la nazione ideale, ma non c’era ancora, né in Italia né in Europa, la base per una politica nazionalistica, e i moderati poterono pertanto continuare a fungere da classe politica di transizione dal vecchio al nuovo. Essi avevano fatto, in realtà, qualche passo verso il nazionalismo ma l’avevano potuto inquadrare, con l’aiuto di Mancini, nei loro vecchi schemi. Il Mancini — a partire da una prolusione universitaria tenuta a Torino nel 1851 — sostenne che il diritto internazionale si sarebbe rafforzato fondandosi sulle «nazioni» invece che sugli «Stati». L’affermazione, considerata obiettivamente, non aveva senso alcuno perché si riferiva ad un soggetto di diritti inesistente, la nazione, o si limitava a dare un nome nuovo — nazione — alla cosa vecchia, lo Stato. Ma, ideologicamente, con questa formula si poteva generare una illusione, si poteva far pensare che, trasformando gli Stati non nazionali in Stati nazionali, l’equilibrio europeo sarebbe diventato più stabile e più pacifico. Con questa illusione, i moderati iniziarono il governo dell’Italia una.
 
III
Il problema italiano riguardò tra il 1831 ed il 1848 le idee capaci di far nascere in una avanguardia politica la visione nazionale del processo politico, tra il 1848 ed il 1861 quelle capaci di portare la lotta politica dal quadro regionale a quello italiano, e dopo il 1861 quelle capaci di consolidare e sviluppare il nuovo Stato. Il fatto decisivo, dal punto di vista nazionale, fu l’accentramento del potere. Conviene perciò ricordare che non ci fu una scelta deliberata e consapevole per l’accentramento. Se la scelta fosse dipesa soltanto dalla volontà degli uomini probabilmente sarebbe prevalsa una struttura decentrata.[5] Il controllo della situazione politica stava nelle mani dei moderati. Orbene, i moderati non erano dei centralizzatori giacobini: erano Stati «federalisti», e fecero in realtà dei tentativi di costruire uno Stato decentrato.
Appena fatta l’Italia, un progetto di legge Cavour-Farini-Minghetti per l’ordinamento regionale fu presentato alla Camera. Ma fu respinto da una commissione parlamentare perché la situazione non consentiva di affrontare problemi di questo genere. I primi anni del Regno d’Italia furono difficili. Il contraccolpo dell’unificazione fu la «guerra del brigantaggio»: una vera e propria guerra civile nella quale i contadini, che nel 1860 avevano favorito lo sbarco di Garibaldi ma furono presto ricacciati dallo stesso nel loro sottosuolo politico, stettero in prevalenza dalla parte dei briganti. La guerra civile, tuttavia, non fu che un ostacolo passeggero: l’impossibilità di ordinare l’Italia in modo decentrato aveva cause più profonde, di carattere permanente. Una parte della classe dirigente le comprese subito, una parte seguì semplicemente il corso naturale delle cose. A guerra finita, nel 1865, il modello giacobino-napoleonico di Stato accentrato fu definitivamente adottato dal parlamento.
Non c’era altro mezzo per mantenere un potere politico italiano. Lo Stato unitario in Italia nacque accentrato, e si mantenne tale, perché non poteva funzionare che in questo modo. Gli abitanti dell’Italia, unificati istituzionalmente, non avevano tradizioni unitarie, non erano stati unificati spiritualmente dalla lotta nazionale, e non erano unificabili sul piano economico-sociale per le diverse possibilità di sviluppo tra il Nord (salvo alcune zone) ed il Sud. Senza un forte apparato burocratico-politico accentrato (il regime dei prefetti) essi non avrebbero potuto restare uniti. L’accentramento statale era inoltre inevitabile anche per ragioni internazionali. L’Italia unificata aveva una forza militare virtuale da Stato di «primo ordine» e, per difendere la sua sicurezza ed i suoi interessi, doveva svilupparla perché l’equilibrio europeo non consentiva vuoti di potenza. Colmare il vuoto, d’altra parte, significava adottare la strutture di potenza degli altri Stati di «primo ordine» del continente: un grande esercito terrestre di pronto impiego, e conseguentemente un potere politico accentrato. L’Italia apprestò queste strutture, e dal Congresso di Berlino in poi entrò a far parte stabilmente del gruppo — composto così di sei Stati — delle grandi potenze europee.
