IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXII, 1980, Numero 4, Pagina 270

 

 

DEMOCRAZIE IN CRISI
 
 
L’ultimo scritto di Gino Germani, «Democrazia e autoritarismo nella società moderna», Storia contemporanea, aprile 1980, costituisce, in un periodo di profonde incertezze e di diffusi timori come l’attuale, una delle analisi più lucide e rigorose dei mali che affliggono il mondo d’oggi. L’ampiezza della visione, la capacità di ricollegare in un coerente quadro concettuale i fattori endogeni ed esogeni della crisi delle democrazie contemporanee, la tensione morale che s’avverte in ogni pagina del saggio fanno pensare a un vero e proprio «testamento spirituale». Poco prima della prematura scomparsa, Germani pare rivolgersi non solo ai colleghi e agli «addetti ai lavori», ma a quanti avvertono sempre più penosamente la progressiva riduzione degli ambiti di libertà e di creatività nelle stesse società democratiche occidentali. La sociologia politica si converte in filosofia politica.
Chi abbia una qualche conoscenza delle ricerche compiute dall’Autore in aree cruciali della storia contemporanea, può essere tentato, forse, di vedere nel saggio in esame null’altro che una ricapitolazione, sia pure di rara efficacia e di innegabile impegno teorico, di tesi già esposte da Germani nei suoi innumerevoli lavori sui processi di secolarizzazione e di modernizzazione, sul fenomeno urbano, sui ceti marginali e devianti, sui regimi autoritari e totalitari. Ciò sarebbe francamente riduttivo. La profonda novità del testo sta invece nella consapevole proiezione di precedenti e circostanziate analisi storiche e politologiche in una prospettiva mondiale. Il riconoscimento «che con la società moderna si inizia realmente la storia universale, cioè su scala planetaria» non rimane confinato infatti sul piano della retorica, ma tende a diventare una delle prospettive fondamentali da cui ripensare le ragioni degli odierni insuccessi delle società democratiche.
Il dramma del mondo contemporaneo, per Germani, sta agli inizi nella contraddizione tra il carattere espansivo del processo di secolarizzazione — definito come la tendenza a rimettere in discussione la sacralità di ogni sistema di valore, di ogni istituzione, di ogni norma — e la necessità di salvaguardare, nel perenne mutare degli obiettivi perseguiti dagli individui e dai gruppi, quello che Laski chiamava l’«accordo sui principi fondamentali». In società che — sempre più simili a meccanismi complessi — richiedono una crescente differenziazione e specializzazione dei ruoli e vedono nel mutamento la condizione di sopravvivenza e di progresso, diventa quanto mai problematico integrare con successo il crescente coacervo di ceti, di classi, di settori lavorativi, i cui valori mondani e secolari sono spesso incompatibili.
Come i grandi pensatori controrivoluzionari del secolo scorso, Germani è preoccupato innanzitutto del «cemento» che tiene assieme i mattoni dell’edificio sociale. Senza un nucleo centrale prescrittivo minimo sufficiente per l’integrazione, la moltiplicazione disordinata di centri di interessi e di poteri (quello che potremmo definire un pluralismo malato), rischia di precipitare la società nel caos di conflitti permanenti e senza sbocchi. In queste condizioni, il consenso può essere ricostituito, ad esempio, attorno alla nazione — come comunità di destino, sottratta alle preferenze individuali, e quindi alla libertà che caratterizza le scelte dell’uomo «secolarizzate» — o può venire imposto da qualche soluzione autoritaria (di destra o di sinistra) ai conflitti che minacciano di lacerare la comunità politica. La secolarizzazione (e la modernizzazione) che è il prerequisito fondamentale della democrazia e del pluralismo liberale — solo chi non è vincolato all’ordine della società tradizionale può agire in piena autonomia, aderendo a questa o a quella formazione politica a seconda della sua scala di valori — rischia, in certi stadi dell’evoluzione storica, di costituire un fattore endemico di destabilizzazione destinato a bloccare il funzionamento delle istituzioni democratiche.
Come ciò si verifichi vien detto in poche pagine di esemplare chiarezza e concisione. Germani rileva gli effetti determinati dai diversi stadi di modernizzazione e di sviluppo, la mancanza di sintonia tra i valori iscritti nelle costituzioni politiche e quelli diffusi nella società civile, la disponibilità alla mobilitazione di masse non integrate o disintegrate (soprattutto in conseguenza di profondi mutamenti nei processi di produzione), la percezione, da parte delle élites dominanti, della mobilitazione come minaccia all’ordine sociale, i conflitti contro l’establishment, l’inesistenza (o inefficienza) di meccanismi politici adeguati per la soluzione dei conflitti, lo stato del sistema internazionale, il clima ideologico che caratterizza una certa area di civiltà. Si tratta di temi noti a quanti conoscono le indagini di Germani sul fascismo e sul peronismo. La novità sta nel prosieguo del discorso, là dove vengono individuati quei limiti della democrazia che non sono legati alla storia particolare di uno Stato, ma sono iscritti, per così dire, nella struttura stessa della società industriale. Un primo limite è costituito dall’estrema specializzazione delle conoscenze che impedisce il controllo popolare su decisioni politiche irreversibili (o le cui conseguenze possono esser di lunga durata) e favorisce, per converso, la crescita di burocrazie potenti e