Messo in vista il fatto che l’accentramento fu imposto dalle cose ad una classe politica che non lo aveva scelto come un mezzo per un fine nazionale, si tratta di vedere quali furono le conseguenze dell’impiego di questo strumento politico nella situazione nazionale di allora. Da questo punto di vista, la situazione è esattamente raffigurata dalla famosa frase di D’Azeglio: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». Indubbiamente nel 1861 il territorio geograficamente italiano era abitato da piemontesi, lombardi, veneti, toscani e così via e da pochissimi «italiani» (con le virgolette distinguiamo il significato nazionale da quello semplicemente geografico della parola). Stuart Mill, giusto attorno al 1860, parlava della nazione siciliana come di una «nazione» diversa da quella italiana. Ma che dire allora dei piemontesi? La loro lingua colta era il francese, ed a Torino l’attuale Porta Milano si chiamava Porta d’Italia. In realtà non era facile circoscrivere con chiarezza la «nazione italiana» perché tale nazione, salvo che per qualche regione dell’Italia centrale, era ancora una semplice «nazionalità spontanea» di cultura.[6]
Gli «italiani» bisognava davvero «farli». Farli contro il passato, imprimendo una svolta brusca nella evoluzione spontanea dei rapporti sociali che, lasciati a se stessi, avrebbero mantenuto la continuità delle tradizioni, e così le antiche divisioni degli italiani. Col 1861 dalla parte della nazione da fare c’era ormai lo Stato. Ma non tutti i tipi di Stato avrebbero potuto imprimere la svolta necessaria per far nascere la nazione. Se si fosse formato uno Stato federale, oppure uno Stato decentrato con un efficiente ordinamento regionale, in Italia non ci sarebbero gli «italiani» che conosciamo, ma dei piemontesi, dei toscani, dei napoletani e così via, tanto italiani quanto oggi sono europei i francesi, i tedeschi, gli italiani stessi, o poco più. Lo Stato federale non accentra il potere. Attribuisce al governo centrale solo le competenze necessarie per la difesa dell’interesse generale nella sfera della politica estera e di quella economica. Non ha ministero della pubblica istruzione. Impone difficilmente, o almeno diversamente dai governi accentrati, il servizio militare universale. Lascia ai governi locali tutte le competenze relative alla vita sociale ordinaria dei cittadini. Uno Stato federale è in sostanza un sistema politico-istituzionale che ha bisogno, per funzionare, di diversità sociali a base territoriale, e che le lascia sopravvivere. Se la società italiana del secolo scorso fosse stata organizzata politicamente con uno Stato federale (o uno Stato efficacemente decentrato), le sue diversità tradizionali si sarebbero conservate senza gravi attenuazioni, e l’Italia si troverebbe ora in una situazione non dissimile da quella del Regno Unito dove esistono una nazione gallese, scozzese, inglese e non la nazione - Regno Unito.
Gli «italiani» furono «fatti» dallo Stato accentrato. L’accentramento — incompatibile con diversità sociali a base territoriale — comportò l’adozione di un solo modello politico-amministrativo. Le diverse parti d’Italia furono così sottoposte agli stessi organi ed alle stesse regole. Queste regole e questi organi «italiani» risultarono efficaci tanto a Torino quanto a Palermo (come nelle altre città d’Italia), anche se riguardavano fatti esclusivamente palermitani o torinesi, solo perché gradualmente i torinesi ed i palermitani stessi, e tutti gli altri italiani, si convinsero che si trattava di regole e di organi legittimi. Questa convinzione si fondò sull’idea — formulabile in cento modi ma solitamente esposta nello stile della tradizione retorica (Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio, si è cinta la testa…) — secondo la quale a Palermo, a Torino e nelle altre città d’Italia nascerebbero uomini eguali per «stirpe», o nascimento, o nazione.[7] A grado a grado che questa idea si diffuse — la impose la situazione di potere, la insegnò la scuola di Stato con la concezione dei confini «sacri» e «naturali», ecc., la ribadì il servizio militare — si formarono gli «italiani» e la nazione fu realizzata.[8]
La storia della formazione degli «italiani» è pertanto un capitolo della storia della concentrazione del potere politico in Italia. Da questo punto di vista si possono distinguere due fasi: la prima, di semplice consolidamento del nuovo Stato, la seconda, di continuo aumento dell’accentramento statale. Il passaggio dalla prima alla seconda fase, che riguardò tutta l’Europa con effetti più gravi sulla parte continentale, dipese dalle trasformazioni dell’economia e dei rapporti internazionali. Sul continente queste trasformazioni ruppero gli argini che avevano frenato la naturale tendenza dei poteri accentrati ad accrescere le loro competenze e ad estendere il loro controllo a tutta la popolazione (in termini nazionali, nel periodo considerato, a nazionalizzare tutti gli individui e tutte le loro attività). Nella sfera internazionale l’argine era rappresentato dall’equilibrio europeo che, rendendo sicuri gli Stati e difficili le modificazioni dello statu quo, impediva di spingere all’estremo il militarismo e l’accentramento. Nella sfera interna l’argine era rappresentato dal grado di sviluppo dei rapporti della produzione che non avevano ancora unificato, o cominciavano appena ad unificare, le grandi masse dei lavoratori sugli allora vastissimi spazi nazionali, ed impedivano pertanto la formazione di rapporti stretti tra il potere politico e questa parte della popolazione.
Il primo argine cadde quando il principio nazionale prese il sopravvento rendendo provvisoria ogni compagine statale che non coincideva con una «nazione». Con la fondazione dello Stato tedesco — tanto forte quanto incerti erano i suoi confini — l’Europa perse definitivamente l’antico equilibrio ed entrò in un periodo di permanente tensione internazionale culminata in una vera e propria anarchia. Il secondo argine cadde con il rapido sviluppo dell’industrializzazione e la formazione del moderno proletariato. La tendenza istituzionale verso l’accentramento, tipica dell’Europa continentale, non più contrastata dai vecchi argini, fu addirittura favorita dagli incentivi costituiti dalla permanente tensione internazionale, dall’allargamento della base sociale del potere e dal crescente legame tra le risorse economiche e la potenza militare. In quella situazione i progressi fatti da uno Stato nell’accentramento del potere e nel controllo dell’economia, aumentandone la potenza, costringevano gli altri Stati ad analoghe misure prima ancora che li forzasse il loro sviluppo interno.
Sinché l’accentramento rimase nei limiti modesti della prima fase — nella quale si prolungarono alcune tendenze della vecchia Europa in quella nuova delle nazioni — la «italianità» si diffuse soltanto in una parte della popolazione, lasciando un margine di vitalità agli antichi costumi sociali, vale a dire ai comportamenti supernazionali spontanei ed a quelli nazionali spontanei (slegati dallo Stato). Il mito nazionale oscura questi fatti ed impedisce di vedere con chiarezza i rapporti esistenti tra le componenti nazionali di quella situazione di potere, l’opposizione cattolica, e la nascente opposizione socialista. In realtà c’è un rapporto evidente tra la limitata nazionalizzazione delle attività umane ed il governo dei moderati; e c’è un rapporto altrettanto evidente tra la limitata nazionalizzazione degli individui, la opposizione cattolica e la nascita di quella socialista. In un mondo nel quale le relazioni economiche avevano carattere largamente supernazionale, e nel quale il diritto internazionale (europeo) aveva un peso effettivo, i moderati, che rispettavano le regole supernazionali dell’economia e del diritto e si limitavano ad applicare le valutazioni dipendenti dal pensiero, dalle esigenze dai criteri nazionali soltanto a pochi settori