irresponsabili, monopolizzatrici delle informazioni e dei mezzi di propaganda. Un secondo limite assai più interessante sotto il profilo teorico, è costituito dalla contraddizione tra la necessità di pianificare il controllo e la distribuzione delle risorse (naturali e artificiali) e la divisione del mondo in oltre centocinquanta Stati sovrani. «La pianificazione (in tutte le sfere), scrive Germani, richiede una zona ogni volta più ampia d’applicazione tanto in senso geografico come nell’estensione temporale. Il problema del sistema monetario, quelli delle materie prime, delle armi nucleari, della difesa ecologica, della esplosione demografica, dei mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione richiedono una pianificazione a livello planetario». All’interno degli Stati nazionali nessuna scelta può essere veramente risolutiva. La non disponibilità di risorse essenziali alla vita economica crea sfiducia nelle classi di governo, semina il panico tra i più esposti all’impoverimento, rende oltremodo difficile il ricostituirsi del consenso, impedisce il rispetto delle regole del gioco. La paralisi della democrazia insomma. Occorrerebbe, per rimediare a questi pericoli, lo «Stato mondiale» che, tuttavia, se è pensabile dal punto di vista della tecnologia materiale, diviene inimmaginabile per la sua complessità organizzativa.
In polemica con le interpretazioni correnti dell’imperialismo (specie di scuola marxista), Germani vede comunque nei nazionalismi il più inquietante fattore di perturbazione nel mondo contemporaneo. Le ideologie progressiste — rileva acutamente — che, all’interno degli Stati, non si rassegnano a vedere nelle ingiustizie con cui la proprietà viene distribuita tra i cittadini un fatto di natura (e come tale immutabile), legittimano poi, a livello internazionale, le rendite di posizione e i monopoli naturali degli Stati più privilegiati. In realtà, «dentro la logica democratica non solo le tecnologie e il patrimonio scientifico, ma anche le materie prime, le vie di comunicazione naturali e artificiali, così come ogni altra risorsa di interesse comune per la popolazione del pianeta dovrebbero essere controllati da autorità sovranazionali, che rispondano al controllo democratico di questa popolazione. In nessun modo si può considerare democratico il principio che queste risorse, di qualsiasi natura, appartengano al popolo che si trovi, per così dire, ‘accidentalmente’ nelle condizioni di controllarlo». Essendo divenuto il mondo una unità indivisa di produzione e di scambio e avvertendo ormai la coscienza l’unità morale del genere umano, l’assenza di un ordine giuridico e politico tanto forte ed esteso quanto fitti e pervasivi sono divenuti i rapporti tra gli uomini, i gruppi e le classi dei diversi Stati, può anche essere giustificata sul piano della dura necessità, ma deve essere realisticamente riconosciuta come incompatibile con ogni autentica prospettiva democratica.
Sensibile al problema dell’ordine e della legittimità intrastatale, Germani, nel suo ultimo scritto, sembra proporre alla riflessione dei contemporanei il problema dell’ordine internazionale. Anche qui occorre «un accordo sui fondamenti», altrimenti qualsiasi attore politico irresponsabile e fornito di capacità di ricatto (per il controllo di materie prime, o di vie di comunicazione, o di tecnologie cruciali) può mettere a repentaglio la vita del pianeta. Come si vede, siamo dinanzi a un’analisi pessimistica e disincantata che, pur non trascurando il ruolo destabilizzante dei conflitti tra le superpotenze e il cinismo delle multinazionali, non si rifugia nelle consolanti certezze della vulgata marxista. Va rilevato, tuttavia, che il pessimismo è giustificato, ma eccessivo. L’organizzazione politica del mondo è certo assai lontana, ma la riduzione sostanziale degli attori politici in conflitto può costituire l’inizio di una lenta marcia verso quella meta. Quella riduzione fu già perseguita, negli anni trenta e quaranta, dai totalitarismi di destra mercé la creazione di spazi vitali e imperiali che rinviavano a un’etica politica inaccettabile, in quanto fondata sulla sopraffazione e su concetti di gerarchia e di subordinazione incompatibili con la morale occidentale. Ma può essere perseguita con altri metodi più consoni alla sensibilità etica moderna, ad esempio costituendo federazioni di popoli che, per ragioni politiche, strategiche, economiche e culturali intrattengono tra loro rapporti più frequenti ed essenziali che con altri popoli.
Oggi molti politici e intellettuali di sinistra vanno riscoprendo la vitalità e la necessità degli Stati nazionali; simboli ieri visti con diffidenza vengono come riconsacrati, ideologie politiche tardo medievali come il solidarismo cattolico sono condannate proprio in ciò che hanno di progressivo — la capacità di trascendere le frontiere nazionali. Dinanzi a questi tentennamenti e ripiegamenti, può essere opportuno rimeditare quest’ultima lezione di Germani, il suo invito a considerare seriamente come «proprio nel momento in cui le necessità strutturali hanno reso obsoleta l’organizzazione in Stati nazionali, le ideologie nazionaliste si intensificano creando nuovi ostacoli alla creazione di una comunità internazionale che costituirebbe una componente necessaria per il sorgere di meccanismi adeguati per assicurare la sopravvivenza sociale, culturale e fisica delle società umane».
 
Dino Cofrancesco
(novembre 1980)

 

 

 

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