delle condotte sociali, esprimevano perfettamente i bisogni dei ceti socialmente maturi e politicamente attivi. In questo stesso mondo, proprio per la relativa indipendenza dell’economia dallo Stato e la conseguente possibilità di estraniarsi dalla vita politica normale senza gran danno, molti individui dei ceti alti e medi potevano rinunziare ad una influenza immediata sulle decisioni del governo e sostenere una opposizione di regime. Questa fu la base sociale della reazione dei cattolici, supernazionali per principii e tradizioni, contro lo Stato italiano. E infine, in un mondo che aveva questo carattere e nel quale la maggior parte della popolazione — ancora legata alle lingue e alle tradizioni locali — poteva essere attivata politicamente dalla discriminazione capitalista-proletario e non da quella nazionale-straniero (estranea ai suoi interessi e lontana dalla sua concreta esperienza sociale), trovò un ambiente adatto il primo socialismo, protestatario, anarchico e internazionalistico. La teoria socialista, che definiva la nazione come un trucco ideologico della borghesia per dividere e battere il proletariato, coincideva nel fatto con il modo di sentire nazionale delle masse lavoratrici (e poteva inoltre non sembrare campata in aria, stante il fatto che la borghesia, nazionale nella concezione dello Stato, era internazionale nella sfera degli affari).[9]
Nella seconda fase — il cui inizio corrisponde con l’inizio dell’era del protezionismo e dell’imperialismo, databile attorno al 1875 — quanto era rimasto di supernazionale e nazionale spontaneo entrò in rapida decadenza. La penetrazione dello Stato nella vita comune di tutti gli individui divenne tale che non solo tutti i fini economici, ma in gran parte anche quelli spirituali, culturali, sociali e persino religiosi finirono col dipendere, almeno per la parte materiale della loro realizzazione, dal potere centrale. Come in tutta l’Europa continentale, così in Italia tutti i gruppi sociali furono messi progressivamente di fronte ad una alternativa senza scampo: o partecipare alla vita dello Stato nazionale accettando di legare i propri valori al suo carro, contribuendo così alla fusione di tutti i valori nell’orizzonte nazionale, o rassegnarsi alla decadenza e alla scomparsa. Questa evoluzione — durante la quale tutti gli abitanti d’Italia divennero «italiani» — si produsse prima nei fatti che nelle teorie e prima nella popolazione che nelle élites. Il controllo di pressoché tutte le attività importanti dei cittadini legava ormai una massa enorme di interessi, tanto «padronali» quanto «proletari», alla fortuna degli Stati. Di conseguenza sorgeva spontaneamente, dalla società stessa, la richiesta della applicazione della valutazione nazionale a quasi tutti i settori dell’azione umana. Il fantasma retorico-letterario dell’Italia come madre, degli italiani come figli, prese davvero corpo, divenne una metafora che descriveva uno stato di cose reale.
Di fronte a questa situazione la visione nazionale dei moderati dovette apparire meschina, frutto di «micromania». Se gli «italiani» dovevano tutto allo Stato-nazione, all’Italia: la loro cultura, il loro benessere, la loro stessa dignità personale, essi avrebbero dovuto senza alcuna esitazione mettere la nazione al primo posto nella scala dei valori umani. Questo stato d’animo nazionalistico si diffuse ampiamente toccando, all’epoca della guerra di Libia, tutti gli strati della popolazione. Nel suo aspetto effettuale il nazionalismo riguardò tutti i ceti sociali e tutte le correnti politiche, perché rispecchiava il funzionamento reale dello Stato. In effetti, pur senza fare revisioni teoriche, i liberali (limitatamente agli aspetti nuovi dell’idea nazionale), i cattolici e i socialisti persero, quasi senza rendersene conto, i loro sentimenti supernazionali. Nessuna forza politica contestò più il principio dello Stato-nazione, l’idea secondo la quale l’unica base legittima per edificare uno Stato sarebbe la nazionalità. Ma il problema era più complesso. Questo principio, nelle sue implicazioni nazionalistiche, cozzava contro l’eredità religiosa, morale e culturale dell’intera storia d’Europa; contro le stesse teorie politiche dominanti (liberali, democratiche, socialiste) che erano europee quanto alla loro origine storica e alloro sviluppo, e universali quanto ai loro fini di libertà individuale, di giustizia sociale, di dignità della persona umana. A livello della classe dirigente tali teorie impedirono a molti, che pur si conducevano da nazionalisti, di prenderne coscienza, fatto che rendeva debole tanto la loro condotta liberale, democratica, socialista, cristiana quanto la condotta nazionale, per il contrasto tra i valori in gioco. Da questo contrasto, e dalle situazioni conseguenti, ebbero origine quelle particolari correnti che rivendicarono per se stesse l’uso, e addirittura il monopolio, della terminologia nazionale, autoproclamandosi nazionalistiche (le sole, a loro parere, veramente nazionali).
In realtà non è possibile identificare il nazionalismo con queste correnti, seguendole sul loro terreno, perché si imputerebbe così ad una parte ciò che va imputato al tutto. Da questo punto di vista bisogna invece spiegare la stranezza costituita dall’esistenza stessa del nazionalismo come parte oltre che come tutto (una parte che reclamava l’applicazione di un principio da tutti osservato), stranezza che si riflette nello stesso linguaggio ordinario che nomina con la stessa parola «nazionalismo» tanto un genere: la dottrina dello Stato nazionale; quanto una specie in polemica col genere: i nazionalisti in senso stretto. Orbene, come risulta da quanto abbiamo detto, tale stranezza rispecchia la gravità del contrasto stabilitosi così rapidamente tra la realtà effettuale dell’Europa delle nazioni e l’intera eredità culturale e morale della lunga storia europea. Basta por mente all’antinomia delle cose. Nessuno contestava più il principio nazionale; tutti erano disposti, nei casi estremi, a sacrificare i valori liberale, democratico, socialista e persino cristiano al valore nazionale (in Italia, ad es., sino a Labriola, il maggior teorico del marxismo). Ne seguiva questa insanabile lacerazione: chi voleva salvare la sincerità doveva mettere in piena luce il contrasto tra l’individuo, l’umanità, la classe e la nazione e scegliere la nazione facendo tabula rasa di tutto il suo passato culturale (donde il mito della giovinezza, anche barbarica, nel nazionalismo e nel fascismo); chi voleva salvare questa eredità europea, e rispettare il valore universale dell’individuo, dell’umanità, della classe doveva eludere la profondità della propria coscienza per nascondere la contraddizione, e spesso mentire a se stesso. L’Europa delle nazioni, dissociando la saggezza dalla sincerità, spinse la gioventù verso il nazionalismo estremista, alla testa del quale non marciavano dei farisei, ma dei veri credenti.
La prima guerra mondiale portò a compimento la nazionalizzazione degli italiani. Con la pace di Versailles il principio nazionale venne applicato a tutta l’Europa. Ma non nacque l’Europa sognata da Mazzini e dai primi apostoli dell’idea nazionale. Nacque l’Europa tragica ed inquieta del nazionalismo che aveva perso, con l’antica supernazionalità spontanea europea, il fondamento stesso del suo ordine e del suo equilibrio e si dirigeva senza saperlo, avendo dissociato la saggezza dalla sincerità, verso l’autodistruzione.


[1] Cfr. Dante Visconti, La concezione unitaria dell’Europa nel Risorgimento, Milano, 1948, pp. 115-20.
[2] Si dovrà ricordare che su una base di questo genere Mazzini distinse il vero principio nazionale dal nazionalismo. Egli lo criticò infatti imputandolo alla ragion di Stato degli Stati dinastici.
[3] Indicative al proposito sono le convinzioni politiche di Garibaldi. Egli accettò il compromesso nazionale su queste basi: «Una parola sul Piemonte: in Piemonte vi è un esercito di quarantamila uomini ed un re ambizioso. Quelli sono elementi di iniziativa e di successo a cui crede oggi la maggioranza degli Italiani»; ma non si rese conto sino in fondo delle conseguenze ultime del compromesso col Piemonte perché, nella stessa lettera, aggiunse: «D’altronde se il Piemonte tentenna e si fa minore della missione a cui lo crediamo chiamato, noi lo rinnegheremo» (lettera a J. White Mario del 3 febbraio 1857).
[4] L’eredità nazionale di Mazzini confluì, attraverso l’irredentismo, nel nazionalismo, quella repubblicana si confuse con quella, molto diversa, di Cattaneo.
[5] Carlo Cattaneo, il grande teorico del decentramento, anche nel 1860 non ebbe fortuna. Chiamato a Napoli da Garibaldi nell’autunno del 1860, egli lo consigliò inutilmente di convocare un parlamento siciliano ed un parlamento napoletano prima di trattare l’unificazione con Vittorio Emanuele. Ma Cattaneo non fu battuto come rappresentante del decentramento. Al pari del suo grande antagonista, il centralizzatore Mazzini, sotto le cui finestre in quei giorni a Napoli si gridò «A Morte Mazzini» e «Viva l’unità d’Italia», egli fu battuto come esponente della democrazia.
[6] Questa descrizione, che a prima vista può sembrare strana, riceve conferma dalla storia della parola nazione in Italia. Sulla scorta del Migliorini, notiamo anzitutto che la parola muta significato alla fine del Settecento: «Il modenese Bartolomeo Benincasa, nel «Monitore Cisalpino» del 1798, dava un elenco di vocaboli nuovamente arrivati in Italia, o di nuova significazione, o d’un’antica, ma cambiata e travisata: …nazione… patriota, patriottismo…». Questo significato nuovo è senza dubbio quello moderno, venuto dalla Francia. Ciò mostra che, prima di allora, l’idea della fusione dello Stato (di grandi dimensioni) con la «nazione» non esisteva. E’ interessante perciò constatare come fosse usata la parola. Nel Settecento: «persiste ancora il vecchio significato di patria e nazione riferito alla città ed al piccolo Stato a cui uno appartiene, ma sempre più frequente è il riferimento all’Italia intera». Evidentemente il primo significato mette in vista le nazionalità regionali e locali (sentite anche come non politiche, pur essendo coincidenti con lo Stato, per le loro piccole dimensioni), mentre il secondo mette in vista una nazionalità italiana non politica. Si tratta evidentemente della «nazionalità spontanea» italiana di cultura, ancora discussa nel Seicento («Quanto al nome della lingua, benché le designazioni di «fiorentino», «toscano», «italiano» appaiano tutte e tre, la seconda è di gran lunga predominante…»), affermata pienamente nel Settecento (Cfr. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, 1960, rispettivamente alle pp. 635, 548, 458). Queste conferme riguardano il tardo Settecento e non la seconda metà dell’Ottocento. Ma bisogna osservare che ci vengono date dall’italiano letterario, cioè da una frazione ristretta (territorialmente e soprattutto socialmente) della popolazione della penisola e delle isole che, nella sua grande maggioranza, prolungò certamente nell’Ottocento questi sentimenti di gruppo sino a che non mutò, con l’unificazione, la base della sua esperienza politica.
[7] Quando si dice «formazione della nazione italiana» il pensiero corre subito all’idea che si tratti di vedere in base a quale rappresentazione della realtà storica e naturale gli italiani si sarebbero convinti di costituire una nazione. Ma questa rappresentazione non esiste. Ce ne sono molte, variabili da individuo ad individuo e spesso da momento a momento, e anche storicamente non se ne trova una che ad un certo momento si distacchi dalle altre e diventi tanto persuasiva da convincere tutti. Storicamente non si dà un passaggio da un certo tipo di rappresentazione ad un altro, ma da una situazione nella quale pochi posseggono questa rappresentazione — in qualunque forma — ad un’altra nella quale quasi tutti la posseggono stabilmente. Nel primo e nel secondo momento si possono trovare tanto rappresentazioni simili quanto rappresentazioni diverse. Ma nel primo momento esse hanno un riferimento incerto e limitato a pochi, nel secondo un riferimento certo — il potere italiano — esteso a tutti. Ne consegue che il fattore decisivo è lo Stato, non il tipo della rappresentazione. Da questo ultimo punto di vista basta che sia possibile formare o consolidare una leggenda storico-geografico-biologica sull’unità dei membri della nazione con la quale costoro possano pensare vagamente la realtà del loro Stato.
[8] Naturalmente i piemontesi rimasero tali, i palermitani anche e così via. Questa diversità — esperimentata e manifestata — non impedì tuttavia la diffusione dell’idea dell’appartenenza alla stessa stirpe perché — dato il suo carattere ideologico — questa idea può benissimo coesistere con idee contrastanti. Sullo sfondo della questione sta il rapporto tra Stato burocratico accentrato ed ideologia nazionale. Questo Stato è una «comunità di vita e di morte». In tutti gli Stati moderni si deve uccidere e morire per la patria. Ma soltanto negli Stati centralizzati questi legami tra il cittadino e lo Stato si basano su un solo centro di potere al quale vengono subordinati tutti gli altri centri della vita sociale.
Negli Stati decentrati le piccole e medie comunità, che si mantengono senza apparato militare e organizzano soltanto la pacifica vita normale dei cittadini, sono abbastanza autonome. Di conseguenza gli individui hanno esperienza sia del valore della vita ordinaria che della diversità delle organizzazioni sociali. Al decentramento corrisponde pertanto una rappresentazione della società a carattere articolato e pluralistico, nella quale la vita comune dell’uomo medio, nelle sue concrete individuazioni, resta molto in vista (il Regno Unito e gli U.S.A. illustrano il caso. Vale la pena di rammentare che gli americani del nord pensano alla loro patria come agli Stati: the States). Una rappresentazione di questo genere induce a pensare la società come un insieme di individui piuttosto che come un tutto indistinto, la «nazione»; e impedisce altresì di considerare il bene della società come un bene diverso da quello dei singoli cittadini.
Negli Stati accentrati si verifica il contrario. Non esiste nessun centro autonomo di vita associata all’infuori dello Stato stesso. Tutto ciò che gli individui fanno viene perciò riferito ad una sola idea della società e giudicato in funzione del vantaggio o dello svantaggio dello Stato prima che in funzione del vantaggio o dello svantaggio dei singoli, delle loro comunità locali o di particolari rami dell’attività umana. Per queste ragioni all’accentramento corrispondono scale di valori nelle quali la vita comune dei singoli individui conta poco, e rappresentazioni a carattere monolitico ed uniforme della società. La società viene pensata come un tutto — la «nazione» — piuttosto che come un insieme di individui. E’ questo modo di pensare che permette di considerare eguali due individui — in ipotesi il torinese ed il palermitano — contro l’esperienza della loro differenza. Ed è a questo modo di pensare che si deve l’idea di un bene della nazione (il tutto) concepito come un bene diverso da, e superiore a, quello dei singoli individui, la cui vita conta poco rispetto alla gloria e alla potenza della nazione. Questa differenza tra società decentrate e accentrate si mantiene anche nei casi estremi. Un inglese, che in pace non ha il servizio militare obbligatorio, deve rischiare la morte in guerra per difendere le libertà degli inglesi, vale a dire anche per le sue libertà. Un italiano deve invece affrontare la morte per la libertà della nazione, il suo onore, la sua gloria, la sua grandezza.
La differenza tra accentramento e decentramento si manifesta in modo concreto nella organizzazione dello Stato. Lo Stato decentrato, nel quale il potere politico si mantiene senza imporre, contro il senso comune, l’idea che tutti i sottoposti sarebbero della stessa «stirpe», non si occupa direttamente della scuola. Lo Stato accentrato invece ha un ministero della pubblica istruzione, mediante il quale i partiti politici e la burocrazia ministeriale controllano l’idea che i cittadini si fanno delle loro relazioni sociali in modo diretto con la elaborazione dei programmi scolastici, ed in modo indiretto con l’influenza generata dalla politicizzazione della scuola. Col mezzo scolastico, col servizio militare obbligatorio, e con tutti i riti ed i simboli della vita associata, lo Stato accentrato elabora e assicura l’idea della «stirpe» comune dei sottoposti, del carattere «sacro» o «naturale» dei confini, idea che trasforma il dato storico dell’appartenenza ad uno Stato nella «nazione» come fatto divino o di natura, indipendente dalla volontà umana.
[9] Bisogna tuttavia osservare che, a scadenza lunga, la divisione nazionale-straniero, giusta la previsione di Mazzini, si dimostrò più forte di quella capitalista-proletario, fatto che corrisponde, del resto, alla maggiore importanza delle divisioni statali rispetto a quelle partitiche. In certo modo il socialismo della prima maniera — col suo ingenuo internazionalismo — ebbe, rispetto al proletariato, una funzione analoga a quella della nazione ideale (con elementi supernazionali) rispetto alla borghesia, nel senso che costituì una piattaforma di transizione dai vecchi ai nuovi sentimenti nazionali.

 

 

 

 

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